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Dopo la polemica sulle divinità astratte, Lattanzio riserva a Venus Calua e a Iuppiter Pistor le parole che seguono:

(A) Vrbe a Gallis occupata obsessi in Capitolio Romani cum ex mulierum capillis tormenta fecissent, aedem Veneri Caluae consecrarunt. Non igitur intellegunt quam uanae sint religiones uel ex eo ipso, quod eas his ineptiis cauillantur. […].

(B) Eodem tempore Ioui quoque Pistori ara posita est, quod eos in quiete monuisset ut ex omni frumento quod habebant panem facerent et in hostium castra iactarent: eoque facto soluta esset obsidio desperantibus Gallis inopia subigi posse Romanos.

(C) Quae ista religionum derisio est? Si earum defensor essem, quid tam grauiter queri possem quam deorum numen in tantum uenisse contemptum ut turpissimis nominibus ludibrio habeatur?101

Per i moderni l’apologista è in termini diacronici il primo testimone del culto di Venus Calua. Egli scrive che il culto sarebbe stato istituito in seguito ad un episodio verificatosi durante l’assedio di Roma da parte dei Galli.

Dopo aver riportato l’annedoto, Lattanzio non si esime dal criticare l’uso romano – esemplificato dal caso di Venus Calua – di fondare le proprie credenze su cose futili (“ineptiis”), ovvero la prassi di “deos sibi ex euentis fingere”102.

Alla testimonianza lattanziana su Venere Calua bisogna accostare un’interessante pagina di Servio e un paragrafo dell’Ars militaris di Vegezio. Un confronto fra le tre fonti permette, se non di comprendere, almeno di problematizzare la posizione

101 LACT. inst. I.20.27–34. Con ‘(A)’ e ‘(B)’ abbiamo voluto distinguere il locus dedicato a Venus Calua da quello riservato a Iuppiter Pistor, e con ‘(C)’ il passo in cui Lattanzio commenta la risibilità dei nomi di entrambi gli dei.

di Lattanzio rispetto all’aneddoto relativo a questa divinità, che i testi a lui noti – e a noi non pervenuti – dovevano tramandare.

Vegezio, sebbene non si soffermi sulla istituzione del culto, è comunque testimone dell’episodio che Lattanzio mette in relazione con la consacrazione di un’aedes alla dea.

Così scrive l’autore dell’Ars militaris: “Matronae abscisos crines uiris suis

optulere pugnantibus, reparatisque machinis aduersariorum impetum reppulerunt. Maluerunt enim pudicissimae feminae deformato ad tempus capite liberae uiuere cum maritis quam hostibus integro decore seruire”103.

Il testo appena citato differisce da quello di Lattanzio perché, secondo Vegezio, l’episodio fu risolutivo del conflitto e determinò la fine dell’assedio, mentre invece, stando all’apologista, lo stratagemma delle corde non comportò la ritirata dei Galli, che avrebbero perduto la speranza di espugnare Roma per tutt’altro episodio (quello, cioè, cui andrebbe ricondotta l’istitutzione del culto di Iuppiter Pistor, cf. infra).

Servio, d’altra parte, spiega nel modo che segue le origini del culto di Venus Calua: “Est et Venus Calua ob hanc causam, quod cum Galli Capitolium

obsiderent, et deessent funes Romanis ad tormenta facienda, prima Domitia crinem suum, post ceterae matronae, imitatae eam, exsecuerunt, unde facta tormenta et post bellum statua Veneri hoc nomine collocata est”104.

A giudicare dal passo citato, è difficile stabilire se l’esegeta condividesse la posizione di Vegezio o, in linea con Lattanzio, giudicasse l’episodio dei capelli come un fatto che, pur procurando dei vantaggi agli assediati, non bastò a

103 VEG. mil. IV.9.3–4.

104 SERV. Aen. I.720. Poiché Servio ritiene fededegna la versione che abbiamo riportato e solo questa ha a che fare con il passo di Lattanzio di cui stiamo discutendo, si è scelto di riportare solo in nota le altre tre possibili spiegazioni del nome della dea tràdite dall’esegeta: “Licet alii Caluam Venerem quasi puram tradant, alii Caluam, quod corda amantum caluiat, id est fallat atque eludat. Quidam dicunt porrigine olim capillos cecidisse feminis et Ancum regem suae uxori statuam caluam posuisse, quod constitit piaculo; nam post omnibus feminis capilli renati sunt, unde institutum, ut Calua Venus coleretur”.

Come è evidente, il passo serviano è comunque di grande interesse perché ci informa della possibilità che l’origine del culto di Venus Calua potrebbe anche non avere a che fare con la calvizie.

respingere definitivamente i Galli. Non ci sono, infatti, nel testo serviano, riferimenti espliciti alla collocazione dell’episodio dei capelli rispetto all’assedio dei Galli.

Un altro luogo del commento serviano sembrerebbe suggerire che per l’esegeta l’episodio dei capelli non avesse posto fine all’assedio: “Brenno duce Galli apud

Alliam fluuium deletis legionibus euerterunt urbem Romam absque Capitolio, pro quo inmensam pecuniam acceperunt. Tunc Camillus absens dictator est factus, cum diu esset apud Ardeam in exilio propter Veientanam praedam non aequo iure diuisam, et Gallos iam abeuntes secutus est: quibus interemptis aurum omne recepit et signa”105.

Poiché, tuttavia, le notizie tràdite da Servio sulle origini di Venus Calua appartengono al mito, mentre le informazioni che egli tramanda sulla conclusione dell’assedio sono di natura storico–aneddotica, non possiamo considerare i due

loci del commento serviano (SERV. Aen. I.720 e SERV. Aen. VI.825) come facenti parte di una narrazione coerente e potrebbe essere rischioso comparare i due commenti senza tener conto dello scarto fra leggenda e storia.

È possibile, infatti, che le fonti adoperate da Servio in relazione a Venus Calua rappresentassero l’episodio delle corde di capelli come risolutivo del conflitto senza che il commentatore avesse a sua volta registrato la cosa.

Non si può escludere, del resto, che Vegezio, per enfatizzare l’importanza della trovata, avesse collegato il medesimo episodio alla fine dell’assedio, modificando, così, ciò che le fonti riportavano.

Comunque stiano le cose, è difficile risalire a quel che la tradizione consegnava a Lattanzio.

La testimonianza serviana suggerisce ulteriori considerazioni. Servio, infatti, racconta che le matrone si tagliarono i capelli seguendo l’esempio di una certa

105 SERV. Aen. VI.825. Qui Servio spiega la fine dell’assedio e della guerra riportando una versione, che ricorda, seppur con sensibili differenze, quella proposta da Livio (cf. LIV. V.49.1–6). Anche lo storico fa riferimento a un riscatto in oro che i Romani avrebbero dovuto pagare a Brenno. Nella versione liviana, tuttavia, Camillo sopraggiunge prima che il riscatto venga pagato e i Galli vengono sconfitti in un doppio conflitto: la prima volta in loco, la seconda sulla via di Gabi, a otto miglia da Roma. Servio, invece, come mostra il passo citato, lascia intendere che i Galli interruppero l’assedio a prezzo d’oro e che, in un secondo momento, Camillo, dopo averli raggiunti e vinti, “aurum omne recepit”.

Domitia e, poiché questo personaggio non figura nei resoconti di Vegezio e di Lattanzio, si è portati a pensare che l’esegeta di Virgilio avesse accesso a fonti diverse dall’apologista che parlavano dell’episodio e del culto di Venus Calua. Se, per altro, le fonti di Servio fossero antecedenti a Lattanzio, ciò vorrebbe dire che la testimonianza serviana lascia intravedere quel che si tramandava sul culto di Venus Calua prima delle Institutiones, escludendo in via definitiva che Lattanzio sia stato l’iniziatore della tradizione su questa divinità.

Per passare a Iuppiter Pistor, l’apologista scrive che il culto di questa divinità sarebbe stato istituito in relazione ad un episodio che avrebbe posto fine all’assedio dei Galli. Tra i testimoni pagani, è Ovidio106 a parlare più diffusamente di questo culto e a costituire, con ogni probabilità, la fonte di Lattanzio107. Tre aspetti fanno pensare a una dipendenza diretta di Lattanzio dai Fasti ovidiani:

• Tanto in Ovidio quanto in Lattanzio il racconto comincia con la menzione dell’ara di Iuppiter Pistor: cf. OV. fast. VI.350 “dicam Pistoris quid uelit

ara Iouis” e LACT. inst. I.20.33 “Eodem tempore Ioui quoque Pistori ara

posita est”.

• In Ovidio, come in Lattanzio, Giove si rivolge ai Romani destandoli dal sonno: cf. Ov. fast. VI.385 “Iam ducibus somnum dederat labor. Increpat

illos” e LACT. inst. I.20.33 “Quod eos in quiete monuisset”.

• Nei Fasti come nelle Institutiones, alla fine del racconto, i Galli perdono la speranza di vincere i Romani con la fame: cf. Ov. fast. VI.393 “Posse

fame uinci spes excidit” e LACT. inst. I.20.33 “desperantibus Gallis inopia

subigi posse Romanos”.

106 Cf. OV. fast. VI. 349–394. FRAZER (1929, IV, 232–233) fa notare che i moderni “have endeavoured to save Jupiter’s dignity by supposing that applied to him the epithet Pistor (the ordinary Latin word for baker) does not really mean Baker at all but Crusher, from pinsere “to crush”, with reference to the crushing effect of the thunderbolts which Jupiter hurled at sinners”. Fra coloro che hanno accolto questa spiegazione Frazer ricorda Preller (cf. Römische Mythologie, I, 194) e Wissowa (cf. Religion und Kultus der Römer, 122). 107 Anche Livio (cf. LIV. V.49.1–6) riporta l’opinione che durante l’assedio si tentò di ingannare i Galli lanciando nel campo nemico delle forme di pane. Conclude, però, che la cosa non ebbe l’esito sperato, per lasciare spazio alla cronaca dei fatti realmente accaduti.

Lattanzio, dunque, riporta due episodi che la tradizione collocava durante l’assedio del Campidoglio: quello dal quale sarebbe derivato il culto di Venus Calua e quello che avrebbe dato origine al culto di Iuppiter Pistor.

Essendo assai poche le notizie in merito, non siamo in grado di stabilire se si trattasse, in origine, di due versioni alternative sulla fine dell’assedio di Roma da parte dei Galli o se, invece, la tradizione collocasse la vicenda delle corde di capelli nel corso dell’assedio e proponesse quella di Iuppiter Pistor come ultimo atto dello scontro, in linea con quanto tramanda Lattanzio.

Possiamo, allora, concludere come segue: o Lattanzio ha presentato come contigui due episodi che il mito proponeva come finali alternativi della vicenda dell’assedio, oppure la versione di Vegezio relativa all’episodio delle corde è del tutto fuorviante e l’apologista si è limitato a riportare ciò che la tradizione tramandava.

V

FORNAX

Dopo aver parlato del culto di Iuppiter Pistor e prima di menzionare la dea Muta, Lattanzio ironizza sul culto di Fornax con le parole che riportiamo di seguito:

Quis non rideat Fornacem deam, uel potius doctos uiros celebrandis Fornacalibus operari?108

Non c’è ragione di credere che in questo caso Lattanzio dipenda da fonti cristiane visto che Minucio Felice, Tertulliano, Cipriano e Arnobio, principali fonti di Lattanzio in ambito apologetico, non fanno parola della dea.

La fonte non dichiarata della quale si serve l’apologista deve essere Ovidio, che nel II libro dei Fasti così scrive: “facta dea est Fornax: laeti Fornace coloni/orant

ut fruges temperet illa suas./curio legitimis nunc Fornacalia uerbis/maximus indicit nec stata sacra facit:/inque foro, multa circum pendente tabella,/signatur certa curia quaeque nota,/stultaque pars populi quae sit sua curia nescit,/sed facit extrema sacra relata die”109.

108 LACT. inst. I.20.35.

109OV. fast. II.525–532.

Come fa notare FRAZER (1929, II, 429), Ovidio è il solo autore antico a nominare la dea Fornax. Non per questo, però, – osserva lo studioso – si deve ricondurre, con Wissowa (cf. Religion und Kultus der Römer, II ed., 158), “her origin to the misdirected ingenuity of later times. On the contrary, analogy speaks strongly in favour of her great antiquity, for a people like the early Romans who created a deity for doors (Forculus), another for thresholds (Limentinus), another for hinges (Cardea), another for cradles (Cunina), and another for drains (Cloacina), could have had no difficulty in inventing one for ovens (Fornax)”.

A nostro avviso, tuttavia, l’affermazione di Frazer secondo cui “analogy speaks strongly in favour of her [Fornax] great antiquity” deve essere molto ridimensionata dal momento che gli unici testimoni dei culti di Forculus, Limentinus e Cardea – vale a dire, Tertulliano, Arnobio e Agostino – sono scrittori cristiani mossi da un evidente intento polemico e le divinità romane di cui essi parlano potrebbero essere state (se non create) significativamente trasfigurate dalla tradizione apologetica.

La compresenza nel brevissimo testo di Lattanzio del nome della dea e di quello della festa in suo onore (“Fornacem […] Fornacalibus”) potrebbe dipendere proprio dal passo ovidiano che abbiamo citato, dove si trovano gli stessi nomi in posizione ravvicinata (“Fornax […] Fornace […] Fornacalia”).

La menzione di Fornax, inoltre, subito prima della dea Muta può confermare che Ovidio è la fonte di cui Lattanzio si serve: la sequenza Fornax–Muta, infatti, sembra riprodurre proprio quella del II libro dei Fasti ovidiani, dove ai vv. 525– 532 si parla di Fornax, mentre ai vv. 583–616 (cf. infra) viene discussa la figura di Muta.

Per quanto riguarda, inoltre, la spiegazione di Cloacina come “[deity] for drains”, che Frazer riprende da Lattanzio, essa è con ogni probabilità errata (cf. supra cap. II).

In conclusione, soltanto per Cunina possiamo essere certi che fosse una divinità dei Romani addetta alla protezione dei bambini in culla: a proposito di questo, infatti, leggiamo un brano di Varrone riportato da Nonio Marcello (cf. cap. VIII).

Non possiamo escludere, pertanto, che l’origine della dea Fornax sia dovuta proprio alla “misdirected ingenuity of later times” che voleva trovare una spiegazione al nome ‘Fornacalia’. Così WISSOWA (1912, 158): “Eine Göttin Fornax hat erst der übel

angebrachte Scharfsinn späterer Zeit daraus erschlossen, in der Tat galt die Feier den fornaces”.

VI

MVTA

Come si è anticipato nel capitolo precedente, Lattanzio, dopo aver fatto riferimento alla dea Fornax attenendosi con ogni probabilità allo schema del II libro dei Fasti (cf. cap.V), scrive quel che riportiamo di seguito sul conto della dea Muta:

Quis cum audiat deam Mutam tenere risum queat? Hanc esse dicunt ex qua sint Lares nati et ipsam Laram nominant uel Larundam. Quid praestare colenti quae loqui non potest?110

Per quel che riguarda l’identificazione della divinità con la madre dei Lari, Lattanzio deve essere fedele a ciò che la tradizione riporta. Ovidio, infatti, testimonia l’autenticità di questa notizia identificando Muta con la ninfa Lara che generò i gemelli, “qui compita seruant/et uigilant nostra semper in urbe […]”111. È, invece, più difficile trovare conferma dell’identificazione di Muta–Lara con Larunda, dal momento che nessuna fonte letteraria antecedente a Lattanzio ne fa parola.

Varrone, infatti, nomina Larunda nel De lingua Latina112, ma non la mette in relazione né Muta–Lara, né con i Lari: sebbene la dea sia menzionata da Varrone in un elenco di divinità fra le quali figurano anche i Lari, la menzione di questi non è contigua a quella di Larunda e nulla suggerisce un legame fra i Lari e la dea.

Eccettuate le Diuinae institutiones, l’unica fonte letteraria che identifica Larunda con la madre dei Lari è un autore posteriore a Lattanzio, il poeta Decimo Magno Ausonio. Egli nel Technopaegnioncosì scrive: “Larunda progenitus Lar” 113.

110 LACT. inst. I.20.35.

111 Cf. OV. fast. II. 571–616. 112 Cf. VARRONEM ling. V.10. 113 Cf. AVSON. Techn. 8.9.

Poiché Ausonio leggeva Varrone114, non è escluso che egli avesse ricavato da un qualche passo dell’erudito romano l’identificazione di Larunda con la madre dei Lari, considerata la menzione della dea nel De lingua Latina.

Vi è, per altro, un’iscrizione proveniente da Ratisbona115 e datata al II secolo d.C. che potrebbe rivelare un qualche legame fra i Lari e Larunda, ma soltanto a condizione che si accolga l’interpretazione che ne ha dato RAITH (2006) 116. Considerato, dunque, il silenzio degli apologisti crisitiani sulla figura di Muta– Lara–Larunda, Lattanzio deve aver ricavato il nome ‘Larunda’ quale variante di ‘Lara’ o ‘Muta’, da una fonte pagana che potrebbe essere un passo di Varrone a noi non pervenuto, dal momento che l’erudito, come si è detto, mostra di conoscere la figura di Larunda e Ausonio, che legge Varrone, propone la medesima identificazione.

114 Sulla conoscenza di Varrone da parte di Ausonio cf. GREEN (1991, xxi e 448). 115 Cf. ZPE (2005), 153, 99–102.

116 Il testo epigrafico è di per sé tutt’altro che sicuro, almeno per quel che concerne il nome del primo dio che beneficia della dedicatio di un sacellum: se è fuor di dubbio che la seconda divinità coinvolta è Larunda, il nome della prima è, per i moderni, questione puramente interpretativa.

Chi legge “artei et Larundae”, potrà integrare “[deo M]artei et Larundae”, mentre chi, con RAITH (2006), legge “ariei et Larundae”, integrerà “[deo L]ariei et Larundae”. Tutto dipende dalla interpretazione che si dà del terzo grafema (a partire da sinistra) del primo rigo: esso è solo parzialmente leggibile e ciò impedisce, data la scrittura epigrafica, di stabilire con certezza se si tratti di < t > oppure di < i >.

Se accogliamo l’opinione di Raith, il quale, come si è detto, ricostruisce il testo “[deo L]ariei et Larundae”, l’epigrafe diviene documento di un legame fra i Lari e Larunda per lo meno di tipo etimologico: le due /a/ radicali di ‘Lariei’ e ‘Larundae’ devono essere misurate ambedue brevi per ragioni metriche, e ciò permette di parlare di omoradicalità fra le due parole (Il dato, per altro, sarebbe in linea con la quantità breve della /a/ radicale di ‘Lara’ in Ovidio, cf. Ov. fast. II.599).

Se è vero, come avverte Raith, che l’omoradicalità dei nomi ‘Larunda’ e ‘Lari’ non è sufficiente per dimostrare che Larunda è la madre dei Lari, essa costituisce, tuttavia, la condizione necessaria a che Larunda venga riconosciuta come tale.

È, d’altra parte, tutt’altro che immotivata l’integrazione “[deo Mart]ei”, proposta da altri studiosi, visto che alla linea 5 dell’iscrizione si può leggere la parola “militi[ae]”, e l’intero documento potrebbe anche essere interpretato come la dedicatio di un sacellum da parte di un alto esponenente dell’esercito che, in quanto tale, rendeva omaggio al dio della guerra Marte.

Non resta, a questo punto, che trattare della conclusione del passo lattanziano. L’interrogativa retorica “Quid praestare colenti quae loqui non potest?” va interpretata come una boutade volta a ridicolizzare il culto della dea a partire dal suo nome.

Va detto, però, che la battuta dell’apologista è tanto pungente quanto fuori luogo: come si ricava dal già menzionato testo ovidiano e da due tabulae defixionis117 che avremo modo di considerare, il mutismo della dea ha una sua ragione d’essere.

Il testo ovidiano è articolato in due parti e il poeta dei Fasti, descritto nella prima il rito in onore di Muta118, ne illustra, nella seconda, l’aition119.

Stando alla descrizione di Ovidio, una donna anziana cuciva la bocca a un pesce chiamato mènola120 (maena in latino) e pronunciava la seguente formula: “Hostiles linguas inimicaque uinximus ora”121.

In linea con la testimonianza dei Fasti, nelle due defixiones sopra menzionate si chiede alla dea Muta Tacita di privare dei soggetti specifici dell’uso della parola. I due documenti epigrafici, proprio in quanto testi non letterari, provano in maniera pressoché definitiva che il rito descritto da Ovidio non è il frutto di una finzione poetica, e che a differenza di quel che Lattanzio lascia intendere la dea

117 Cf. AE 1958, 150 e AIJ 255–257.

118 Il poeta chiama Muta anche ‘Tacita’ con un pleonasmo solo apparente per cui cf. infra. 119 Giove, innamorato della ninfa Giuturna che sempre lo evitava, chiese alle altre ninfe di bloccare la strada alla sorella, ma una di queste, Lara, mise in guardia Giuturna e raccontò a Giunone ogni cosa. Giove, allora, le tagliò la lingua e ordinò a Mercurio, dio psicopompo, di condurla agli Inferi, luogo adatto al silenzio. Il dio nel tragitto la violentò e Lara, rimasta incinta, mise al mondo i Lari.

120 Questo pesce, secondo la ricostruzione di BERRINO (2003), richiamerebbe di per sé la cavità orale perché veniva usato nella medicazione di certe infezioni della bocca (la studiosa, a tal proposito, rimanda a Scribonio Largo e a Plinio il Vecchio, cf. BERRINO

2003, 16–17): la presenza di questo pesce nel rito descritto da Ovidio sarebbe, dunque, una prova della autenticità del suo resoconto dal momento che in una pratica rituale che ha a che vedere con l’induzione del mutismo si cuce la bocca a un pesce di norma adoperato per guarire le infezioni della cavità orale.

121 È possibile, naturalmente, che Ovidio abbia adattato la formula del rituale alla metrica del distico elegiaco, ma non per questo si deve pensare che il poeta ne abbia alterato il contenuto.

aveva un ruolo ben preciso nel pantheon dei Romani, quello cioè di mettere a tacere le male lingue.

Fa ulteriore chiarezza sulla funzione di questa divinità SIMÓN (2010) che nel suo contributo dedicato alle due maledizioni ha fatto notare che il doppio nome ‘Muta Tacita’, presente in entrambi i testi, è ridondante solo in apparenza, dal momento che ‘Muta’ avrebbe significato passivo, mentre ‘Tacita’ avrebbe il significato

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