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Dopo aver trattato dei mortali divinizzati, Lattanzio strumentalizza un passo del VI libro dei Fasti ovidiani allo scopo di spiegare in termini osceni la presenza degli asini alle feste in onore di Vesta.

Riportiamo di seguito il testo dell’apologista:

Apud Lamsacum Priapo litabilis uictima est asellus, cuius sacrificii ratio in Fastis haec redditur: cum dii omnes ad festum Matris Magnae conuenissent epulisque satiati noctem lusibus ducerent, quieuisse humi Vestam somnumque cepisse; ibi Priapum somno eius ac pudicitiae insidiatum, sed illam intempestiuo clamore aselli quo Silenus uehebatur excitatam, libidinem uero insidiatoris esse deceptam. Hac de causa Lamsacenos asellum Priapo quasi in ultionem mactare consuesse, apud Romanos uero eumdem Vestalibus sacris in honorem pudicitiae conseruatae panibus coronari. Quid turpius, quid flagitiosius quam si Vesta beneficio asini uirgo est?219

Nel passo citato, Lattanzio lascia intendere che stando ad Ovidio i Romani erano soliti incoronare un asino con delle forme di pane perché l’asino di Sileno avrebbe impedito a Priapo di possedere Vesta. Se, tuttavia, recuperiamo il testo del poeta, le cose ci appaiono sotto una luce del tutto diversa.

È vero, infatti, che Ovidio nei Fasti220 espone l’aneddoto riportato da Lattanzio, ma lo presenta come un mero scherzo, indicando prima e dopo di esso la reale

219 LACT. inst. I.21.25–27.

220 Cf. OV. fast. VI.319–346: “praeteream referamne tuum, rubicunde Priape,/dedecus? est multi fabula parua ioci./turrigera frontem Cybele redimita corona/conuocat aeternos ad sua festa deos;/conuocat et satyros et, rustica numina, nymphas;/Silenus, quamvis nemo uocarat, adest./nec licet et longum est epulas narrare deorum:/in multo nox est peruigilata mero./hi temere errabant in opacae uallibus Idae,/pars iacet et molli gramine membra leuat;/hi ludunt, hos somnus habet; pars bracchia nectit/et uiridem celeri ter

spiegazione relativa alla presenza degli asini alle feste in onore di Vesta: “Ecce

coronatis panis dependet asellis/et uelant scabras florida serta molas./Sola prius furnis torrebant farra coloni/(et Fornacali sunt sua sacra deae):/subpositum cineri panem focus ipse parabat,/strataque erat tepido tegula quassa solo./inde focum seruat pistor dominamque focorum/et quae pumiceas uersat asella molas”221 [vv.319–346, contenenti lo “scherzo” di Vesta, Priapo e l’asino] “cessat opus, uacuae conticuere molae”222.

Come si può notare, l’asino viene incoronato con delle forme di pane non perché si ritiene che questo animale abbia preservato la verginità della dea, ma piuttosto perché i fornai e i mugnai rendono omaggio alla divinità del fuoco sospendendo l’attività lavorativa e celebrando Vesta per mezzo dell’animale che mette in funzione la macina.

In conclusione, è evidente la strumentalizzazione del passo ovidiano da parte di Lattanzio: l’autore delle Institutiones chiama in causa Ovidio sia per far ricadere sull’autore dei Fasti la responsabilità delle accuse da lui mosse, sia per apparire fededegno grazie alla menzione di un’autorevole fonte antica. Per perseguire questo duplice scopo, egli mistifica i contenuti ovidiani fino a stravolgere del tutto la posizione del poeta rispetto alla pratica cultuale di cui si è detto.

pede pulsat humum./Vesta iacet placidamque capit secura quietem,/sicut erat, positum caespite fulta caput./at ruber hortorum custos nymphasque deasque/ captat, et errantes fertque refertque pedes;/aspicit et Vestam: dubium nymphamne putarit/ an scierit Vestam, scisse sed ipse negat./spem capit obscenam, furtimque accedere temptat,/et fert suspensos corde micante gradus./forte senex, quo uectus erat, Silenus asellum/liquerat ad ripas lene sonantis aquae;/ibat ut inciperet longi deus Hellesponti,/intempestiuo cum rudit ille sono./territa uoce graui surgit dea; conuolat omnis/turba, per infestas effugit ille manus./Lampsacos hoc animal solita est mactare Priapo,/’apta’ canens ‘flammis indicis exta damus’ ”.

221 OV. fast. VI.311–318. 222 OV. fast. VI.348.

XV

I SALII

Alla fine del capitolo 21 del I libro, a chiusura della sezione espressamente dedicata alle divinità e ai riti dei Romani, Lattanzio sceglie di parlare del collegio dei Salii223 e lo fa in questi termini224:

(A) Si quis autem percepta sapientia deposuerit errorem, profecto ridebit ineptias hominum paene dementium, illos dico qui uel inhonesto saltatu tripudiant, uel qui nudi, uncti, coronati aut personati aut luto obliti currunt. Quid de scutis uetustate iam putribus dicam? Quae cum portant, deos ipsos se gestare umeris arbitrantur.

(B) Nam Furius Bibaculus inter praecipua pietatis exempla numeratur, qui, cum praetor esset, tamen lictoribus praeeuntibus ancile portauit, cum haberet magistratus beneficio muneris eius uacationem. Non ergo ille Furius, sed plane furiosus fuit, qui praeturam hoc ministerio se putauit ornare225.

Ad una prima lettura, può apparire fuori luogo, in un paragrafo interamente dedicato ai Salii, l’accenno ai Luperci226: “uel qui nudi, uncti, coronati aut

personati aut luto obliti currunt”.

223 I Salii, il cui nome deriva dal verbo ‘salire’, erano sacerdoti di Marte, che, all’inizio e alla fine del tempo della guerra, eseguivano una danza a tre tempi (tripudium) intonando il Carmen saliare e imbracciando scudi bilobati (ancilia), il primo dei quali sarebbe caduto dal cielo durante il regno di Numa, fondatore della confraternita.

224 Abbiamo scelto di articolare il testo nelle parti (A) e (B) per isolare due loci che dipendono da fonti distinte (cf. infra nel testo).

225 LACT. inst. I.21.46–48.

226 Confraternita dai tratti molto enigmatici. “Il 15 di Febbraio, giorno dei Lupercalia, dopo aver sacrificato un capro nella grotta del Lupercale, i Luperci, coperti soltanto da un perizoma di vello di montone, correvano attraverso il Palatino, sferzando con fruste ricavate dalla stessa pelle chiunque incontrassero sul loro cammino e in special modo le donne sterili, che speravano di ottenere così la fecondità”, CHAMPEAUX (ed. it. 2002, 42).

Il riferimento, tuttavia, può trovare una spiegazione se si osserva che Lattanzio dipende da Minucio Felice227 per quanto riguarda la parte ‘(A)’ del testo da noi riportato. Confrontiamo adesso il passo lattanziano con quello dell’Octauius:

MIN.FEL. 24 LACT. inst. I.21.45 e 46 Quorum ritus si percenseas, ridenda quam

multa et iam miseranda sunt! Nudi cruda hieme discurrunt, alii incedunt pilleati, scuta uetera circumferunt, […] mendicantes uicatim deos ducunt.

Si quis autem percepta sapientia deposuerit errorem, profecto ridebit ineptias hominum paene dementium, illos dico qui uel inhonesto saltatu tripudiant, uel qui nudi, uncti, coronati aut personati aut luto obliti currunt. Quid de scutis iam uetustate putribus dicam? Quae cum portant, deos ipsos se gestare umeris arbitrantur.

Seguendo il modello minuciano, Lattanzio insiste sul carattere ridicolo dei culti romani ed imita l’autore dell’Octauius preoccupandosi di invertire, rispetto a quest’ultimo, l’ordine dei riferimenti ai Luperci e ai Salii: se Minucio fa prima riferimento ai Luperci (“nudi […] discurrunt”) e poi ai Salii (“alii […] scuta

uetera circumferunt”), Lattanzio allude prima ai Salii (“qui uel inhonesto saltatu tripudiant”) e poi ai Luperci (“qui nudi […] currunt”), mantenendo, comunque, la

scelta minuciana di non nominare né gli uni né gli altri, ma di alludere ad essi tramite perifrasi.

Non sappiamo se il rituale dei Luperci avesse a che fare con la morte come molti riti di Febbraio. Varrone (cf. ling. VI.13), per parte sua, riconduceva i Lupercalia a un’istanza di purificazione.

Si notino, in particolare, le seguenti corrispondenze fra i due testi: • la protasi iniziale introdotta dalla congiunzione si;

• il verbo ‘rideo’ (“ridenda sunt”–“ridebit”);

• gli “scuta uetera” e il sintagma “de scutis uetustate putribus”; • il “circumferunt” di Minucio e il “portant” di Lattanzio;

• il lattanziano “nudi […] currunt” e il minuciano “nudi […] discurrunt”228. Per passare, ora, alla parte ‘(B)’ del testo lattanziano, la fonte adoperata dall’apologista sull’aneddoto relativo a Furio Bibaculo, come ha osservato MONAT (1986, 228), deve essere costituita da Valerio Massimo, il solo scrittore, almeno per noi moderni, che abbia tramandato l’episodio.

Riportiamo di seguito il testo dell’erudito pagano per agevolare il confronto con il passo di Lattanzio: “Obruitur tot et tam inlustribus consularibus L. Furius

Bibaculus exemplique locum uix post Marcellum inuenit, sed pii simul ac religiosi animi laude fraudandus non est. qui praetor a patre suo collegii Saliorum magistro iussus sex lictoribus praecedentibus arma ancilia tulit, quamuis uacationem huius officii honoris beneficio haberet: omnia namque post religionem ponenda semper nostra ciuitas duxit, etiam in quibus summae maiestatis conspici decus uoluit. quapropter non dubitauerunt sacris imperia seruire, ita se humanarum rerum futura regimen existimantia, si diuinae potentiae bene atque constanter fuissent famulata”229.

Come si può notare, la dipendenza dal testo di Valerio Massimo è suggerita, oltre che dal contenuto, anche dalla corrispondenza fra una serie di elementi specifici:

• il lattanziano “qui cum praetor esset” e il “qui praetor” di Valerio;

228 Si potrebbe persino ipotizzare che Lattanzio nella frase relativa ai Salii “deos ipsos se gestare humeris suis arbitrantur” dipenda dall’ultima frase di Minucio “mendicantes vicatim deos ducunt”, per quanto essa si riferisca alla questua dei galli di Cibele. In particolare, dal ‘deos ducunt’ di Minucio potrebbe dipendere il lattanziano ‘deos gestare’. 229 VAL.MAX. I.1.9.

• il “lictoribus praeeuntibus” dell’apologista e il “lictoribus praecedentibus” dello scrittore pagano;

• la frase “cum haberet, magistratus beneficio, muneris eius uacationem” che riprende la proposizione “quamuis uacationem huius officii honoris

beneficio haberet”;

• l’insistenza di Valerio Massimo sulla pietas di Furio (“sed pii simul ac

religiosi animi laude fraudandus non est”) e la ripresa lattanziana di

CONCLUSIONI

Per i risultati conseguiti a proposito di ciascun argomento si rimanda alle trattazioni dei singoli capitoli. In questa sede riporteremo soltanto le conclusioni a carattere generale.

Si è mostrato che nei capitoli 20 e 21 del I libro delle Institutiones Lattanzio si serve delle fonti pagane in maniera esplicita o implicita.

Egli, in particolare, dichiara la fonte di cui si è servito per conferire autorevolezza al proprio resoconto e per ottenere, al contempo, due distinti scopi:

1. Attribuire alle auctoritates pagane (mistificandone le testimonianze) la responsabilità delle accuse rivolte alla religione romana (cf. capp. I, X, XI, XII, XIII e XIV).

2. Confutare le auctoritates del mondo antico (cf. capp. I e III).

A proposito dell’uso implicito delle testimonianze, il comportamento di Lattanzio è duplice:

1. Egli rispetta le fonti delle quali si serve senza alterarne i contenuti (cf. l’uso di Seneca in capp. III e XII., quello di Ovidio in capp. IV, V e XIII e quello di Varrone (?) in cap. VIII);

2. Egli si serve dei testi antichi in conformità con le esigenze polemiche delle Diuinae institutiones (cf. capp. VI, VII, X, XV).

Le fonti cristiane, d’altra parte, sono utilizzate da Lattanzio sempre in maniera implicita e sempre nel rispetto dei loro contenuti.

L’apologista dipende prevalentemente da Minucio Felice (cf. capp. I, II, XII, XIII e XV), ma sembra servirsi anche di Arnobio (cf. capp. I, III, IX e XIII), Tertulliano (cf. capp. I e IX) e Cipriano (cf. cap. III).

Si noti, per altro, che l’autore delle Institutiones non si limita mai ad imitare i modelli cristiani, ma aggiunge ogni volta elementi originali che derivano o dalla integrazione delle fonti apologetiche con quelle pagane (cf. capp. I, III, XII, XIII, XV) o da aggiunte lattanziane indipendenti dalla tradizione (cf. capp. II, IX).

Si può notare, a questo punto, che la menzione di autori pagani in qualità di fonti sulla religione romana sembra un tratto più tipico dell’opera lattanziana che non degli apologisti di cui Lattanzio si serve nella sezione da noi esaminata230.

Se, infatti, l’autore delle Institutiones menziona più volte Ovidio con le finalità sopra indicate, né Minucio, né Cipriano, né Arnobio lo nominano esplicitamente: il solo Tertulliano lo menziona un’unica volta nell’Aduersus Valentinianos (12.1) e comunque senza fare riferimento ad alcun culto romano.

Livio, chiamato in causa da Lattanzio a proposito di Larentina, non è mai nominato da Tertulliano, Minucio, Cipriano e Arnobio. Ciò vale anche per Verrio Flacco, Quintiliano e Lucano, menzionati, come si è visto, dall’autore delle

Institutiones, ma non dagli apologisti precedenti.

Cicerone, mai menzionato da Minucio Felice e da Cipriano, è nominato da Tertulliano nel De anima (24, 33, 46) e nell’Apologeticum (50) e da Arnobio (III.7 e III.16), senza che il nome dell’Arpinate sia accostato alla discussione di specifici culti della religione dei Romani.

Varrone, infine, citato da Lattanzio come fonte del rito degli Argei e mai nominato da Minucio e Cipriano, è menzionato tredici volte da Tertulliano e undici volte da Arnobio, ma solo raramente la sua menzione è legata alla discussione di aspetti del paganesimo e solo in ARN. IV.3 l’erudito è menzionato come fonte di un culto romano in particolare – quello della dea Luperca.

Il procedimento che prevede un esplicito e costante richiamo ad autori pagani in relazione a culti specifici della religione romana sembra, dunque, un tratto di sostanziale novità che Lattanzio introduce nella tradizione apologetica.

Questo lavoro, del resto, ha messo in luce l’importanza di Lattanzio come fonte di notizie a noi altrimenti non pervenute o a noi giunte per il tramite di testimoni più tardi.

230 In generale, nelle Diuinae institutiones, Lattanzio si serve di un gran numero di fonti. COLOT (2016) si è soffermata su questo aspetto – “Lactance est au moins connu pour la

richesse et la varieté de ses sources” – e ha fatto notare che la editio princeps delle Institutiones risale al 1465 – appena sette anni dopo la prima versione a stampa della Bibbia (Mayence, 1458) –, aggiungendo che “l’intérêt des imprimeurs pour cette œvre s’explique notamment par la défi technique que raprésentait pour eux la composition d’un ouvrage dans lequel latin et grec alternent de façon régulière”.

L’apologista, infatti, è l’unico a tramandare una citazione relativa al culto di Faula (cf. cap. I) ed è il più antico testimone del culto di Venus Calua e di quello di Caca (cf. capp. IV e VII). Egli è, inoltre, il primo testimone diretto delle notizie su Cunina (cf. cap. VIII) e il solo a informarci di una declamatio quintilianea, intitolata Fanaticus, a noi altrimenti ignota (cf. cap. XII). Lattanzio, infine, è l’unico a identificare in Nemesi la divinizzazione di Leda e in Marica quella di Circe (cf. cap. XIII).

Questi dati, naturalmente, devono essere trattati con la massima cautela visto il carattere polemico e fazioso del testo delle Institutiones, quasi mai del tutto attendibile sulla religione dei Romani.

Considerato, però, che ciò che l’apologista afferma è in genere da mettere in relazione con le notizie riportate da fonti antecedenti, è possibile che anche quelle sue affermazioni in apparenza prive di legami con la tradizione risalgano o si ispirino a notizie tradizionali a noi non pervenute. Per questo motivo, dunque, Lattanzio può contribuire a problematizzare la nostra conoscenza dell’antico ed essere apprezzato come fonte del mondo romano.

In conclusione, rivolgeremo uno sguardo d’insieme alla sezione delle Diuinae

institutiones da noi esaminata: ciò potrà chiarire, infatti, per quali ragioni

Lattanzio abbia selezionato quelle divinità e quelle pratiche rituali di cui si è detto tra i tanti argomenti che avrebbe potuto trattare per descrivere la religione romana. L’intento dichiarato dall’apologista è quello di descrivere le “Romanorum

religiones” e l’esordio – “Venio nunc ad proprias Romanorum religiones…” –

suggerisce che la sezione appena cominciata sarà esaustiva.

Il resoconto lattanziano, tuttavia, è tutt’altro che una sintesi ben eseguita. È evidente, infatti, che Lattanzio parla del paganesimo romano per mostrarne l’immoralità231 e la risibilità232, e non per darne una descrizione compiuta.

231 Ricordiamo, a questo proposito, la collocazione in primo piano delle (presunte) meretrici divinizzate Larentina, Flora e Faula e la discussione delle figure di Tutinus, Magna Mater e Bellona.

232 Si pensi alla menzione di Cloacina, Pallor, Pauor, Venus Calua, Iuppiter Pistor, Fornax e Muta.

È anche vero, però, che l’autore avrebbe potuto soffermarsi su divinità ben più note di quelle da lui discusse, se il suo unico scopo fosse stato quello di mettere in evidenza il carattere immorale e ridicolo della religione romana.

L’apologista, dunque, deve aver scelto di dare spazio a figure marginali come Cloacina, Pauor, Pallor, Venus Calua, Iuppiter Pistor, Fornax, Muta, Caca, Cunina e Tutinus, per un motivo diverso.

Identificando la religione dei Romani con una serie di culti minori, Lattanzio sembra voler suggerire che i riti e gli dèi di Roma, prima ancora che immorali o ridicoli, sono per lo più insignificanti.

Questa ipotesi, in effetti, potrebbe trovare conferma nel seguente passo tratto dalla sezione delle Institutiones che abbiamo analizzato: “(sc. Romani) Non igitur

intellegunt quam uanae sint religiones uel ex eo ipso, quod eas his ineptiis cauillantur”233.

Appare plausibile, allora, che Lattanzio abbia scelto di discutere quelle divinità e

quei rituali, allo scopo di indicare, in parallelo, tre caratteristiche delle

“Romanorum religiones” che ai suoi occhi potevano screditare in via definitiva il paganesimo romano: l’immoralità, la risibilità e, soprattutto, la uanitas.

233 LACT. inst. I.20.28.

BIBLIOGRAFIA

Per quel che riguarda i testi in latino e in greco antico citati nel presente lavoro, i nomi degli autori e i titoli delle loro opere sono stati abbreviati secondo le convenzioni del Thesaurus Linguae Latinae e del Liddell Scott Jones.

Ci si è serviti, per altro, delle seguenti banche dati:

• Cross Database Searchtool (accesso consentito tramite le credenziali di Ateneo): http://clt.brepolis.net/cds/pages/Search.aspx

• Epigraphik-Datenbank Clauss/Slaby (accesso libero): http://db.edcs.eu/epigr/epi.php?s_sprache=it

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