Si trova, qualche volta, in certi detti popolari, un'immagine che riflette quel che avviene in fondo al cuore di tutti gli uomini. Presso i romani, sensus communis significava non solo senso comune, ma umanità, sensibilità. Poiché noi valiamo meno dei romani, questa locuzione significa per noi solo la metà di quel che significava per loro: per noi significa buonsenso, ragione grossolana, ragione incipiente, prima nozione delle cose ordinarie, stato intermedio fra la stupidità e l'intelligenza. «Quell'uomo non ha senso comune», è una grossa ingiuria. «Quell'uomo ha senso comune» è ugualmente un'ingiuria: perché significa che non è del tutto stupido, ma nemmeno dotato di ciò che chiamiamo ingegno. Ma da dove deriva l'espressione «senso comune» se non dai sensi? Quando la inventarono, gli uomini credevano che nulla penetrasse nell'anima se non attraverso i sensi; altrimenti, avrebbero usato la parola «senso» per indicare il modo comune di ragionare?
Si dice talvolta: «Il senso comune è molto raro.» Che significa questa frase? Che in molti uomini la ragione incipiente viene impedita a svilupparsi da qualche pregiudizio; che il tal uomo, che giudica del tutto rettamente in una materia, s'ingannerà sempre grossolanamente in un'altra. Quell'arabo, che pur sarà un ottimo calcolatore, un dotto chimico, un astronomo esatto, crederà tuttavia che Maometto abbia infilato mezza luna nella sua manica.
Perché costui, che ha superato il senso comune nelle tre scienze di cui parlo, resta invece al di sotto di esso quando si tratta di quella mezza luna? Perché nei primi casi egli ha veduto con i propri occhi e ha perfezionato la propria intelligenza; e nel secondo ha veduto con gli occhi altrui, ha chiuso i propri, e pervertito il senso comune che è in lui.
Come può avvenire questo singolare pervertimento del giudizio? E come mai le idee, che procedono con passo tanto fermo e regolare nel suo cervello su un gran numero d'argomenti, possono zoppicare così miseramente a proposito di un altro argomento mille volte più tangibile e facile da comprendere? Quell'uomo ha sempre in sé i medesimi principi d'intelligenza: bisogna dunque che ci sia in lui qualche organo viziato, come accade talvolta che il ghiottone più raffinato abbia un gusto depravato per qualche specie particolare di cibo.
E in qual modo s'è viziato l'organo di quell'arabo, che vede metà della luna nella manica di Maometto? Per paura. Gli han detto che se non credeva a quella manica, la sua anima, immediatamente dopo la morte, passando sul
ponte aguzzo, sarebbe caduta per sempre nell'abisso. E gli hanno detto, anche di peggio: «Se mai tu dubitassi di quella manica, un derviscio ti tratterà da empio; un altro ti dimostrerà che sei un insensato, perché avendo tutti i motivi possibili per credere, non hai voluto sottomettere la tua superba ragione all'evidenza; un terzo ti deferirà al piccolo Divano di una piccola provincia, e sarai legalmente impalato.»
Tutto questo ispira un terrore panico al buon arabo, a sua moglie, a sua sorella, a tutta la sua famigliola. Per il resto sono dotati di buon senso; ma su questo punto la loro immaginazione è malata, come quella di Pascal, che vedeva sempre un precipizio accanto alla sua poltrona. Ma il nostro arabo crede veramente alla manica di Maometto? No: ma si sforza di credere, e dice: «È una cosa impossibile, ma è vera; io credo a quel che non credo.» E così si ficca in testa, a proposito di quella manica, un caos di idee che non osa sbrogliare: e questo, in verità, significa non avere senso comune.
SETTA
Ogni setta, di qualunque genere sia, è l'insieme del dubbio e dell'errore. Scotisti, tomisti, realisti, nominalisti, papisti, calvinisti, molinisti, giansenisti, non sono che nomi di guerra.
Non ci sono sette in geometria: non si dice «un euclidiano», o «un archimediano».
Quando la verità è evidente, è impossibile che sorgano partiti e fazioni. Mai s'è disputato se a mezzogiorno sia giorno o notte.
Essendo ormai conosciuta la parte dell'astronomia che si riferisce al corso degli astri e al ritorno delle eclissi, non ci sono più dispute fra gli astronomi.
In Inghilterra, non si dice mai: «Io sono newtoniano, io sono lockiano, io sono halleyano». Perché? Perché chiunque li abbia studiati, non può rifiutare il suo consenso alle verità insegnate da questi tre grandi uomini. Più vien riverito Newton, e meno ci si dice newtoniani: parola, questa, che potrebbe far supporre che ci sono in Inghilterra degli antinewtoniani. Noi, in Francia, abbiamo forse ancora alcuni cartesiani, ma unicamente perché il sistema di Descartes è un tessuto di fantasie erronee.
Lo stesso accade per quel piccolo numero di verità di fatto che sono ben assodate. Poich é gli atti della Torre di Londra furono scrupolosamente raccolti da Rymer, non esistono rymeriani, perché nessuno pensa a dubitare dell'autenticità di quella raccolta. Non vi si trovano né contraddizioni, né assurdità, né prodigi: niente che offenda la ragione; niente, quindi, che dei settari possano sforzarsi di sostenere o di confutare con ragionamenti assurdi. Tutti sono d'accordo, dunque, che gli Atti di Rymer sono degni di fede.
Voi siete musulmano; dunque c'è gente che non lo è; dunque, potreste aver torto.
Quale sarebbe la vera religione, se non esistesse il cristianesimo? Quella in cui non ci fossero sette e in cui tutti gli animi fossero necessariamente d'accordo.
Ora, in quale dogma gli animi si son tutti accordati? Nell'adorazione di un Dio e nella probità. Tutti i filosofi del mondo che han creduto in una religione dissero, in tutti i tempi: «C'è un Dio, e bisogna essere giusti.» Ecco, dunque, stabilita la religione universale da sempre e per sempre e per tutti gli uomini.
Il punto nel quale tutti si accordano è dunque vero; e i sistemi in cui differiscono sono falsi.
«La mia setta è la migliore di tutte,» mi dice un bramino. Ma, amico mio, se la tua setta è buona, è necessaria; perché, se non fosse assolutamente necessaria, convieni con me che sarebbe inutile; se è assolutamente necessaria, è tale per tutti gli uomini: come va, allora, che non tutti gli uomini hanno ciò che è loro assolutamente necessario? Perché il resto della terra non si cura di te e del tuo Brahma?
Quando Zoroastro, Ermes, Orfeo, Minosse e tutti i grandissimi uomini dicono: «Adoriamo Dio e siamo giusti,» nessuno ride; ma tutti prendono a fischi chi pretende che non si può piacere a Dio se non si muore tenendo in mano una coda di vacca, se non ci si fa tagliare l'estremità del prepuzio, se non si consacrano coccodrilli e cipolle, se non si fa dipendere la salvezza eterna da certi ossicini di morti che si portano sotto la camicia, oppure da un'indulgenza plenaria che si compera a Roma per due soldi e mezzo.
Donde viene questo universale concorso di fischi e di risate che esplodono da un capo all'altro del mondo? Bisogna pure che le cose di cui il mondo si burla non brillino per una loro verità evidente. Che ne diremmo di quel segretario di Seiano, che dedicò a Petronio uno scritto ampolloso, intitolato: «La verità degli oracoli sibillini provata dai fatti»?
Quel segretario vi mostra anzitutto che era necessario che Dio inviasse sulla terra parecchie Sibille, l'una dopo l'altra, perché non aveva altri mezzi per istruire gli uomini. È dimostrato che Dio parlava a queste sibille, perché la parola «sibilla» significa «consiglio di Dio». Esse dovevano vivere a lungo, perché le persone cui Dio parla devono avere almeno tale privilegio. Furono in numero di dodici, perché questo numero è sacro. Avevano certamente predetto tutti gli eventi del mondo, perché Tarquinio il Superbo acquistò da una vecchietta, per cento scudi, tre dei loro libri. «Quale incredulo,» aggiunge il segretario, «oserà negare tutti questi fatti evidenti, accaduti al cospetto di tutti gli uomini? Chi potrà negare il compimento delle loro profezie? Lo stesso Virgilio non ne citò le predizioni? E se non possediamo più i primi esemplari dei libri sibillini, scritti in un tempo in cui non si sapeva né leggere, né scrivere, non ne abbiamo forse copie autentiche? L'empietà deve tacere, davanti a queste prove.» Così parlava Huttevillus a Seiano. Sperava così d'essere compensato con un posto di augure che gli fruttasse cinquantamila lire di rendita. Ma non ne ebbe nemmeno una lira.
«Quel che insegna la mia setta è oscuro, lo ammetto,» dice un fanatico. «Ma è proprio a causa di questa oscurità che bisogna credervi, perché essa stessa afferma di essere piena di oscurità. La mia setta è stravagante, dunque è divina: infatti, come mai quello che sembra così insensato sarebbe stato creduto da tanti popoli, se non contenesse in sé alcunché di divino? È proprio esattamente come il Corano, di cui i sunniti dicono che ha una faccia d'angelo e una di bestia; non scandalizzatevi del muso della bestia, e riverite la faccia dell'angelo.» Così parla questo insensato. Ma un fanatico di un'altra setta gli risponde: «Sei tu la bestia, e l'angelo sono io.»
Chi potrà giudicare un processo simile? Chi deciderà tra questi due energumeni? L'uomo ra gionevole, imparziale, sapiente di una scienza che non sia puramente verbale; l'uomo libero da pregiudizi e amante della verità e della giustizia; l'uomo, insomma, che non è una bestia, e non crede di essere un angelo.
SOGNI
Somnia, quae ludunt animos volitantibus umbris, Non delubra deum nec ab aethere numina mittunt, Sed sua quisque facit.
Ma perché, quando tutti i vostri sensi sono spenti nel sonno, ce n'è uno interno che resta vivo? Perché, mentre i vostri occhi non vedono più e le vostre orecchie non odono niente, tuttavia nei vostri sogni vedete e udite? Il cane, in sogno, va a caccia: abbaia, insegue la sua preda, la divora. Il poeta crea versi dormendo, il matematico vede figure, il metafisico ragiona, bene o male: ne abbiamo esempi stupefacenti.
Sono forse i soli organi della macchina corporea che agiscono? È l'anima pura, che, sottratta all'imperio dei sensi, gode dei suoi diritti in piena libertà?
Se gli organi da soli producono i sogni della notte, perché non produrranno da soli le idee del giorno? Se l'anima pura, tranquilla per il riposo dei sensi, agendo da sé, è l'unica causa, l'unico soggetto di tutte le idee che vi vengono dormendo, perché tutte quelle idee sono quasi sempre irregolari, irrazionali, incoerenti? Come! proprio nei momenti in cui l'anima è meno turbata, c'è maggior turbamento in tutte le sue fantasie? Essa è in libertà, ed è pazza! Se fosse nata con idee metafisiche, come han confermato tanti scrittori che sognavano ad occhi aperti, le sue idee, pure e luminose, dell'essere, dell'infinito, di tutti i primi principi, dovrebbero ridestarsi in lei con la massima energia, quando il suo corpo giace addormentato; e mai si sarebbe tanto buoni filosofi come quando si sogna.
Qualunque sistema abbracciate, qualunque vano sforzo compiate per provare a voi stessi che la memoria sommuove il vostro cervello e che questo sommuove la vostra anima, dovete riconoscere che tutte le vostre idee vi vengono nel sonno senza il vostro consenso, anzi vostro malgrado; la vostra volontà non vi ha nessuna parte. È dunque certo che potete pensare per sette o otto ore senza avere la minima volontà di pensare: anzi, senza nemmeno esser sicuri di pensare. Riflettete su questo, e cercate d'indovinare quale sia la composizione dell'animale.
I sogni sono sempre stati un grande oggetto di superstizione: niente di più naturale. Un uomo, vivamente turbato per la malattia della sua amante, sogna di vederla moribonda; essa muore l'indomani: gli dei, dunque, gli han predetto la sua morte.
Un generale d'armata sogna di vincere una battaglia, e in effetti la vince: gli dei l'hanno avvertito che avrebbe vinto.
Si tiene conto solo dei sogni che si sono avverati; gli altri li dimentichiamo. I sogni hanno una grossa parte nella storia antica, così come gli oracoli.
La Vulgata traduce così la fine del versetto 26 del capitolo XIX del Levitico: «Non darete peso ai sogni.» Ma la parola «sogno» non è nel testo ebraico: e sarebbe strano che si condannasse l'osservazione dei sogni nel medesimo libro in cui si narra che Giuseppe diventò il benefattore dell'Egitto e della sua famiglia per avere spiegato tre sogni.
L'interpretazione dei sogni era cosa tanto comune che non ci si limitava ad essa: bisognava anche indovinare ciò che un altr'uomo aveva sognato. Nabucodonosor, avendo dimenticato un sogno che aveva fatto, ordinò ai suoi maghi d'indovinarlo, minacciandoli di morte se non ci fossero riusciti; ma l'ebreo Daniele, che era della scuola dei maghi, salvò loro la vita indovinando il sogno del re e interpretandolo. Questa storia e molte altre potrebbero servire a provare che la legge degli ebrei non vietava l'oniromanzia, che è la scienza dei sogni.
STATI, GOVERNI. QUAL'È IL MIGLIORE?
Fino ad oggi non ho conosciuto persona che non abbia governato qualche Stato. Non parlo dei signori ministri, che governano in effetto, chi per due o tre anni, chi per sei mesi e chi per sei settimane; parlo di tutti gli altri uomini che, a cena o nel loro gabinetto, espongono il loro sistema di governo, riformando gli eserciti, la Chiesa, la magistratura e le finanze.
L'abate di Bourzeis si mise a governare la Francia verso l'anno 1645, sotto il nome del cardinale di Richelieu e scrisse quel Testamento politico, nel quale vuole arruolare la nobiltà nella cavalleria per tre anni; far pagare l a taglia alle camere dei conti e ai parlamenti, privare il re dei proventi della gabella; e afferma in particolare che, per entrare in
guerra con cinquantamila uomini, bisogna, per economia, arruolarne centomila; dichiara che «la sola Provenza ha molti più porti di mare della Spagna e dell'Italia messe assieme».
L'abate di Bourzeis non aveva viaggiato. Del resto la sua opera pullula di anacronismi e di errori: fa firmare il cardinale di Richelieu in una maniera che egli non usò mai, lo fa parlare come mai parlò. Per di più, impiega un intero capitolo per dire che «la ragione deve essere la regola di uno Stato» e sforzandosi di provare tale scoperta. Quest'opera delle tenebre, questo bastardo dell'abate di Bourzeis passò a lungo per il figlio legittimo del cardinale di Richelieu; e tutti gli accademici, nei loro discorsi di recezione, non mancavano di lodare a dismisura questo capolavoro di politica.
Messer Gatien de Courtilz, visto il successo del Testamento politico di Richelieu, fece stampare all'Aja il
Testamento di Colbert, con una bella lettera del signor Colbert al re. È chiaro che se questo ministro avesse scritto un
simile testamento, si sarebbe dovuto interdirlo; tuttavia, questo libro è stato citato da qualche autore. Un altro furfante, di cui si ignora il nome, non mancò di darci il Testamento di Louvois, ancora peggiore, se possibile, di quello di Colbert; e un abate di Chevremont fece testare anche Carlo, duca di Lorena. Abbiamo poi avuto i testamenti politici del cardinale Alberoni, del maresciallo di Belle-Isle, e infine quello di Mandrin.
Il signor de Boisguillebert, autore di Le Détail de la France, stampato nel 1695, sotto il nome del maresciallo di Vauban, presentò il suo ineseguibile progetto della decima regale.
Un pazzo, di nome La Jonchère, povero in canna, compose, nel 1720, un progetto finanziario in quattro volumi; e certi stupidi hanno citato questa produzione come un'opera di La Jonchère, tesoriere generale, sicuri che un tesoriere non potrà mai scrivere un cattivo libro di finanze .
Ma bisogna ammettere che uomini molto saggi, e forse molto degni di governare, scrissero sull'amministrazione degli Stati, sia in Francia, sia in Spagna, sia in Inghilterra. I loro libri fecero un gran bene: non che, quando quei libri uscirono, abbiano corretto i ministri in carica, perché un ministro non si corregge e non può correggersi: ormai sta in alto, niente più istruzioni né consigli; non ha tempo d'ascoltarli, la corrente degli affari lo travolge. Ma quei buoni libri formano i giovani destinati alle cariche; formano i principi, e la seconda generazione è istruita.
Il buono e il cattivo di tutti i governi sono stati esaminati profondamente in questi ultimi tempi. Ditemi dunque, voi che avete viaggiato, che avete letto e veduto, in quale Stato, sotto quale specie di governo vorreste essere nato? È chiaro che un gran signore terriero francese non sarebbe scontento d'essere nato in Germania: sarebbe sovrano, invece d'essere suddito; e che un pari di Francia sarebbe molto lieto di godere i privilegi della parìa inglese: sarebbe legislatore.
Il magistrato e il finanziere si troverebbero meglio in Francia che altrove.
Ma quale patria sceglierebbe un uomo saggio, libero, dotato di non larghi mezzi, e senza pregiudizi?
Un membro del consiglio di Pondichéry, abbastanza colto, ritornava in Europa per via di terra con un bramino, più istruito dei comuni bramini. «Come trovate il Governo del Gran Mogol?» chiese il consigliere. «Abominevole,» rispose il bramino. «Come volete che uno Stato possa essere ben governato dai tartari? I nostri ragià, i nostri omra, i nostri nababbi ne sono molto contenti, ma i cittadini non lo sono affatto, e milioni di cittadini contano qualcosa.»
Il consigliere e il bramino attraversarono ragionando tutta l'Asia superiore. «Avete osservato?» disse il bramino. «In questa vasta parte del mondo non c'è neppure una repubblica.» «C'è stata una volta quella di Tiro,» disse il consigliere, «ma non è durata a lungo. Ce n'era anche un'altra verso l'Arabia Petrea, in un piccolo paese chiamato Palestina, se si può onorare col nome di repubblica un'orda di ladri e usurai, governata ora da giudici, ora da re, ora da sommi pontefici, divenuta schiava sette o otto volte e infine cacciata dal paese che aveva usurpato.»
«Capisco,» disse il bramino, «che sulla terra si trovino pochissime repubbliche. Gli uomini sono ben di rado degni di governarsi da soli. Questa fortuna non può toccare che a piccoli popoli che si nascondono in isole o tra le montagne, come dei conigli che stanno alla larga dagli animali carnivori; ma alla lunga vengono scoperti e divorati.»
Quando i due viaggiatori arrivarono nell'Asia Minore, il consigliere disse al bramino: «Credereste mai che ci fu una repubblica, fondata in un angolo dell'Italia, che durò più di cinquecento anni e che fu padrona di quest'Asia Minore, dell'Asia, dell'Africa, e ancora della Grecia, delle Gallie, della Spagna e di tutta l'Italia?» «Dunque ben presto si trasformò in monarchia?» disse il bramino. «Avete indovinato,» disse l'altro, «ma quella monarchia crollò, e noi facciamo tutti i giorni belle dissertazioni per scoprire le cause della sua decadenza e della sua caduta.» «Perdete tempo e basta,» disse l'indiano: «quell'impero è caduto perché esisteva. Bisogna pure che tutto cada; spero che capiti altrettanto all'impero del Gran Mogol.» «A proposito,» disse l'europeo, «credete anche voi che in uno Stato dispotico importi più l'onore e, in una repubblica, la virtù?» L'indiano, dopo essersi fatto spiegare dall'altro che cosa intendesse per onore, rispose che l'onore era più necessario in una repubblica, e che c'era maggior bisogno di virtù in uno Stato monarchico. «Perché,» disse, «un uomo che pretende d'essere eletto dal popolo, non lo sarà, se è disonorato; invece a corte potrà facilmente ottenere qualche carica, secondo la massima di un grande principe, che un cortigiano, per riuscire, non deve avere né onore né spirito. Quanto alla virtù, a corte occorre possederne a dismisura per osar dire la verità. L'uomo