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In occasione del rito degli Argei, officiato il 14 di Maggio160, le vestali dal ponte Sublicio gettavano nel Tevere ventisette161 fantocci dalle fattezze umane.

Secondo ROCCA (2016), le fonti non dicono chiaramente perché si officiasse questo rito e non tramandano “una ‘storia’ ideologica, che non sembri creata a

posteriori, sugli Argei”.

Lattanzio, nelle Institutiones, parla del rito al principio del capitolo 21162 del I libro e, sebbene non menzioni mai gli Argei, è chiaro che si riferisce ad essi sia dalla descrizione del rituale sia dalla citazione di sei versi ovidiani relativi a questo tema.

Stando all’apologista, il rito romano sarebbe il retaggio di un culto sanguinario particolarmente esecrabile perché a celebrarlo non erano i barbari, sul conto dei quali “non est adeo mirandum, quorum religio cum moribus congruit”, ma i “nostri […] qui semper mansuetudinis et humanitatis sibi gloriam

uindicauerunt”163.

Riportiamo di seguito il testo lattanziano relativo agli Argei, in modo che il lettore possa valutare al meglio le considerazioni che verranno:

Apparet tamen antiquum esse hunc immolandorum hominum ritum, siquidem Saturnus in Latio eodem genere sacrificii cultus est, non quidem ut homo ad aram immolaretur, sed ut in Tiberim

160 O il 15, cf. D.H. I.38.

161 Dionigi di Alicarnasso (cf. D.H. I.38) parla di trenta manichini, ma questo numero deriva con ogni probabilità da una sistemazione dello storico greco in riferimento alle ‘curiae’, cf. COARELLI (2016).

162 Lattanzio, dopo aver dedicato il capitolo 20 alle divinità dei Romani, apre il capitolo 21 dichiarando di voler trattare nello specifico delle cerimonie sacre: “Diximus de diis ipsis, qui coluntur: nunc de sacris ac mysteriis eorum pauca dicenda sunt”. In questo capitolo, per la verità, l’apologista non si limita a parlare dei ‘sacra’ dei Romani, ma fa riferimento anche a riti di altri popoli sui quali noi non ci soffermeremo in ragione dei confini tematici che abbiamo imposto al nostro lavoro.

de ponte Muluio 164mitteretur. Quod ex responso quodam factitatum Varro auctor est: cuius responsi ultimus uersus est talis:

164 Le fonti pagane che riportano il nome del ponte lo chiamano ‘ponte Sublicio’, cf. e.g. VARRONEM ling. VII.44: “Argei ab Argis; Argei fiunt e scirpeis, simulacra hominum XXVII; ea quotannis de ponte Sublicio a sacerdotibus publice deici solent in Tiberim”. Anche nel passo del grammatico Cornelio Epicado (II – I sec. a.C.) relativo agli Argei e a noi tràdito da Macrobio (cf. MACR. Sat. I.11.46–49; cf. infra nel testo) il ponte del rito

viene identificato con il Sublicio. Ovidio (cf. OV. fast. V.621–662; cf. infra nel testo),

d’altra parte, non indica il nome del ponte.

L’autore dei Fasti, in questo caso, deve essere fonte di Lattanzio, dato che i quattro distici ovidiani citati dall’apologista (vv. 621–622 e 629–632), contigui solo in parte, difficilmente potrebbero derivare da una fonte non dichiarata.

Si è pensato, quindi, che Lattanzio avesse commesso l’errore di identificare il ponte degli Argei con il ponte Milvio proprio perché la sua fonte principale non ne riportava il nome: cf. RE Wissowa et all. (a cura di), p.689.

NICHOLSON (1984), in effetti, ha ragione quando afferma quanto segue: “there is […] no reason to suspect that the mention of the Milvian Bridge, whether deliberate or accidental, does not come from Lactantius himself: all Mss. of Inst. agree in the reading. Also it would appear unlikely that we are dealing with an error copied by Lactantius from a source. Two literary authorities are quoted in our passage, Ovid and Varro. Ovid does not name the bridge […]. The quotation from Varro probably derives from the lost Religious Antiquities and does not give the bridge a name, but in his surviving work On the Latin Language Varro expressly places the ceremony on the Sublician Bridge. So the explanation of the mention of the Milvian Bridge is to be sought in Lactantius himself”. A nostro giudizio, però, poiché tutti i predecessori di Lattanzio che nominano il ponte fanno riferimento al ponte Sublicio, la sostituzione di quest’ultimo col ponte Milvio non deve essere accidentale – come sosteneva Wissowa –, ma, piuttosto, intenzionale. Lo stesso Nicholson è di questo avviso, anche se arriva a dare una spiegazione che ci appare poco probabile: secondo lo studioso, dato che Lattanzio attacca Massimiano e Ercole – “his patron” – per crimini “strikingly similar”, è possibile che anche in questo caso “his account […] may be intended to recall a particular incident which may have occurred in Maximian’s reign”.

Se è vero che “Maximian too once came to Rome with victories in Spain to celebrate”, non conosciamo la data in cui Massimiano giunse a Roma e ignoriamo il carattere dei festaggiamenti che accompagnarono il suo arrivo. Ammesso, infine, che egli sia arrivato in tempo per il rito del 14 maggio del 298 e che abbia preso parte al rito degli Argei per festeggiare le vittorie in Spagna, bisognerebbe anche postulare che “on this occasion the ceremony was transferred from the ancient Sublician Bridge to the Milvian Bridge, ‘the principal entrance to the City of Rome’, in order to accomodate the crowds who had come to look on”.

‘καὶ κεφαλὰς Ἀίδῃ καὶ τῷ πατρὶ πέµπετε φῶτα’165, id est hominem. Quod quia uidetur ambiguum, et fax et homo iaci solet166. Verum id genus sacrificii ab Hercule, cum ex Hispania

rediret, dicitur esse sublatum, ritu tamen permanente ut pro ueris hominibus imagines iacerentur e scirpo, ut Ouidius in Fastis docet: ‘Donec in haec uenit Tirynthius arua, quotannis / Tristia Leucadio sacra peracta modo. / Illum stramineos in aquam misisse Quirites, / Herculis exemplo corpora falsa iace’. Haec sacra Vestales uirgines faciunt, ut ait idem: ‘Tum quoque

Differentemente da Nicholson, OGILVIE (1978, 26) propone una spiegazione molto più

semplice, ma comunque degna di nota: “he (sc. Lactantius) would have known of the battle of the Milvian Bridge in A.D.312”.

Se, infatti, la prima stesura delle Institutiones si fa risalire a un periodo compreso fra il 305 e il 310 – cf. DEPALMA DIGESER (1994, 50) – e, dunque, ad una fase anteriore al 312

– anno della Battaglia di Ponte Milvio –, Lattanzio avrebbe potuto modificare il nome del ponte durante la revisione ultimata nel 313, cf. DEPALMA DIGESER (1994e1999).

Perché la spiegazione suggerita da Ogilvie abbia fondamento, è comunque indispensabile che un eventuale nuovo esame della tradizione manoscritta riesca ad appurare che il nome ‘Milvio’ è stato introdotto nella seconda stesura delle Institutiones.

Ammesso e non concesso che Lattanzio abbia inserito questo nome nell’ultima versione dell’opera, la sostituzione del ponte Sublicio con il Milvio, da un lato, avrebbe permesso di rievocare la celebre Battaglia di Ponte Milvio, nella quale Costantino I, dedicatario dell’opera dell’apologista, sconfisse Massenzio, e dall’altro avrebbe consentito di contrapporre il “barbaro” rito romano degli Argei alla battaglia–simbolo del trionfo del Cristianesimo.

165 Anche Arnobio aveva fatto riferimento a questo oracolo, senza, tuttavia, metterlo esplicitamente in relazione con il rito degli Argei. Cf. ARNOB. nat. II.68: “Ante aduentum in Italiam Herculis cum ex Apollinis monitu patri Diti ac Saturno humanis capitibus supplicaretur, et hunc similiter morem non fraude callidula et nominum ambiguitate mutastis? ”. L’espressione “nominum ambiguitate” usata da Arnobio fa pensare al lattanziano “quod quia uidetur ambiguum” e ci invita a considerare la possibilità che il passo citato fosse presente a Lattanzio.

166 La parola ‘φῶτα’, che nel responso designa l’uomo da offrire al dio (Lattanzio scrive “id est hominem”), potrebbe significare anche “torce” perché in greco questa forma è interpretabile o come accusativo singolare del nome maschile ‘φώς’ [:uomo] o come l’accusativo plurale del neutro ‘φῶς’ [:luce]. Per questo motivo, Lattanzio arriva a dire che “et fax illi et homo iaci solet”.

priscorum uirgo simulacra uirorum / Mittere roboreo scirpea ponte solet’167.

L’apologista offre un solido sostegno al proprio resoconto, facendo riferimento a due celebri autori antichi: Varrone, in qualità di testimone dell’oracolo citato e del relativo sacrificio umano, e – come già anticipato – Ovidio.

Dal momento che è andato perduto il testo di Varrone relativo all’oracolo cui Lattanzio fa riferimento168, si deve ricorrere ai testimoni del responso che ancora oggi è possibile leggere: Dionigi di Alicarnasso169 e Macrobio170.

Dionigi cita l’oracolo parlando dell’arrivo dei Pelasgi in Italia, senza commentarne il verso conclusivo e senza soffermarsi sui presunti sacrifici umani riconducibili ad esso.

Va detto, d’altra parte, che lo storico, parlando espressamente del rito degli Argei 171 e delle sue origini cruente, non menziona l’esametro citato dall’apologista.

È evidente, dunque, che per Dionigi il rito degli Argei non ha a che vedere con l’oracolo di cui parla Lattanzio.

Macrobio, per parte sua, non parla degli Argei e tratta del responso in merito all’origine dei Saturnali. Come per Dionigi, anche per Macrobio, l’oracolo è legato allo stanziamento dei Pelasgi in Italia. Questi, stando ai Saturnalia, nel rispetto dell’oracolo, avrebbero compiuto sacrifici umani offrendo vere e proprie teste ad Ade e uomini a Saturno, ma Ercole, giunto in Italia, avrebbe posto fine agli spargimenti di sangue, attribuendo un diverso significato alle parole divine: non si dovevano sacrificare vere teste ad Ade e un uomo a Saturno, ma figurine di argilla a Dite e ceri a suo padre. Di qui l’usanza di scambiarsi lumi e fabbricare statuette di argilla durante i Saturnali.

167 LACT. inst. I.21.6–9.

168 Cf. NICHOLSON (1984, 135): “The quotation from Varro probably derives from the lost Religious Antiquities”.

169 Cf. D.H. I.19 e ss..

170 Cf. MACR. Sat. I.7.28e ss.. 171 Cf. D.H. I.38.

Questa ricostruzione delle origini dei Saturnali condivide due tratti significativi con quella proposta da Lattanzio sulla genesi del rito degli Argei: l’intervento di Ercole (menzionato anche da Dionigi a proposito degli Argei) e l’ambiguità dell’accusativo ‘φῶτα’.

Resta il fatto che i Saturnali e il rito degli Argei non sono in alcun modo collegati tra loro, e per Macrobio, proprio come per Dionigi, l’oracolo non ha a che fare con gli Argei.

A questo punto, o si riconosce a Lattanzio la bontà della connessione da lui istituita fra l’oracolo e gli Argei – e allora si ammette che tanto Dionigi quanto Macrobio si sono ingannati sulla collocazione dell’oracolo – oppure mettiamo in dubbio la testimonianza dell’apologista.

La questione può essere sciolta tramite un’analisi più puntuale del testo di Macrobio.

L’autore dei Saturnalia cita l’oracolo in un discorso introdotto da “sicut Varro

memorat”, mostrando così di conoscere il contesto nel quale Varrone aveva

inserito il responso.

Discutendo, d’altra parte, un passo di Cornelio Epicado172 palesemente riferito agli Argei, Macrobio lo scambia per una versione poco probabile delle origini delle feste Sigillari, facenti parte dei Saturnali.

Ma se Macrobio fraintende Epicado, essendo a conoscenza delle parole di Varrone relative all’oracolo, ciò deve significare che Varrone non aveva parlato del rito degli Argei nel commento al responso; e, visto che Lattanzio chiama in causa proprio Varrone come vettore del responso e garante di una connessione fra l’oracolo e gli Argei, si può concludere che l’apologista, pur sapendo che Varrone aveva citato l’oracolo senza riferirsi al rito degli Argei, ha voluto ugualmente proporre un collegamento fittizio tra l’oracolo e il rituale.

La cosa, per altro, sembra confermata dalla struttura che Lattanzio conferisce alla sua argomentazione. Come è evidente, il binomio “non quidem ut...” – “sed ut...” consente all’apologista di ridurre, in modo discreto, lo scarto tra la generica immolazione di un uomo presso un’ara e lo specifico rito che prevede di uccidere uomini gettandoli nel Tevere: “non tanto perché un uomo venisse immolato

presso un’ara, quanto perché veniva gettato nel Tevere dal ponte Milvio”; e, così, l’atto di gettare un uomo nelle acque di un fiume diviene equivalente a quello di sacrificarlo su un altare.

C’è poi da sottolineare la presenza, nel passo lattanziano, del nesso relativo ‘quod’, che confonde in via definitiva l’atto di immolare vittime umane e quello di gettarle nel fiume, con la conseguenza che Varrone diviene, suo malgrado, testimone di un legame tra l’oracolo e il rito degli Argei, quando invece, con ogni probabilità, egli era garante di un legame tra il responso e il sacrificio di uomini presso un altare.

Ma se è vero che Lattanzio ha creato intenzionalmente un collegamento fittizio tra l’oracolo tràdito da Varrone e il rito degli Argei, bisogna chiedersi perché egli sia andato proprio in questa direzione e, a tal proposito, non resta che chiamare in causa Ovidio, citato dall’apologista alla fine della sua ricostruzione.

Ai versi 621–662 del V libro dei Fasti, Ovidio, descritto rapidamente il rito, affronta la questione delle sue origini, proponendo quattro versioni alternative, delle quali accredita soltanto l’ultima173.

La seconda versione riportata dal poeta (vv. 625–632), della quale Lattanzio cita i versi 629–632, fa derivare il rito degli Argei da un oracolo che chiedeva di gettare due corpi nel Tevere in onore di Saturno: “falcifero libata seni duo corpora,

gentes, / mittite, quae Tuscis excipiantur aquis”174.

173 A conferma di come Ovidio voglia rendere la versione da lui prediletta il più possibile autorevole, si noti che essa, oltre ad avere collocazione enfatica a chiusura del discorso, prende ventotto versi contro i dodici complessivi delle tre precedenti e che, con un espediente poetico molto efficace, a riferirla non è il poeta, narratore delle altre tre, ma il Tevere personificato, testimone fededegno dei primordi del rito.

Secondo questa versione, i compagni di Ercole, stanchi del loro peregrinare, si stanziarono in territorio italico. Molti di loro, in punto di morte, ebbero nostalgia della terra patria e chiesero di essere gettati nel Tevere una volta morti, in modo che le acque del fiume potessero ricondurli al mare e, da lì, alla loro terra. I discendenti non ebbero il coraggio di assecondare la volontà dei defunti e, dopo averli sepolti, gettarono nel Tevere dei manichini di giunco che li ricordassero.

Lattanzio, dunque, appropriatosi di questa versione delle origini del rituale, deve aver scelto di sostituire all’oracolo ovidiano il responso tràdito da Varrone, anch’esso relativo – seppure in forma allusiva – a sacrifici cruenti in onore di Saturno.

Occore valutare, a questo punto, per quale ragione l’apologista abbia preferito introdurre l’oracolo tràdito da Varrone e non riportare, tramite parafrasi o citazione letterale, l’oracolo citato da Ovidio, che oltre a menzionare Saturno con la perifrasi “falcifero seni” si riferisce esplicitamente al Tevere con l’espressione “Tuscis aquis”, rimandando così con una certa chiarezza al rito degli Argei. Si può ipotizzare, allora, che l’oracolo ovidiano – scritto in latino e composto in distici elegiaci – sembrasse a Lattanzio non adeguatamente autentico e persuasivo, e che al contrario il responso tràdito da Varrone, per quanto privo di riferimenti ad un sacrificio nel Tevere, gli sembrasse più fededegno proprio perché scritto in greco e composto in esametri.

L’apologista, inoltre, deve aver preferito l’oracolo varroniano anche perché questa scelta gli permetteva di fondare il discorso non solo su Ovidio, ma anche su Varrone: in tal modo, venivano ad essere due i testimoni pagani che potevano mostrare la crudeltà del rito romano.

Resta da discutere, infine, l’atteggiamento che Lattanzio assume nei confronti di Ovidio.

Al riguardo, conviene notare che egli introduce la testimonianza ovidiana con la frase “Ut Ouidius in Fastis docet” lasciando intendere che il poeta condivide il contenuto dei versi citati.

Se, però, consideriamo l’intero passo di Ovidio relativo agli Argei, possiamo dire che i versi citati da Lattanzio si riferiscono ad una versione che il poeta riporta, ma non condivide (cf. n.173), e che, dunque, l’apologista altera la posizione dell’autore dei Fasti per fare di lui un testimone autorevole delle origini cruente del rituale175.

175 A proposito dei testimoni dell’oracolo greco di cui si è detto, OGILVIE (1978, 25) scrive quanto segue: “Lactantius and Macrobius quote the last line with Ἀίδῃ, D.H. with Κρονίδῃ: all three claim the authority of Varro [Dionigi, in effetti, rimanda a Varrone in I.14.1]. D.H. is likely to have reported Varro accurately and Ἀίδῃ is by way of a

trivialization. The fact [...] indicates that Lactantius derived it from a secondary source and not from Varro himself”.

Si noti, però, che l’alternativa tràdita da Dionigi, malgrado la considerazione di Ogilvie, potrebbe anche essere seriore rispetto all’altra, per le seguenti ragioni:

(1) Κρονίδης è iperonimo di Ἀίδης/ᾍδης. E più probabile, dunque, che la forma ‘Ἀίδῃ’ sia stata sostituita con la forma ‘Κρονίδῃ’, che non il contrario: qualora fosse stato ‘Κρονίδῃ’ il termine originario, non si vede perché si sarebbe dovuto identificare il Cronide proprio con Ade fra tutti i figli di Crono (cf. e.g. HES. Th. 452 e ss.);

(2) ‘Ἀίδῃ’ è prosodicamente più marcato di ‘Κρονίδῃ’ e potrebbe essere stato corretto con ‘Κρονίδῃ’ per difficoltà di scansione: la parola, infatti, può occupare la sequenza ˘ ˘ ¯ solo se si sillaba come ‘Ἀ-ί-δῃ’ e non come ‘ᾌ-δῃ’. ‘Κρονίδῃ’, invece, si può chiaramente sillabare in un unico modo.

Se le ragioni addotte hanno un qualche fondamento, malgrado le convinzioni di Ogilvie, la variante dell’oracolo con ‘Ἀίδῃ’ potrebbe anche essere quella più antica e, forse, proprio quella tràdita da Varrone. Non si può escludere, dunque, che Lattanzio e Macrobio leggessero direttamente la testimonianza varroniana.

Bisogna osservare, per altro, che la conoscenza da parte di Lattanzio e Macrobio del contesto nel quale Varrone ha citato l’oracolo non necessariamente dipende dalla cronologia relativa delle varianti: i due testimoni, infatti, avrebbero anche potuto leggere una versione seriore dell’oracolo, senza per questo ignorare il contesto varroniano di citazione dello stesso (a loro noto, per esempio, per il tramite di un commento molto affidabile).

Possiamo, a questo punto, riassumere l’opinione di WIFSTRAND SCHIEBE (1999) sul tema da noi discusso in questo capitolo: se, infatti, non condividiamo le conclusioni alle quali giunge la studiosa, esse offrono pur sempre una spiegazione alternativa a quella da noi indicata.

Marianne Wifstrand Schiebe sostiene che Lattanzio abbia affiancato alla lettura dei Fasti un commento all’opera ovidiana. Tale commento, in corrispondenza di fast. V.627es., avrebbe indicato che il distico deriva da un oracolo greco, e avrebbe riportato o l’intero testo del responso o, più probabilmente, solo il suo ultimo verso (espressamente indicato come tale). Dopodiché, il commento avrebbe fatto menzione di un’esegesi dell’oracolo da parte di Varrone e Lattanzio si sarebbe sentito in dovere di fare riferimento al grande erudito. Supponendo, infine, che l’oracolo greco contenesse una parte corrispondente al verso ovidiano 628 (“mittite, quae Tuscis excipiantur aquis”), e che anche Varrone commentasse tale parte, Lattanzio avrebbe concluso, del tutto in buona fede, che l’erudito aveva esplicitato nel suo testo il legame fra l’oracolo greco e il rito degli Argei.

Sebbene sia interessente l’ipotesi di un commento ai Fasti accostato da Lattanzio alla lettura dell’opera ovidiana, non possiamo condividere la ricostruzione della studiosa, nella misura in cui essa appare del tutto ipotetica e non supportata da dati.

XII

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