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Fra le numerose divinità pagane discusse nelle Institutiones, Lattanzio dedica le seguenti parole ad una divinità di nome Cunina che, stando alle fonti di cui disponiamo, sarebbe stata la dea protettrice dei bambini in culla:

Colitur […] et Cunina, quae infantes tuetur in cunis ac fascinum submouet133.

Il riferimento lattanziano a questa divinità, per quanto estremamente cursorio, risulta di grande interesse, se si bada al fatto che l’apologista è per noi moderni il più antico testimone diretto sulla dea134. Oltre a Lattanzio, infatti, gli unici scrittori a parlare di Cunina sono Agostino135 e Nonio Marcello136, entrambi più tardi del discepolo di Arnobio137.

Va detto, comunque, che Nonio è vettore di un locus del perduto Catus uel de

liberis educandis di Varrone, illuminante non solo sulla tradizione anteriore a

Lattanzio, ma anche sulla fonte da quest’ultimo presumibilmente adoperata. Riportiamo di seguito il passo di Nonio Marcello: “RUMAM ueteres mammam

dixerunt. Varro ‘Cato uel de liberis educandis’: ‘his Semonibus lacte fit, non uino; Cuninae propter cunas, Ruminae propter rumam, id est prisco uocabulo mammam; a quo subrumi etiamnunc dicuntur agni’ ”138.

133 LACT. inst. I.20.36.

134 Si ricorda che vale lo stesso per il culto di Venus Calua e il (presunto) culto di Caca, cf. supra.

135 Cf. AVG. ciu. IV.8 (ll. 3 e 39), IV.11, IV.21, IV.24 e IV.34. 136 Cf. NON. p.246 L.

137 Non disponiamo neppure di testi epigrafici contenenti un qualche riferimento alla divinità. I tre testimoni, comunque, sono concordi nel ricondurre il nome di Cunina alle ‘cunae’ dei neonati.

138 Cf. n.136. Per quanto riguarda l’intepretazione dell’inizio della citazione varroniana (“his Semonibus..”) cf. l’apparato critico di Lindsay.

Anche nel De ciuitate Dei, per tre delle sei volte139 in cui Agostino menziona Cunina, la dea è accostata a Rumina e, per giunta, l’introduzione di Nonio al passo di Varrone (“Rumam ueteres mammam dixerunt”) non può non essere messa in relazione con l’espressione agostiniana “quia rumam dixerunt ueteres

mammam”140. Esula, comunque, dai limiti del nostro lavoro chiarire se vi sia un rapporto di dipendenza fra l’opera di Nonio e quella di Agostino, o se Agostino, piuttosto, dipenda direttamente da Varrone.

Ciò che, invece, sembra degno di una attenzione particolare è il fatto che la citazione varroniana contenuta nel De compendiosa doctrina – oltre a garantire che la figura di Cunina non è invenzione della tarda latinità – suggerisce quale potesse essere la fonte di Lattanzio sul conto della dea: forse proprio il Catus di Varrone oppure un’altra opera varroniana a noi non pervenuta, visto che nel Catus l’erudito mostra di conoscere Cunina e di ritenerla degna delle sue considerazioni. Vi è, in effetti, un elemento, in ciò che scrive Lattanzio su Cunina, che non si ritrova né nella citazione di Nonio del Catus né in Agostino, ovvero la precisazione che la dea “fascinum submouet”.

Se il riferimento al malocchio non va attribuito alla libera interpretazione di Lattanzio, bisogna che l’autore delle Institutiones lo abbia ripreso da un’altra fonte che, visto il riferimento a Cunina nel Catus, potrebbe ben essere Varrone, in qualità di autore del Catus o di un’altra opera a noi non pervenuta.

139 Cf. AUG. ciu. IV.11, 21 e 34. 140 Cf. AUG. ciu. IV.11.

IX

TVTINVS

Dopo aver menzionato Cunina, Lattanzio fa riferimento in maniera altrettanto rapida al dio Tutinus:

Colitur […] et Tutinus, in cuius sinu pudendo nubentes praesident, ut illarum pudicitiam prior deus delibasse uideatur141.

Come fa notare FAYER (2005), del rito relativo al dio parlano solo gli autori cristiani, i quali dovettero riesumare una pratica di antica orgine e presto caduta in disuso, soltanto “perché offriva un valido motivo per biasimare e condannare i riti celebrati in onore degli dei pagani”142.

Festo che è l’unico testimone pagano a menzionare questo dio (senza, tuttavia, fare riferimento al rito), lo chiama ‘Mutinus Titinus’ e scrive: “Mutini Titini

sacellum fuit in Veliis”143.

Gli apologisti, d’altra parte, tendono a parlare di un ‘Mutunus’ e di un ‘Tutunus/Tutinus’, intesi come figure distinte144, anche se, dopo Lattanzio, Agostino intende ‘Mutunus’ e ‘Tutunus’ come nomi alternativi per una stessa figura che andrebbe identificata con l’equivalente romano del greco Priapo145. Quale sia la fonte antica cui attingono i primi apologisti è difficile da stabilire e, del resto, è questione solo indirettamente legata al nostro studio146.

A giudicare, infatti, da un passo di Arnobio relativo a questa divinità, si può pensare che il testo di Lattanzio derivi proprio da quello del suo maestro, senza che l’autore delle Institutiones abbia attinto da una fonte pagana.

141LACT. inst. I.20.36.

142 FAYER (2005, II, 554).

143 FEST. p.142 L. (= p.154 M. = p.144–146 Th.). 144 Cf. TERT. nat. II.11 e ARNOB. nat. IV.11. 145 Cf. AUG. ciu. IV. 11.

146 Si potrebbe pensare, in effetti, ad una relazione, autentica o presunta dagli apologisti, fra il dio Mutinus Titinus menzionato da Festo e le parole ‘mutto’ [:pene] in LUCIL. 307 e

HOR. sat. I.2.68, ‘mutunium’ [:pene] in CIL IV.1939 e 1940 e ‘mutuniatus’ [:avente un

Per dar sostegno a quanto detto, confronteremo il testo di Arnobio con il passo di Lattanzio: “Etiamne Tutunus, cuius inmanibus pudendis horrentique fascino

uestras inequitare matronas et auspicabile ducitis et optatis?”147.

È evidente, anzitutto, che dal punto di vista del contenuto il lattanziano “et

Tutinus, in cuius sinu pudendo nubentes praesident” presuppone la frase di

Arnobio “Etiamne Tutunus, cuius inmanibus pudendis horrentique fascino”. A ben guardare, del resto, vi sono chiari elementi strutturali e lessicali che rendono certi della dipendenza dell’allievo dal maestro: in entrambi i casi, infatti, la frase principale è ellittica del predicato ed è seguita da una proposizione relativa introdotta da ‘cuius’ (ARNOB. nat. “cuius immanibus” e LACT. “in cuius

sinu”), mentre il ‘pudendo’ di Lattanzio scaturisce dal ‘pudendis’ di Arnobio.

Se è vero, per altro, che Tertulliano e Arnobio distinguono un ‘Mutunus’ da un ‘Tutunus’, ciò non impedisce di notare una certa somiglianza fra il contesto all’interno del quale Lattanzio nomina Tutinus e quello in cui, nell’Apologeticum, Tertulliano nomina Mutunus, dato che in entrambi i casi la menzione di Mutunus/Tutinus è preceduta da quella di Sterculus. Si confrontino i seguenti loci:

• Colitur […] et Sterculus qui stercorandi agri rationem primus induxit, et

Tutinus […].LACT. inst. I.20.36.

• Sterculus et Mutunus et Larentia prouexit imperium. TERT. apol. 25.3. Perché si possa ipotizzare anche una influenza di Tertulliano su ciò che Lattanzio scrive, è necessario ammettere che le figure di Mutunus e Tutunus, per quanto distinte in Tertulliano e in Arnobio, siano considerate, in ambito apologetico, tanto affini da permettere all’autore delle Institutiones di mutare il tertullianeo “Sterculus et Mutunus” in “Sterculus […] et Tutinus”148.

E, in effetti, una qualche affinità fra queste due figure doveva esserci, almeno agli occhi degli apologisti, se lo stesso Tertulliano riconduce “et Mutunus et

147 ARNOB. nat. IV.7.

148 Vista la prossimità fra Tutinus e Mutunus anche negli apologisti che tengono distinte le due figure (cf. infra nel testo), si può anche pensare che Lattanzio avesse confuso le due figure proprio per la loro affinità o che, addirittura, nel testo dell’Apologeticum di cui disponeva Lattanzio si leggesse ‘Tutinus’ e non ‘Mutunus’.

Tutunus”149 al contesto nuziale e Arnobio scrive “Et quia non supplices Mutuno

procumbimus atque Tutuno, […]?150”.

Con ogni probabilità, dunque, l’autore delle Institutiones dipende, per quel che concerne il riferimento a Tutinus, da Arnobio e da Tertulliano, prescindendo, a quel che sembra, dalle fonti pagane.

Se questa analisi è corretta, la spiegazione che Lattanzio propone del rito riguardante Tutinus (“[…] ut illarum pudicitiam prior deus delibasse uideatur”) deve essere intesa come originale e non derivante dalle fonti da lui adoperate. Si tratta, del resto, di una spiegazione piuttosto banale, che potrebbe benissimo essere stata inventata ad hoc dall’apologista senza ricorrere ad altre testimonianze.

149 TERT. nat. II.11.

X

TERMINVS

Alla fine del capitolo 20 del I libro, Lattanzio concede ampio spazio al culto di Terminus, nella convinzione che ne possa derivare un’efficace polemica sul paganesimo romano.

L’apologista, in effetti, fa subito notare che le più bizzarre forme di idolatria sono meno assurde di questo culto perché i simulacra adorati, per quanto “monstruosa

et ridicula”, hanno pur sempre “aliquam imaginem”, mentre adorare Terminus

equivale a venerare “lapidem informem ac rudem”.

Alla fine del passo, per giunta, come in una composizione anulare, Lattanzio ribadisce il concetto, definendo Terminus “qui non tantum lapis, sed etiam stipes

interdum est”, con la conseguenza che quanti venerano una tanto grezza entità non

possono che essere essi stessi “lapides ac stipites”.

Entro questa cornice, l’apologista narra le origini del culto, mostrando di conoscere dettagli che noi moderni possiamo ricavare solo dalla somma di due fonti pagane: Tito Livio151 e i Fasti di Ovidio152.

Lo scopo del presente capitolo sarà quello di analizzare il rapporto che Lattanzio intrattiene con le testimonianze relative a Terminus, nel tentativo di stabilire fino a che punto egli le segua, rispettando la tradizione pagana153.

Riportiamo, prima di tutto, le parole di Lattanzio sui primordi del culto del dio, per rendere più comprensibili le considerazioni a seguire:

Et haec (sc. simulacra) tamen habent aliquam imaginem. Quid qui lapidem colunt informem ac rudem cui nomen est Terminus? Hic est quem pro Ioue Saturnus dicitur deuorasse. Nec immerito illi

151 Cf. LIV. I.55.

152 Cf. OV. fast. II.639–684.

153 Una ricognizione dei testi di Minucio Felice, Tertulliano e Arnobio, spesso presupposti da Lattanzio, ci ha consentito di rilevare che nessuno di loro ha mai trattato del dio Terminus. Da ciò si può dedurre che le affermazioni relative al culto di questa divinità da parte dell’autore delle Institutiones non dipendono, con ogni probabilità, da scrittori cristiani anteriori a Lattanzio.

honos tribuitur. Nam cum Tarquinius Capitolium facere uellet atque in eo loco multorum deorum sacella essent, consuluit eos per auguria utrum Ioui cederent, et cedentibus ceteris solus Terminus mansit. Vnde illum poeta “Capitoli immobile saxum” uocat. Iam ex hoc ipso quam magnus Iuppiter inuenitur, cui non cessit lapis, ea fortasse fiducia quod illum de paternis faucibus liberauerat. Facto itaque Capitolio supra ipsum Terminum foramen est in tecto relictum, ut, quia non cesserat, libero caelo frueretur quo ne ipsi quidem fruebantur qui lapidem frui putauerunt. Et huic ergo publice supplicatur quasi custodi finium deo, qui non tantum lapis, sed etiam stipes interdum est. Quid de his dicas qui colunt talia, nisi ipsos potissimum lapides ac stipites esse?154

Se confrontiamo la ricostruzione proposta da Lattanzio con le notizie riportate da Livio e da Ovidio, si può notare che il personaggio di Tarquinio, nominato dall’apologista, compare nel resoconto di Livio, ma non nei Fasti, e che una menzione esplicita del Campidoglio, pari a quella fatta da Lattanzio, si riscontra in Ovidio (“Capitolia”), ma non in Livio, che parla dello stesso luogo con un altro nome (“monte Tarpeio”).

Si osserva, inoltre, che l’intervento degli auguri, segnalato da Lattanzio con l’espressione “per auguria”, è presente nel resoconto liviano (“exaugurationes”, “augurium”), ma non in Ovidio, mentre il “foramen” del tempio capitolino, di cui l’apologista dà notizia, viene nominato e spiegato nei Fasti (“templi tecta foramen

habent”), ma non da Livio.

Notiamo, infine, che l’identificazione di Terminus non solo con una pietra (“non

tantum lapis”), ma anche con un tronco piantato nel terreno (“sed etiam stipes”), è

assente in Livio, ma presente nei Fasti, dove il poeta scrive “Termine, siue lapis

siue es defossus in agro / stipes”.

Per riassumere, si può dire che nelle parole che Lattanzio dedica al culto di Terminus si riscontra la presenza di due particolari a noi tramandati solo da Livio

(Tarquinio e gli auguri) e di tre elementi tràditi solo da Ovidio (la menzione esplicita del Campidoglio, il foramen e lo stipes).

Da ciò si può dedurre che l’apologista avesse scritto la propria versione avendo ben presente tanto il resoconto ovidiano quanto quello di Livio.

Occorre, a questo punto, mettere in evidenza un particolare del resoconto lattanziano che Livio e Ovidio non possono confermare: Terminus, identificato dall’apologista con la pietra ingoiata da Saturno al posto di Giove, non sarebbe arretrato davanti a quest’ultimo sul Campidoglio, perché si credeva superiore a lui per averlo salvato dalle fauci paterne.

Livio e Ovidio, dal canto loro, se non si curano di fornire una spiegazione contingente del fatto che Terminus non arretra di fronte a Giove, esplicitano, comunque, il significato complessivo dell’episodio: l’inamovibilità della pietra, secondo loro, sarebbe stata auspicio della perpetua stabilità dei confini di Roma e della grandezza del suo Impero155.

Considerato che Lattanzio conosce a fondo la tradizione pagana su Terminus, è davvero improbabile che ad essergli sfuggito sia stato proprio il significato attribuito dalle fonti all’intero episodio: non un dettaglio qualunque, al modo del

foramen e dello stipes, ma al contrario l’anima della questione.

Se, poi, consideriamo il riferimento di Lattanzio al passo dell’Aeneis, in cui Virgilio allude a Terminus con una perifrasi (“Vnde illum poeta ‘Capitoli

immobile saxum’ uocat”)156, è facile constatare che, per quanto nel luogo virgiliano157 l’inamovibilità della pietra sia interpretata come auspicio della eternità di Roma, l’apologista, ancora una volta, mostra di voler passare sotto silenzio l’interpretazione corrente della resistenza di Terminus.

Riportiamo, di seguito, i versi virgiliani: “Fortunati ambo! Si quid mea carmina

possunt, / nulla dies umquam memori uos eximet aeuo, / dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum / accolet imperiumque pater Romanus habebit”.

155 Cf. LIV. I.55: Inter principia condendi huius operis mouisse numen ad indicandam tanti imperii molem traditur deos. [...] idque omen auguriumque ita acceptum est, non motam Termini sedem [...] firma stabiliaque cunta portendere. Hoc perpetuitatis auspicio accepto [...]”; e OV. fast. II.641–642: “Gentibus est aliis tellus data limite certo:/Romanae spatium est Vrbis et orbis idem”.

156 LACT. inst. I.20.38.

Come si può notare, con l’aggettivo ‘immobile’ il poeta vuole alludere alla genesi del culto di Terminus e all’auspicio legato alla sua resistenza per suggerire che la ‘domus’ di Enea abiterà in eterno il ‘Capitoli saxum’ e che perciò non si dovrà temere per il ricordo di Eurialo e Niso.

Lattanzio, per parte sua, pur citando le parole “Capitoli immobile saxum”, banalizza l’aggettivo ‘immobile’ e lo priva del significato attribuitogli da Virgilio. L’apologista, dunque, decide di omettere che venerare Terminus significava adorare l’eternità di Roma, e lo fa perché questa interpretazione dell’episodio può compromettere la spiegazione da lui proposta158.

L’identificazione di Terminus con la pietra ingoiata da Saturno è naturalmente funzionale allo scopo di denigrare lo stesso Giove: “Iam ex hoc ipso quam

magnus Iuppiter inuenitur, cui non cessit lapis”.

Bisogna anche notare, però, che questa versione del mito consente all’apologista di mettere in luce la rivalità fra Saturno e Giove, tema sul quale egli ritorna nel V delle Institutiones con queste parole: “Quomodo aut parentibus parcent qui

expulsorem patris sui Iouem aut natis ex se infantibus qui Saturnum?”159.

È probabile, allora, che Lattanzio insista su questo punto perché in tal modo può rappresentare l’ostilità fra padre e figlio come componente intrinseca al paganesimo romano e ribadire la superiorità morale del cristianesimo rispetto alle “Romanorum religiones”. A differenza, infatti, della religione dei Romani, il cristianesimo non si fonda sulla rottura del legame fra padre e figlio, ma sulla salda continuità di questo vincolo, esplicata dal rapporto fra Dio e il Cristo.

158 L’apologista, ai nostri occhi, non può che restare del tutto responsabile dell’omissione, anche quando si volesse attribuire l’associazione fra l’episodio della pietra e la grandeur romana non alle origini del culto, ma alla ideologia augustea che senz’altro permea le pagine di Livio e di Ovidio.

XI

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