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Il culto di Magna Mater177 è obiettivo polemico di diversi autori cristiani178, sia antecedenti sia successivi a Lattanzio.

176 Lattanzio, concluso il discorso sul rito degli Argei, dopo una digressione sui sacrifici umani compiuti dai Cartaginesi, riprende il discorso sui culti romani, trattando di Magna Mater e Bellona. Faremo precedere l’analisi del testo lattanziano dedicato a queste due divinità da un’introduzione relativa ai due culti.

177 Magna Mater è la prima divinità orientale accolta a Roma, a dire il vero più per ragioni politiche e militari che non spirituali: “nel 205 i decemviri lessero nei Libri Sibillini che, per cacciare definitivamente Annibale dall’Italia, si doveva far venire [dalla Frigia] la Madre degli dei […]. Livio (XXIX. 10–11 e 14) e Ovidio (Fasti IV. 181–372) ci hanno tramandato il racconto del suo arrivo trionfale. […]. La seguivano Attis, suo giovane paredro, e il suo corteo di sacerdoti eunuchi, i galli, che […] si automutilavano a imitazione del mitico Attis. […] A Roma si provvide a contenere quella religione conturbante […]. Il personale sacerdotale della dea, limitato a un sacerdote, a una sacerdotessa e ai sacerdoti eunuchi che vivevano nel tempio, continuò a essere formato da frigi e nessun cittadino romano poteva farne parte. […] A partire da Claudio, influenzato, a quanto si diceva, dai suoi liberti di origine orientale […], il culto venne praticato liberamente. […] Al regno di Antonino, più probabilmente che a quello di Claudio, si fa risalire un’altra riforma: la creazione dell’arcigallato e il rituale del taurobolio […]. L’arcigallo, summus sacerdos […], era un cittadino romano e per ciò non soggetto al rito dell’evirazione. Al posto di questo rituale si celebrava il taurobolio, ovvero il sacrificio di un toro” che prevedeva l’ablazione dei testicoli dell’animale. […] L’arcigallo […] apparteneva all’alta gerarchia sacerdotale romana […]: l’incomprensione e l’infamia che colpivano i primi fedeli della dea anatolica sono ormai ben lontani. La religione di Cibele e di Attis si è largamente diffusa in Italia e nell’impero. […] A partire dal regno di Antonino, nel II secolo d.C., il grande santuario del culto di Cibele è situato nella zona del Vaticano […]. Ostia, dove la dea era sbarcata nel 204, resterà un centro importante […] del culto. Le città della Campania, dell’Africa, della Gallia […], della Germania hanno i loro santuari della Grande Madre. […] Nel tardo impero i rappresentanti più illustri dell’aristocrazia romana […] ricevono il taurobolio. […] In onore della dea, l’imperatore Giuliano compone un discorso Sulla Madre degli dei”, CHAMPEAUX (ed. it.

2002, 137–142).

178 Cf. e.g.: TERT. nat. I.10; MIN.FEL. 23.4; ARNOB. nat. IV 35, V 13 e 16, VII 33; FIRM. err. XXVII.8 e XXVIII.1; PRVD. Peri. X, 1006–1050.

È importante notare che in questo caso la polemica degli apologisti si incentra su un culto a loro contemporaneo. Come, in effetti, insegna GRAILLOT (1912) – e in continuità con lui BORGEAUD (1996) – la dea frigia, insieme al proprio paredro Attis, fece parte della storia di Roma per circa sette secoli (dalla fine del III a.C. al V d.C.) e fu uno dei più resistenti baluardi del paganesimo romano contro la nuova religione179.

Per riferire solo di un esempio tratto dalla tradizione apologetica antecedente a Lattanzio che bene illustra la rivalità fra religione metroaca e cristianesimo, possiamo ricordare che Tertulliano nel De ieiunio rimprovera “à la religion métroaque de contrefaire diaboliquement le culte du vrai Dieu”180, scrivendo quanto segue: “Sed bene quod tu nostris xerophagiis blasphemias ingerens casto

Isidis et Cybeles eas adaequas. Admitto testimonialem comparationem. Hinc diuinam constabit, quam diabolus diuinorum aemulator imitatur. Ex ueritate mendacium struitur, ex religione superstitio compinigitur”181.

179 Si considerino, a tal proposito, i seguenti exempla della fortuna del culto di Cibele nella religione dei Romani: nel 313, sotto Costantino, il Clarissimus C. Magius Donatus Severianus risulta iniziato ai misteri di Attis; l’imperatore Giuliano (331–363), dopo la conversione di Costantino e l’impegno di Costanzo nel porre fine all’idolatria, rinnega il cristianesimo e, stando a GREG.NAZ. or. IV.52, si purifica dal battesimo cristiano con lustrazioni mitraiche e con un taurobòlio (per citare solo uno degli episodi che legano Giuliano al culto della Madre degli dei; per altri episodi cf. GREG.NAZ. or. V.13 e 40 e

AMM. XXIII.3); Simmaco rimprovera ad un amico di non essere presente alla festa di

Cibele (cf. epist. II.34); gli ultimi altari rinvenuti nell’area del Vaticano dedicati al battesimo taurobolico risalgono al 390; Agostino in ciu. II.4 afferma di aver assistito in giovane età a una festa in onore di Cibele; Proclo, verso la metà del V secolo, scrive una Bibbia metroaca (cf. MARINUM uita Procli 33); la religione metroaca, infine, ha molto

influenzato il culto mariano, anche se BORGEAUD (1996) ci ha insegnato a non considerare quest’ultimo erede diretto del culto di Cibele: sebbene alcuni autori cristiani considerino la Madre di Cristo come la Nuova Cibele (cf. ISID. PEL. epist. I.54), lo

studioso invita a considerare le analogie fra i due culti come i segnali di un contatto fra due figure in origine nettamente distinte.

180 GRAILLOT (1912, 545). 181 TERT. ieiun. 16.7.

Al di là dell’accusa di contraffazione della vera religione, rivolta dai cristiani al culto metroaco – accusa sostenuta, dopo Lattanzio, anche da Firmico Materno182–, la polemica degli apologisti si focalizza, com’è naturale, sugli aspetti più violenti e scabrosi del culto di Magna Mater, che, in quanto tali, sono ai loro occhi anche i più esecrabili e tacciabili di immoralità: da un lato, la vicenda di Attis evirato da Cibele perché sorpreso a commettere adulterio e, dall’altro, l’autoevirazione dei sacerdoti della dea.

Ciò che per ovvie ragioni di propaganda antipagana la letteratura apologetica scelse di oscurare, fu il comportamento delle istituzioni di Roma (e in particolare del Senato) al momento dell’accoglienza del culto orientale: per tutelare, infatti, il

mos maiorum, si vietò ai cittadini di prendere parte ai riti in onore di Cibele e

s’impose che questi dovessero essere officiati solo ed esclusivamente da sacerdoti frigi e che soltanto due volte all’anno, in occasione delle processioni in onore della dea, il popolo potesse interagire con gli officianti del culto metroaco, autorizzati a fare la questua.

La presenza del taurobòlio, del resto, indica chiaramente che l’integrazione del culto di Cibele a Roma è avvenuta nel rispetto del tabù romano nei confronti della evirazione: questo rito, infatti, prevedeva la castrazione di una vittima animale al posto della evirazione degli iniziati183.

Se è vero, dunque, che la vicenda di Attis e l’evirazione dei galli possono apparire turpi, l’apologetica, dal canto suo, mistifica le informazioni di cui dispone quando rappresenta il rito di autoevirazione dei galli come una pratica perfettamente integrata nella religione dei Romani184.

182 Cf. FIRM. err. XVII.112:“Sacra sua perditus carnifex, pro nefas, per lignum semper renouari disposuit ut, quia sciebat ita fore ut ligno crucis adfixa uita hominis perpetuae immortalitatis compagine stringeretur, perituros homines ex ligni imitatione deciperet”. 183 Anche se l’unica descrizione del taurobòlio a noi pervenuta (PRVD. Peri. X.1006– 1050) è poco attendibile sia perché di matrice cristiana sia perché elaborata in una fase in cui il rituale era ormai caduto in disuso, vi sono altri documenti che confermano il taurobòlio come rito di sostituzione, cf. BORGEAUD (ed. ital. 2006, 175 e ss.).

184 Lattanzio, ad esempio, parlando del culto di Magna Mater non precisa le differenze fra culto frigio e culto romano, ma si limita a dire che nel rito metroaco gli uomini si autoevirano (cf. LACT. inst. I.21.16). Si è sicuri, del resto, del fatto che l’apologista parli

Anche il culto di Bellona185 divenne obiettivo polemico dei cristiani per i suoi aspetti cruenti e scandalosi: tale culto, infatti, “si distinse per gli aspetti efferati del rituale nel quale i sacerdoti della dea e i suoi seguaci, detti fanatici o bellonarii, vestiti di nero, giravano vorticosamente su se stessi e si tagliuzzavano le carni con bipenni, spruzzando di sangue i presenti”186.

Fra gli esempi che la tradizione apologetica offre, Tertulliano e Minucio Felice187 non si limitano a stigmatizzare il rituale cruento, ma aggiungono il particolare – da accogliere con estrema cautela – che il sangue, oltre ad essere sparso, sarebbe stato anche bevuto.

Non è un caso, del resto, che il culto di Bellona venga spesso accostato dagli apologisti a quello di Magna Mater188. La dea, infatti, appare come pedisequa di Cibele a partire dal III secolo d.C e i primi contatti fra i due culti dovettero cominciare ben prima, se è vero che nell’area di Ostia dedicata a Magna Mater si trova anche un sacello di Bellona databile alla metà del II secolo d.C189.

della correlazione da lui istituita fra il rito riservato a Cibele e quello officiato in onore della dea romana Virtus–Bellona (cf. LACT. inst. I.21.16).

185 Bellona era in origine una divinità italica e, per dirla con CONTINI (1991, 64), “strettamente connessa con la sfera marziale; non personificava propriamente la guerra, ma […] ‘colei che fa uscire i Romani dalla guerra nel miglior modo possibile’”.

Ad essa fu assimilata, in epoca sillana, la dea orientale Ma: a permettere l’identificazione della dea cappadocica con Bellona (e con Virtus, cf. LACT. inst. I.21.16 e CIL XIII 7281) fu lo stretto legame di Ma con la sfera marziale (nel centro principale del suo culto, a Comana di Cappadocia, sono state rinvenute iscrizioni recanti gli epiteti di ‘Nikephoros’ e ‘Aniketos, e sulle monete trovate a Comana pontica, la dea è ritratta armata di clava). La Bellona, dunque, obiettivo polemico dei cristiani, è la Bellona–Ma, risultato del processo sincretistico che si attuò “quando, nell’82 a.C., Silla e i suoi soldati importarono il culto di Ma dalle due Comane a Roma, dove si diffuse subito a opera degli schiavi frigi che vi erano numerosi”, CONTINI (1991, 64).

Per altro, come nel caso di Cibele, anche per Bellona, bisogna sottolineare che gli apologisti conducono la loro polemica su un un culto ancora vivo all’epoca degli autori cristiani: Giuliano l’Apostata, infatti, “fece sacrifici in onore della dea a Basilea prima di partire per la campagna contro Costanzo nel 361 d.C.”, CONTINI (1991, 59).

186 CONTINI (1991, 66).

187 Cf. TERT. apol. 9 e MIN.FEL. 30.5. 188 Cf. LACT. inst. I.21.16–19.

Gli scrittori cristiani, proprio come celano la repulsione di Roma per l’evirazione dei galli, allo stesso modo ritraggono il rituale cruento dei fanatici senza fare parola della sua marginalità nella religione dei Romani.

Vi è testimonianza, infatti, di una diffusa avversione da parte degli intellettuali pagani nei confronti dei bellonarii190 e del fatto che gli officianti del culto di Bellona fossero persone emarginate e di estrazione sociale piuttosto umile, poco rappresentative della romanità contro la quale i cristiani si scagliano191.

A questo punto, dopo aver parlato della sopravvivenza dei culti di Magna Mater e Bellona fino ad epoca tarda e della polemica, non del tutto obiettiva, degli apologisti in relazione ai suddetti culti, analizziamo le parole dedicate da Lattanzio alle due divinità:

Ab isto genere sacrorum non minoris insaniae iudicanda sunt publica illa sacra, quorum alia sunt Matris, in quibus homines suis ipsi uirilibus litant – amputato enim sexu nec uiros se nec feminas faciunt –, alia Virtutis, quam eamdem Bellonam uocant, in quibus ipsi sacerdotes non alieno, sed suo cruore sacrificant. Sectis namque umeris et utraque manu destrictos gladios exerentes currunt, efferuntur, insaniunt. Optime igitur Quintilianus in

Fanatico “istud, inquit, si Deus cogit, iratus est”. Etiamne haec

sacra sunt? Non satius est pecudum more uiuere quam deos tam impios, tam profanos, tam sanguinarios colere?

Gioverà ricordare che Lattanzio aveva già fatto riferimento al culto di Cibele in un passo del capitolo 17 del I libro. Riportiamo di seguito anche questo locus con

190 Cf. e.g.: HOR. sat. II.3.220–223; SEN. dial. IV.35.6 (= de ira II.35.6) rielaborando con ogni probabilità VERG. Aen. VIII.703, il filosofo accosta l’Ira a Bellona; MART. 12.57.11;

IVV. IV. 123–124 e VI. 511–516.

191 Cf. PELLEGRINO (1987,199): “Dalla presenza nelle due iscrizioni, di lictores, viatores, liberti coloniae e servi publici, si deduce che il culto ostiense di Bellona era gestito da gente di estrazione sociale piuttosto umile”.

l’intento di chiarire, a partire da esso, quali siano state le fonti adoperate dall’apologista:

(Consideremus, si placet, aerumnas infelicium deorum. Isis filium perdidit; Ceres filiam; expulsa et per orbem terrae iactata, Latona uix insulam paruam (Delon), in qua pareret, inuenit.) Deum Mater et amauit formosum adulescentem, et eumdem cum paelice deprehensum, exsectis uirilibus, semiuirum reddidit et ideo nunc sacra eius a Gallis sacerdotibus celebrantur192.

Il testo appena citato deve dipendere dal seguente passo di Minucio Felice:

“Considera denique sacra ipsa et ipsa mysteria: inuenies exitus tristes, fata et

funera et luctus atque planctus miserorum deorum. Isis perditum filium cum Cynocephalo suo et caluis sacerdotibus luget, plangit, inquirit, et Isiaci miseri caedunt pectora et dolorem infelicissimae matris imitantur; mox inuento paruulo gaudet Isis, exultant sacerdotes, Cynocephalus inuentor gloriatur, nec desinunt annis omnibus uel perdere quod inueniunt uel inuenire quod perdunt. Nonne ridiculum est uel lugere quod colas uel colere quod lugeas? Haec tamen Aegyptia quondam nunc et sacra Romana sunt, ut desipias Isidis ad hirundinem et sistrum et adsparsis membris inanem tui Serapidis siue Osiridis tumulum. “Ceres facibus accensis et serpente circumdata errore subreptam et corruptam Liberam anxia sollicita uestigat: haec sunt Eleusinia. Et quae Iouis sacra sunt? Nutrix capella est, et auido patri subtrahitur infans, ne uoretur, et Corybantum cymbalis, ne pater audiat uagitus, tinnitus eliditur. Cybelae Dindyma pudet dicere, quae adulterum suum infeliciter placitum, quoniam et ipsa deformis et uetula, ut multorum deorum mater, ad stuprum inlicere non poterat, exsecuit ut deum scilicet faceret eunuchum. Propter hanc fabulam Galli eam et semiuiri sui corporis supplicio colunt. Haec iam non sunt sacra, tormenta sunt” 193.

192 LACT. inst. I.17.(6–)7. Abbiamo riportato tra parentesi il paragrafo 6, perché, sebbene non riguardi Cibele, è utile al fine di comprendere la dipendenza del passo di Lattanzio da un locus dell’Octauius (cf. infra).

È evidente che la frase lattanziana “Consideremus, si placet, aerumnas infelicium

deorum” dipende dal periodo minuciano “Considera denique sacra ipsa et ipsa mysteria: inuenies exitus tristes, fata et funera et luctus atque planctus miserorum deorum”, in ragione dell’uso del verbo ‘considero’, della corrispondenza fra

‘exitus tristes’ e ‘aerumnas’, e della correlazione fra ‘miserorum deorum’ e ‘infelicium deorum’.

Dal confronto dei due passi, inoltre, emerge che Lattanzio effettua una sintesi delle vicende narrate da Minucio, discutendo le divinità nel medesimo ordine seguito dall’autore dell’Octauius: Iside, Cerere, Latona e, infine, Attis e Cibele. L’autore delle Institutiones, del resto, dipende da Minucio Felice anche nel primo passo citato (inst. I. 21. 16–18), sebbene in maniera non esclusiva.

In questo caso, infatti, come ha mostrato LAUSBERG (1970), Lattanzio dipende ora da Minucio in quanto vettore di una citazione molto libera di un frammento senecano194, ora direttamente da Seneca senza la mediazione dell’autore dell’Octauius.

Riassumiamo, di seguito, l’analisi di Lausberg che mette a confronto i testi di Seneca, Minucio Felice e Lattanzio:

SEN. superst. fr. 34 (AUG. ciu. VI.10)

MIN.FEL. 24.12 LACT. inst. I.21.16–18

non minoris insaniae iudicanda sunt publica illa sacra,

A1: Ille uiriles sibi partes amputat,

A2C: quid? qui sanguine suo libat et uulneribus suis supplicat,

A1: quorum alia sunt Matris, in quibus homines suis ipsi uirilibus litant – amputato enim sexu nec uiros se nec feminas faciunt –,

A2: ille lacertos secat. B2: non profanus melius esset quam sic religiosus?

A2: alia Virtutis quam eandem Bellonam vocant, in quibus ipsi sacerdotes non alieno sed suo cruore sacrificant.

sectis namque umeris et utraque manu destrictos gladios exerentes currunt ecferuntur insaniunt. B1: Ubi iratos deos timent

qui sic propitios merentur?

A1: aut cui testa sunt obscena demessa

B1: Optime igitur Quintilianus in Fanatico ,istud’ inquit ,si deus cogit, iratus est’. Etiamne haec sacra sunt?

B2: dii autem nullo debent coli genere si et hoc uolunt.

B1: quo modo deum uiolat qui hoc modo placat, (B2): cum si eunuchos deus uellet, posset procreare, non facere?

B2: non satius est pecudum modo uiuere quam deos tam inpios, tam profanos, tam sanguinarios colere? C: […] Se ipsi in templis

contrucidant, uulneribus suis ac sanguine supplicant.

La disposizione dei singoli elementi (A1, A2, B1, etc…) sembra seguire più Seneca che Minucio: Lattanzio, proprio come Seneca, descrive i culti di Magna Mater e Bellona e successivamente esprime una valutazione su di essi (B1 e B2). Anche certe scelte lessicali fanno pensare che l’apologista dipenda direttamente dall’autore del De superstitione: “uirilibus…amputato enim sexu” [LACT.]~ “uiriles sibi partes amputat” [SEN.].

È molto probabile che la frase di Lattanzio “in quibus ipsi sacerdotes non alieno

sed suo cruore sacrificant” dipenda direttamente dalla seguente frase di Minucio:

“qui sanguine suo libat et uulneribus suis supplicat”.

Esiste, poi, la possibilità che l’autore delle Institutiones abbia voluto unire il senecano “dii autem nullo debent coli genere, si et hoc uolunt” e la frase di

Minucio “non profanus melius esset quam sic religiosus”, quando afferma “Non

satius est pecudum modo uiuere quam deos tam inpios, tam profanos, tam sanguinarios colere?”.

Lausbergfa anche notare che l’ulteriore considerazione sul culto di Bellona da parte di Lattanzio “sectis namque umeris et utraque manu destrictos gladios

exerentes currunt ecferuntur insaniunt” potrebbe dipendere da un passo del De uita beata, dove il filosofo scrive: “cum aliquis secandi lacertos suos artifex bracchia atque umeros suspensa manu cruentat”195. Una conferma di questo deriverebbe dal fatto che Lattanzio mostra di conoscere l’opera senecana196.

La breve citazione dal Fanaticus di Quintiliano – declamatio a noi altrimenti ignota – funge da parafrasi del testo senecano “Ubi iratos deos timent qui sic

propitios merentur?”.

L’ “Etiamne haec sacra sunt?”, infine, immediatamente successivo alla citazione quintilianea, deve senz’altro dipendere dall’ “Haec iam non sunt sacra, tormenta

sunt” di Minucio Felice197.

195 SEN. dial. VII.26.8 (= de vita beata 26.8). 196 Cf. LAUSBERG (1970, 28, n.43).

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