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STORIA DEI RE EBREI E PARALIPOMENI

Nel documento Dizionario filosofico (pagine 135-142)

Tutti i popoli scrissero la loro storia, non appena impararono a scrivere. Anche gli ebrei scrissero la loro. Prima che avessero dei re, vivevano sotto una teocrazia; presumevano d'essere governati da Dio stesso.

Quando gli ebrei vollero avere un re, come gli altri popoli vicini, il profeta Samuele dichiarò loro, da parte di Dio, che essi ripudiavano Dio stesso; così tra gli ebrei la teocrazia ebbe fine non appena ebbe inizio la monarchia.

Si potrebbe dunque dire senza bestemmiare che la storia dei re ebrei fu scritta come quella degli altri popoli e che Dio non si dette la pena di dettare lui stesso la storia di un popolo che non governava più.

Si sostiene questa teoria con estrema diffidenza. Ciò che potrebbe confermarla è il fatto che i Paralipomeni contraddicono spessissimo il Libro dei Re, nella cronologia e nei fatti, come talvolta si contraddicono i nostri storici profani. Inoltre, se Dio scrisse sempre la storia degli ebrei, bisogna credere che Egli continui a scriverla, dato che gli ebrei sono sempre il suo popolo eletto. Essi dovranno convertirsi un giorno, e sembra che allora avranno anche il diritto di considerare come sacra la storia della loro dispersione, così come oggi hanno il diritto di dire che Dio scrisse la storia dei loro re.

Si può fare anche un'altra riflessione: poiché Dio fu il loro solo re per tanto tempo, e fu in seguito il loro storico, noi dobbiamo avere per tutti gli ebrei il rispetto più profondo.

Non c'è rigattiere ebreo che non sia infinitamente superiore a Cesare e ad Alessandro. Come non prosternarsi davanti a un rigattiere il quale vi dimostra che la sua storia fu scritta da Dio stesso, mentre le storie dei greci e dei romani ci vennero trasmesse da poveri profani?

Se lo stile del Libro dei re e dei Paralipomeni è divino, può anche darsi che le azioni raccontate in quelle storie non siano divine: David assassina Uria; Isboset e Mifiboset muoiono assassinati; Assalonne assassina Amnone; Joab assassina Assalonne; Salomone assassina Adonia, suo fratello; Baasa assassina Nadab; Zimri assassina Ela; Omri assassina Zimri; Achab assassina Naboth; Jehv assassina Achab e Joram; gli abitanti di Gerusalemme assassinano Amasia, figlio di Joas; Sellum, figlio di Jabesh, assassina Zaccaria, figlio di Geroboamo; Menahem assassina Sellum, figlio di Jabesh; Facee, figlio di Romelia, assassina Faceia, figlio di Menahem; Osea, figlio di Ela, assassina Facee, figlio di Romelia. E passiamo sotto silenzio altri assassinii di minor conto. Bisogna riconoscere che, se fu lo Spirito Santo a scrivere questa storia, non scelse certo un argomento molto edificante.

SUPERSTIZIONE

I

Capitolo tratto da Cicerone, da Seneca e da Plutarco

Quasi tutto quello che va oltre l'adorazione di un Essere supremo e la sottomissione del cuore ai suoi ordini eterni è superstizione. Ce n'è una pericolosissima: il perdono dei crimini dovuto a certe cerimonie.

Et nigras mactant pecudes, et manibus divis Inferias mittunt.

Oh! faciles nimium qui tristia crimina caedis Fluminea tolli posse putatis aqua!

Voi pensate che Dio dimenticherà il vostro omicidio, se vi bagnate in un fiume, se immolate una pecora nera, e se vengono pronunziate su voi certe parole. Un secondo omicidio ci sarà dunque perdonato per lo stesso prezzo, e anche un terzo; e cento assassinii non vi costeranno che cento pecore nere e cento abluzioni! Fate qualcosa di meglio, miserabili mortali: niente assassinii e niente pecore nere!

Che idea infame immaginare che un sacerdote di Iside e di Cibele, suonando cembali e nacchere, vi riconcilierà con la Divinità! E chi è mai dunque questo sacerdote di Cibele, questo eunuco vagabondo che vive delle vostre debolezze, per pretendere di essere il mediatore fra il cielo e voi? Quali patenti ha ricevuto da Dio? Egli riceve del denaro da voi per borbottare certe parole, e voi pensate che l'Essere degli esseri ratifichi le parole di quel ciarlatano?

Ci sono superstizioni innocenti: voi danzate, nei giorni di festa, in onore di Diana o di Pomona o di qualcuno di quegl'iddii secondari di cui è pieno il vostro calendario: niente di male. La danza è assai dilettevole, fa bene al corpo, rallegra l'animo, non fa male a nessuno; ma non crediate che Pomona e Vertumno vi siano molto grati per aver fatto quattro salti in onor loro, o che vi puniscano se non li avete fatti. Non c'è altra Pomona o altro Vertumno che la vanga o

la zappa dell'ortolano. Non siate tanto stupidi da credere che il vostro orto sarà colpito dalla grandine se non avrete danzato la pirrica o il cordace.

C'è forse una superstizione scusabile e che può anzi incoraggiare la virtù: quella di porre fra gli dei i grandi uomini che furono i benefattori del genere umano. Senza dubbio, sarebbe meglio limitarsi a considerarli semplicemente come uomini venerabili, e, soprattutto, cercare di imitarli. Venerate senza culto alcuno un Solone, un Talete, un Pitagora; ma non adorate un Ercole perché pulì le stalle di Augia o perché possedette in una sola notte cinquanta ragazze.

Guardatevi soprattutto dallo stabilire un culto per degli esaltati, che non ebbero altro merito che l'ignoranza, l'entusiasmo e la sozzura; che si fecero un vanto e un dovere dell'ozio e della mendicità; coloro che furono per lo meno inutili, durante la loro vita, meritano l'apoteosi dopo la morte?

Non dimenticate che le età più superstiziose furono sempre quelle in cui si compirono i più mostruosi delitti. II

Il superstizioso sta alla canaglia come lo schiavo al tiranno. C'è di più: il superstizioso è governato dal fanatico, e diventa tale anche lui. La superstizione, nata nel paganesimo, accolta dal giudaismo, infettò la Chiesa cristiana sin dai suoi primi tempi. Tutti i Padri della Chiesa, senza eccezione, credettero al potere della magia. La Chiesa condannò sempre la magia, ma vi credette sempre: non scomunicò gli stregoni come pazzi piombati nell'errore, ma come uomini che avevano realmente commercio con i demoni.

Oggi, metà dell'Europa crede che l'altra metà sia stata e sia ancora superstiziosa. I protestanti considerano le reliquie, le indulgenze, le macerazioni, le preghiere per i defunti, l'acqua benedetta e quasi tutti i riti della Chiesa romana una superstiziosa follia. La superstizione, secondo loro, consiste nel considerare necessarie certe pratiche inutili. Tra i cattolici romani, ce ne sono alcuni più illuminati dei loro avi, che hanno rinunciato a molte di queste usanze un tempo sacre, e si scusano delle altre, che conservano, dicendo: «Sono cose indifferenti, e quel che è solo indifferente non può essere un male.»

È difficile segnare i limiti della superstizione. Un francese che viaggi in Italia trova quasi ovunque dei superstiziosi, e forse non ha torto. L'arcivescovo di Canterbury reputa superstizioso l'arcivescovo di Parigi; i presbiteriani muovono lo stesso rimprovero all'arcivescovo di Canterbury, e sono a loro volta trattati da superstiziosi dai quaccheri, che, a giudizio degli altri cristiani, sono i più superstiziosi di tutti.

Nessuno è d'accordo, dunque, nelle comunità cristiane, su quel che sia la superstizione. La setta che sembra meno colpita da questa malattia dello spirito è quella che ha meno riti. Ma se, pur con poche cerimonie, è fortemente legata a una credenza assurda, questa credenza equivale, essa sola, a tutte le pratiche superstiziose osservate da Simone Mago fino al parroco Gauffridi.

Risulta perciò evidente che è l'essenziale della religione di una setta a venir considerato come superstizione da un'altra setta.

I musulmani accusano di superstizione tutte le comunità cristiane, e ne sono a loro volta accusati. Chi giudicherà questo gran processo? La ragione? Ma ogni setta pretende di avere la ragione dalla propria parte. Sarà dunque la forza a decidere, nell'attesa che la ragione penetri in un numero abbastanza grande di teste da poter disarmare la forza.

Per esempio, ci fu un tempo in cui, nell'Europa cristiana, non era permesso ai novelli sposi di godere dei diritti del matrimonio, senza aver prima acquistato tale diritto dal vescovo o dal curato.

Chiunque, nel suo testamento, non avesse lasciato parte dei suoi beni alla Chiesa, veniva scomunicato e privato della sepoltura. Questo si chiamava «morire non confesso», ossia senza confessare la religione cristiana. E quando un cristiano moriva intestato, la Chiesa liberava il defunto da tale scomunica, facendo testamento per lui, stipulando e facendosi pagare i pii lasciti che il defunto avrebbe dovuto fare. Fu per questo che papa Gregorio IX e san Luigi ordinarono, dopo il concilio di Narbona del 1235, che ogni testamento per il quale non si fosse chiamato un prete, sarebbe stato nullo; e il papa stabilì che il testatore ed il notaio sarebbero stati scomunicati.

La tassa sui peccati fu ancora, se è possibile, più scandalosa. Era la forza che dava validità a tutte queste leggi cui si sottometteva la superstizione dei popoli; e solo col tempo la ragione riuscì ad abolire queste vergognose vessazioni, pur lasciandone sussistere parecchie altre.

Fino a qual punto la politica permette che si distrugga la superstizione? È, questa, una questione assai spinosa, come chiedere fino a che punto si può toglier acqua a un idropico, che potrebbe morire durante l'operazione. Dipende dalla prudenza del medico.

Può esistere un popolo libero da qualunque pregiudizio superstizioso? È come chiedere: «Può esistere un popolo di filosofi?» Si dice che la magistratura della Cina non sia affatto superstiziosa. È verosimile che non lo resteranno le magistrature di alcune città d'Europa.

Allora quei magistrati impediranno che la superstizione del popolo sia pericolosa. Il loro esempio non servirà a illuminare la plebaglia, ma i più aperti fra i borghesi la terranno a freno. Non ci fu, un tempo, un solo tumulto, un solo attentato religioso in cui i borghesi non abbiano preso parte, perché anch'essi erano allora plebaglia; ma la ragione e i tempi finirono col cambiarli. E i loro costumi, addolciti, addolciranno quelli della massa più vile e feroce; ne abbiamo esempi sorprendenti in più d'un paese. In breve, meno superstizioni, meno fanatismo; e meno fanatismo, meno sofferenze.

T

TEISTA

Il teista è un uomo fermamente convinto dell'esistenza di un Essere supremo tanto buono che potente, che ha formato tutti gli esseri estesi, vegetanti, senzienti e pensanti; che perpetua la loro specie, punisce senza crudeltà le colpe e ricompensa con bontà le azioni virt uose.

Il teista non sa come Dio punisca, ricompensi e perdoni; poiché non è tanto temerario da lusingarsi di conoscere come Dio agisce; ma sa che Dio agisce ed è giusto. Le difficoltà contro la Provvidenza non scuotono affatto la sua fede, perché sono soltanto grandi difficoltà, non prove; è sottomesso a questa Provvidenza, sebbene ne scorga solo alcuni effetti e alcune apparenze; e, giudicando le cose che non vede da quelle che vede, pensa che essa si estenda a tutti i luoghi e a tutti i tempi.

Concorde in questo principio con il resto dell'universo, il teista non abbraccia alcuna setta, sapendo che tutte si contraddicono. La sua religione è la più antica e la più diffusa di tutte, perché la semplice adorazione di un Dio precedette tutti i sistemi del mondo. Egli parla una lingua che tutti i popoli intendono, mentre essi non si intendono affatto tra loro. Ha fratelli da Pechino alla Caienna, e considera fratelli suoi tutti gli uomini saggi. Egli crede che la religione non consista né nelle opinioni d'una metafisica inintelligibile, né in vani apparati, ma nell'adorazione e nella giustizia. Fare il bene, questo il suo culto; essere sottomesso a Dio, questa la sua dottrina. Il maomettano gli grida: «Guai a te se non farai il pellegrinaggio alla Mecca!»; e un recolletto gli dice: «Sventura a te se non vai a Loreto a pregare la Madonna!» Egli ride di Loreto e della Mecca, ma soccorre il povero e difende l'oppresso.

TEOLOGO

Ho conosciuto un vero teologo; parlava perfettamente le lingue dell'Oriente ed era istruito sugli antichi riti delle nazioni quant'è possibile esserlo. i brahmani, i caldei, gli ignicoli, i sabei, i siriani, gli egiziani gli erano altrettanto noti che gli ebrei; le diverse lezioni della Bibbia gli erano familiari; per trent'anni aveva cercato di conciliare i Vangeli e di mettere d'accordo i Padri della Chiesa. Aveva cercato di precisare in quali anni fu composto il Simbolo attribuito agli apostoli, e quello che va sotto il nome di Atanasio; come furono istituiti uno dopo l'altro i sacramenti; qual era la differenza tra la sinassi e la messa; perché e in che modo la Chiesa cristiana si divise, dopo la sua nascita, in diversi partiti e come la comunità dominante trattò tutte le altre da eretiche. Aveva scandagliato gli abissi della politica che si immischiava sempre in quelle liti, e aveva distinto tra la politica e la saggezza, fra l'orgoglio che vuole soggiogare gli animi, e il desiderio di illuminare se stessi, tra lo zelo e il fanatismo.

La difficoltà di mettere ordine nel proprio cervello in tante cose la cui natura invece è quella d'essere confuse, e di gettare un po' di luce su tanto buio, lo disgustò più di una volta; ma poiché quelle ricerche costituivano il dovere del suo stato, egli vi si impegnò totalmente, nonostante il disgusto. E raggiunse, infine, conoscenze ignorate dalla maggior parte dei suoi confratelli. E più crebbe la sua sapienza e più diffidò di tutto quel che sapeva. Finché visse, fu indulgente; e alla sua morte confessò di avere consumato inutilmente la sua vita.

TIRANNIA

Si chiama «tiranno» quel sovrano che non conosce altre leggi che il suo capriccio, che ruba gli averi dei suoi sudditi e poi li arruola per andare a rubare quelli dei suoi vicini. Di tali tiranni, in Europa, non ce ne sono.

Si distingue la tirannia di uno solo e quella di molti. Questa tirannia di molti sarebbe quella di un corpo che usurpasse i diritti degli altri corpi, e che esercitasse il dispotismo per mezzo delle leggi da lui corrotte. Non esistono nemmeno queste specie di tiranni in Europa.

Sotto quale tirannia preferireste vivere? Sotto nessuna; ma, se bisognasse scegliere, detesterei meno la tirannia di uno solo che quella di molti. Un despota ha sempre qualche momento di buonumore; un'assemblea di despoti non ne ha mai. Se un tiranno mi fa un'ingiustizia, potrò disarmarlo per mezzo della sua amante, del suo confessore o del suo paggio; ma una compagnia di cupi tiranni è inaccessibile ad ogni seduzione. Quando non è ingiusta, è per lo meno dura; e mai concede grazie.

Se vivo sotto un solo despota, me la cavo scansandomi contro un muro, appena lo vedo passare, o prosternandomi o battendo la fronte in terra, secondo i costumi dei vari paesi; ma se al governo c'è una compagnia di cento despoti, sono costretto a ripetere la cerimonia cento volte al giorno, il che alla lunga è assai noioso, quando non si abbiano le giunture pieghevoli. Se poi ho un podere vicino a quello di uno di questi signori, sarò schiacciato; se ho un processo contro un parente dei suoi parenti, sarò rovinato. Come fare? Ho paura che in questo mondo si sia ridotti ad essere incudine o martello: beato chi sfugge a questa alternativa!

TOLLERANZA

I

Che cos'è la tolleranza? È la prerogativa dell'umanità. Siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente i nostri torti, è la prima legge di natura.

Alla Borsa di Amsterdam, di Londra, di Surat, o di Bassora, il ghebro, il baniano, l'ebreo, il musulmano, il deicola cinese, il bramino, il cristiano greco, il cristiano romano, il cristiano protestante, il cristiano quacchero trafficano insieme; nessuno di loro leverà il pugnale contro un altro per guadagnare anime alla propria religione. Perché, allora, ci siamo scannati a vicenda quasi senza interruzione, dal primo concilio di Nicea in poi?

Costantino cominciò col promulgare un editto che permetteva tutte le religioni, e finì col perseguitarle. Prima di lui si era combattuto contro i cristiani solo perché cominciavano a costituire un partito nello Stato. I romani permettevano tutti i culti, perfino quelli degli ebrei e degli egiziani, per i quali provavano tanto disprezzo. Perché Roma li tollerava? Perché né gli egiziani, né gli stessi giudei, cercavano di distruggere l'antica religione dell'Impero; non correvano per le terre e per i mari a far proseliti: pensavano solo a far quattrini. Mentre è incontestabile che i cristiani volevano che la loro fosse la religione dominante. Gli ebrei non volevano che la statua di Giove stesse a Gerusalemme; ma i cristiani non volevano ch'essa stesse in Campidoglio. San Tommaso ha il coraggio di confessare che, se i cristiani non detronizzarono gli imperatori, fu solo perché non ci riuscirono. Convinti che tutta la terra dovesse essere cristiana, erano, dunque, necessariamente nemici di tutta la terra, finché questa non fosse convertita.

Erano inoltre nemici gli uni degli altri su tutti i punti controversi della loro religione. Bisogna, anzitutto, considerare Gesù Cristo come Dio? Coloro che lo negano vengono anatemizzati sotto il nome di ebioniti, i quali a loro volta anatemizzano gli adoratori di Gesù.

Alcuni vogliono che tutti i beni siano in comune, come si sostiene che lo fossero al tempo degli apostoli? I loro avversari li chiamano «nicolaiti», e li accusano dei più infami delitti. Altri tendono a una devozione mistica? Vengono chiamati «gnostici» e ci si scaglia contro di loro con furore. Marcione disputa sulla Trinità? Lo si tratta da idolatra.

Tertulliano, Prassea, Origene, Novato, Novaziano, Sabellio, Donato, sono tutti perseguitati dai loro fratelli, prima di Costantino; e appena questi ha fatto trionfare la religione cristiana, gli atanasiani e gli stessi eusebiani si massacrano a vicenda; e, da allora sino ad oggi, la Chiesa cristiana s'è inondata di sangue.

Il popolo ebreo era, lo ammetto, un popolo assai barbaro. Scannava senza pietà tutti gli abitanti di uno sventurato piccolo paese, sul quale non aveva più diritti di quanti ne abbia oggi su Parigi e su Londra. Tuttavia, quando Naaman guarì dalla lebbra per essersi immerso sette volte nel Giordano; quando, per testimoniare la sua gratitudine a Eliseo, che gli aveva insegnato quel segreto, gli disse che avrebbe adorato per riconoscenza il Dio degli ebrei, riservandosi però la libertà di adorare anche il Dio del suo re e ne chiese il permesso a Eliseo, il profeta non esitò a concederglielo. Gli ebrei adoravano il loro Dio, ma non si meravigliavano del fatto che ogni popolo adorasse il proprio. Trovavano giusto che Chemosh avesse concesso un certo distretto ai moabiti, purché Dio ne concedesse uno anche a loro. Giacobbe non esitò a sposare le figlie di un idolatra. Labano aveva il suo Dio, come Giacobbe aveva il suo. Ecco degli esempi di tolleranza presso il popolo più intollerante e crudele dell'antichità: noi lo abbiamo imitato nei suoi assurdi furori, e non nella sua indulgenza.

È chiaro che chiunque perseguiti un uomo, suo fratello, perché questi non è della sua opinione, è un mostro. Questo è indiscutibile. Ma il governo, i magistrati, i principi, come si comporteranno con coloro che professano un culto diverso dal loro? Se sono stranieri potenti, è certo che un principe farà alleanza con loro. Il cristianissimo Francesco I, si alleerà con i musulmani contro Carlo V re cristianissimo. Francesco I darà denaro ai luterani di Germania per sostenerli nella loro rivolta contro l'imperatore, ma comincerà, secondo l'uso, col far bruciare i luterani che sono nel suo regno: li finanzia in Sassonia per ragioni politiche; li brucia, per le stesse ragioni, a Parigi. E cosa succederà? Le persecuzioni fanno proseliti; e ben presto la Francia sarà piena di nuovi protestanti. Dapprima, essi si lasceranno impiccare; poi impiccheranno a loro volta. Ci saranno guerre civili, poi verrà la notte di san Bartolomeo; e questo angolo del mondo sarà peggio di tutto quanto gli antichi e i moderni dissero dell'inferno.

Nel documento Dizionario filosofico (pagine 135-142)