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DIVINITÀ DI GESÙ

Nel documento Dizionario filosofico (pagine 61-64)

I sociniani, che sono considerati dei bestemmiatori, non riconoscono la divinità di Gesù Cristo. Essi osano pretendere, con i filosofi dell'antichità, con gli ebrei, i musulmani e tanti altri popoli, che l'idea di un Dio -uomo è mostruosa, che la distanza tra Dio e l'uomo è infinita, e che è impossibile che l'Essere infinito, immenso, eterno, sia stato contenuto in un corpo perituro.

Essi non temono di citare in loro favore Eusebio, vescovo di Cesarca, il quale, nella sua Storia ecclesiastica, libro I cap. XI, dichiara assurdo che la natura increata, immutabile di Dio onnipotente, assuma la forma di un uomo. Citano i Padri della Chiesa, Giustino e Tertulliano, che hanno detto la stessa cosa: Giustino nel suo Dialogo con l'ebreo

Trifone, e Tertulliano nel suo discorso Adversus Praxean.

Citano anche san Paolo, che non chiama mai Gesù Cristo «Dio», e che lo chiama molto spesso «uomo». Spingono la loro audacia fino al punto di affermare che i cristiani ci misero tre secoli interi per formare a poco a poco l'apoteosi di Gesù, e che elevarono questo stupefacente edificio seguendo l'esempio dei pagani, che avevano divinizzato dei mortali. Dapprima secondo costoro, si considerò Gesù solo come un uomo ispirato da Dio; poi, come una creatura più perfetta delle altre. Qualche tempo dopo gli fu dato un posto al di sopra degli angeli, come dice san Paolo. Ogni giorno aumentava la sua grandezza. Diventò un'emanazione di Dio prodotta nel tempo. E non ci si fermò lì, lo si fece nascere prima del tempo. Infine lo si fece Dio, consustanziale a Dio. Crellius, Voquelsius, Natalis Alexander, Hornebeck sostennero tutte queste bestemmie con argomenti che sbalordiscono i saggi e pervertono i deboli. Fu soprattutto Fausto Socino a diffondere in Europa i semi di questa dottrina; e, verso la fine del XVI secolo, poco mancò che non stabilisse una nuova specie di cristianesimo: ce ne erano già più di trecento specie.

DOGMI

Il 18 febbraio dell'anno 1763 dell'era volgare, entrando il sole nella costellazione dei Pesci, fui trasportato in cielo, come sanno tutti i miei amici. Non salii a cavallo della giumenta Borac di Maometto, non ebbi per vettura il carro infiammato di Elia; non fui portato né sull'elefante del siamese Sammonocodom, né sul cavallo di san Giorgio, patrono d'Inghilterra, né sul porco di sant'Antonio: confesso ingenuamente che non so come feci quel viaggio.

Immaginerete bene come restai sbalordito; ma quel che non vorrete credere è che vidi giudicare tutti i morti. E chi erano i giudici? Erano, non vi dispiaccia, tutti coloro che fecero del bene agli uomini: Confucio, Solone, Socrate, Tito, gli Antonini, Epitteto, tutti i grandi uomini che, avendo insegnato e praticato le virtù che Dio esige, sembravano i soli in diritto di pronunciare le sue sentenze.

Non vi dirò su quali troni erano assisi, né quanti milioni di esseri celesti erano prosternati davanti al creatore di tutti i mondi, né quale folla di abitanti di questi innumerevoli mondi comparve davanti ai giudici. Renderò conto, qui, soltanto di alcuni piccoli particolari, molto interessanti, da cui fui colpito.

Osservai che ogni morto che perorava la propria causa e che esibiva i propri buoni sentimenti, aveva accanto a sé i testimoni delle sue azioni. Per esempio, quando il cardinale di Lorena si vantò d'aver fatto accogliere alcune sue opinioni dal concilio di Trento, e, per premio della sua ortodossia, chiese la vita eterna, subito apparvero attorno a lui venti cortigiane o dame di corte, che portavano scritto sulla fronte il numero dei loro convegni col cardinale. E si vedevano anche coloro che avevano gettato con lui le fondamenta della Lega: tutti i complici dei suoi perversi disegni venivano a circondarlo.

Di fronte al cardinale di Lorena era Calvino che si vantava, nel suo rozzo dialetto, d'aver preso a calci l'idolo papale dopo che altri l'avevano abbattuto. «Ho scritto contro la pittura e la scultura,» diceva, «ho dimostrato nel modo più evidente che le buone opere non servono a nulla e ho provato che è diabolico ballare il minuetto; presto, buttate fuori di qui il cardinale di Lorena, e mettetemi a fianco di san Paolo.»

Mentre parlava, si vide accanto a lui un rogo ardente: uno spaventevole spettro, che portava al collo una gorgiera spagnola mezzo bruciata, uscì da quelle fiamme gridando orribilmente: «Mostro! Mostro esecrabile, trema! Riconosci quel Serveto che facesti morire col più atroce dei supplizi, perché aveva disputato con te sulla maniera in cui tre persone possono costituire una sola sostanza!»

Tutti i giudici ordinarono allora che il cardinale di Lorena fosse precipitato nell'abisso, ma che Calvino fosse punito ancor più crudelmente.

Vidi una folla prodigiosa di morti che dicevano: «Ho creduto, ho creduto»; ma sulla loro fronte era scritto: «Ho fatto»; ed erano condannati.

Il gesuita Le Tellier apparì, fiero, con in mano la bolla Unigenitus. Ma al suo fianco sorse improvvisamente un mucchio di duemila mandati d'arresto. Un giansenista gli diede fuoco: Le Tellier fu bruciato fino alle ossa; e il giansenista, che non aveva meno intrigato di lui, ebbe la sua parte di bruciature. Vedevo arrivare da ogni parte schiere di fachiri, di talapoini, di bonzi, di monaci bianchi, neri e grigi che si eran tutti immaginati che, per fare la corte all'Essere supremo, bisognasse o cantare, o frustarsi, o camminare nudi. Udii una voce terribile che chiedeva loro: «Che bene avete fatto agli uomini?» A queste parole seguì un cupo silenzio; nessuno osò rispondere, e tutti furono spinti nel manicomio dell'universo: è uno dei più grandi edifici che si possano immaginare.

Un tale gridava: «È alle metamorfosi di Xaca che bisogna credere.» E un altro: «No! A quelle di Sammonocodom!» «Bacco fermò il sole e la luna,» diceva questo. «Gli dei risuscitarono Pelope,» diceva quello. «Ecco la bolla In coena Domini,» annunciava l'ultimo venuto. E l'usciere dei giudici gridava: «Al manicomio! Al manicomio!» Quando tutti questi processi furono conclusi, udii promulgare questa sentenza: «In nome dell'eterno creatore, conservatore, remuneratore, vendicatore, misericorde eccetera, sia noto a tutti gli abitanti dei centomila milioni di miliardi di mondi che ci piacque creare, che noi non giudicheremo mai nessuno dei detti abitanti sulle sue idee contorte, ma unicamente sulle sue azioni; perché tale è la nostra giustizia.»

Confesso che fu la prima volta che sentii un tale editto: tutti quelli che avevo letto sul granellino di sabbia ove sono nato finivano invece con queste parole: «Perché tale è il nostro beneplacito.»

E

EGUAGLIANZA

Che cosa deve un cane a un cane, e un cavallo a un cavallo? Niente, nessun animale dipende dal suo simile; ma l'uomo, che ha ricevuto il raggio della Divinità chiamato ragione, che frutto ne ha? Quello d'essere schiavo in quasi tutta la terra.

Se questa terra fosse quella che sembra dover essere, vale a dire se l'uomo vi trovasse ovunque una sussistenza facile e assicurata e un clima confacente alla sua natura, è chiaro che sarebbe impossibile ad un uomo asservirne un altro. Se la terra abbondasse di frutti salutari; se l'aria che deve contribuire alla nostra vita non ci desse anche le malattie e la morte; se l'uomo non avesse bisogno d'altro alloggio e letto se non quelli dei daini e dei caprioli, allora i Gengis Khan e i Tamerlani non avrebbero altri servi che i loro figli, i quali sarebbero abbastanza umani da aiutarli in vecchiaia.

In questo stato così naturale di cui godono tutti i quadrupedi, gli uccelli e i rettili, l'uomo sarebbe felice come loro, e il predominio diventerebbe una chimera, un'assurdità cui nessuno potrebbe pensare: perché infatti cercare dei servi quando non si ha bisogno di nessun servizio?

Se poi passasse in mente a qualche individuo dalla natura tirannica e dal braccio nerboruto di asservire il suo vicino meno forte di lui, la cosa sarebbe impossibile: l'oppresso si troverebbe lontano cento leghe prima che l'oppressore riuscisse a prendere le sue misure.

Tutti gli uomini sarebbero dunque necessariamente uguali se fossero senza bisogni. La miseria connessa alla nostra specie subordina un uomo a un altro uomo; la vera sciagura non è l'ineguaglianza, è la dipendenza.

Importa ben poco che un tale si chiami Sua Altezza, e il talaltro Sua Santità; ma è duro servire l'uno o l'altro. Una famiglia numerosa ha coltivato un buon terreno; due famigliole vicine hanno dei campi ingrati e ribelli: è naturale che le due famiglie povere servano la famiglia ricca, oppure che ne sgozzino tutti i suoi membri, questo è chiaro. Una delle due famiglie indigenti va ad offrire le sue braccia alla ricca per avere del pane; l'altra l'aggredisce ed è battuta. La famiglia serva è l'origine dei domestici e dei manovali; la famiglia battuta è l'origine degli schiavi.

È impossibile, nel nostro disgraziato globo, che gli uomini che vivono in società non siano divisi in due classi, l'una di oppressori, l'altra di oppressi; e queste due classi si suddividono in mille, e queste mille hanno ancora sfumature diverse.

Non tutti gli oppressi sono assolutamente infelici. La maggioranza è nata in questo stato, e il lavoro continuo impedisce loro di soffrir troppo della propria situazione; ma, quando non ne possono più, allora si vedono le guerre, come quella del partito popolare contro il partito del senato a Roma; quelle dei contadini in Germania, in Inghilterra, in Francia. Tutte queste guerre finiscono, prima o poi, con l'asservimento del popolo, perché i potenti hanno il denaro, e il denaro è padrone di tutto in uno Stato: dico in uno Stato, perché le cose non vanno nello stesso modo da nazione a nazione. La nazione che saprà meglio servirsi del ferro soggiogherà sempre quella che avrà più oro e meno coraggio.

Ogni uomo nasce con un'inclinazione piuttosto violenta per il dominio, la ricchezza e i piaceri, e con altrettanta inclinazione per la pigrizia: di conseguenza ogni uomo vorrebbe avere il denaro e le donne o le figlie degli altri, esserne padrone, sottometterli a tutti i suoi capricci, e non far niente, o a meno non fare nient'altro che cose molto piacevoli. Vedete bene che con queste belle disposizioni, è tanto impossibile che gli uomini siano uguali com'è impossibile che due predicatori o due professori di teologia non siano gelosi l'uno dell'altro.

Il genere umano, così com'è, non può sussistere, a meno che non ci sia un'infinità di uomini utili che non possiedano niente del tutto: perché, certamente, un uomo che se la passa bene non lascerà la propria terra per venire ad arare la vostra; e, se avete bisogno di un paio di scarpe, non sarà certo un ministro a farvele. L'eguaglianza è dunque ad un tempo la cosa più naturale e la più chimerica.

Poiché gli uomini, quando lo possono, sono eccessivi in tutto, si è portata all'estremo quest'ineguaglianza; si è preteso in vari paesi che non fosse lecito a un cittadino uscire dalla contrada in cui il caso l'ha fatto nascere; il senso di questa legge è senza possibilità di dubbio: Questo paese è tanto cattivo e così mal governato che vietiamo a qualsiasi

individuo di uscirne, per paura che ne escano tutti. Comportatevi meglio: date a tutti i vostri sudditi la voglia di restare

nel vostro paese, e agli stranieri di venirci.

Ogni uomo, in fondo al cuore, ha il diritto di credersi interamente eguale agli altri uomini; non ne consegue che il cuoco di un cardinale debba ordinare al suo padrone di preparargli il pranzo; ma il cuoco può dire: «Sono un uomo come il mio padrone; sono nato come lui piangendo; egli morirà con le mie stesse angosce e con le stesse cerimonie. Facciamo ambedue le stesse funzioni animali. Se i turchi s'impadroniscono di Roma, e se allora io divento cardinale e il mio padrone cuoco, lo prenderò al mio servizio.» Tutto questo discorso è ragionevole e giusto; ma aspettando che il gran Turco s'impadronisca di Roma, il cuoco deve fare il suo dovere, o qualsiasi società umana è sovvertita.

Quanto a colui che non è né cuoco di cardinale né riveste alcuna carica statale; quanto al privato che non deve niente a nessuno, ed è seccato d'essere ricevuto dappertutto con aria di protezione o di disprezzo, e sa bene che parecchi

monsignori non hanno né maggior cultura, né maggior acume, né maggiore virtù di lui, e che alla fine si stufa di fare

anticamera, quale partito dovrà prendere? Quello di andarsene.

ENTUSIASMO

Questa parola greca significa «commozione di viscere, agitazione interiore». I greci inventarono questa parola per indicare le scosse dei nervi, la dilatazione e la contrazione degli intestini, le violente palpitazioni del cuore, il corso precipitoso di quegli spiriti di fuoco che salgono dalle viscere al cervello quando si è violentemente commossi?

Oppure si diede il nome di entusiasmo, di turbamento delle viscere alle contorsioni di quella Pizia che, sul tripode di Delfi, riceveva lo spirito di Apollo per una via che non sembra fatta altro che per ricevere dei corpi?

Cosa intendiamo, noi, per entusiasmo? Quante sfumature nei nostri sentimenti! Approvazione, sensibilità, emozione, turbamento, affanno, passione, impeto, demenza, furore, rabbia: ecco tutti gli stati per i quali può passare questa povera anima umana.

Un geometra assiste a una tragedia commovente: nota soltanto che è ben rappresentata. Un giovane al suo fianco è commosso e non nota nulla; una donna piange; un altro giovane è talmente eccitato che, per sua sventura, si mette a scrivere anche lui una tragedia: si è preso la malattia dell'entusiasmo.

Il centurione o il tribuno militare, che consideravano la guerra solo come un mestiere nel quale si poteva fare un po' di soldi, andavano tranquilli a combattere, come un muratore sale su un tetto. Cesare piangeva contemplando la statua di Alessandro.

Ovidio parlava d'amore con spirito; Saffo esprimeva l'entusiasmo di questa passione; e se è vero che essa le costò la vita, fu perché in lei l'entusiasmo si convertì in demenza.

Lo spirito di partito dispone in modo sbalorditivo all'entusiasmo: non c'è fazione che non abbia i propri energumeni.

L'entusiasmo è soprattutto il retaggio della religiosità male intesa. Il giovane fachiro che, nel dire le sue preghiere, vede la punta del suo naso, si monta a poco a poco sino a credere che, se si carica di catene del peso di cinquanta libbre, l'Essere supremo gliene sarà molto grato. Si addormenta con la fantasia piena di Brahma, e naturalmente lo vede in sogno. Qualche volta, fra il sonno e la veglia, dai suoi occhi sprizzano scintille: vede Brahma splendente di luce, cade in estasi, e questa malattia diventa spesso incurabile.

La cosa più difficile è il saper congiungere ragione ed entusiasmo; la ragione consiste nel vedere sempre le cose come sono; chi, nell'ubriachezza, vede doppio, è in quel momento privo di ragione.

L'entusiasmo è come il vino: può suscitare tanto tumulto nei vasi sanguigni e così violente vibrazioni nei nervi, che la ragione ne viene ottenebrata. Può anche causare soltanto leggere scosse, che provocano nel cervello un'attività un poco più intensa del normale: è quello che accade nei grandi moti d'eloquenza, e soprattutto nella poesia sublime. L'entusiasmo ragionevole è il dono dei grandi poeti.

Questo entusiasmo ragionevole è la perfezione della loro arte; è quel che fece credere un tempo che essi fossero ispirati dagli dei; ed è ciò che non fu mai detto degli altri artisti.

Come può la ragione governare l'entusiasmo? Un poeta traccia dapprima l'ordito della sua opera; e la ragione guida la sua penna. Ma, se vuole animare i personaggi e infondere loro la forza delle passioni, allora l'immaginazione si accende e subentra l'entusiasmo; è come un corsiero che prenda la mano, ma corra lungo una strada regolarmente tracciata.

Nel documento Dizionario filosofico (pagine 61-64)