Il fachiro Bambabef incontrò un giorno un discepolo di Kung Fu-tzu, che noi chiamiamo Confucio, e questo discepolo si chiamava Uang. Bambabef sosteneva che il popolo ha bisogno di essere ingannato. Uang invece affermava che non bisogna mai ingannare nessuno. Eccovi, riassunta, la loro discussione.
BAMBABEF
Bisogna imitare l'Essere supremo, che non ci mostra le cose quali sono in realtà: egli ci fa vedere il sole con un diametro di due o tre piedi, sebbene questo astro sia un milione di volte più grande della terra; ci fa vedere la luna e le stelle attaccate sullo stesso fondo azzurro, mentre si trovano a distanze diverse. Vuole che, vista da lontano, una torre quadrata ci sembri rotonda; vuole che il fuoco ci sembri caldo, sebbene in sé non sia né caldo né freddo. Insomma, ci circonda di errori convenienti alla nostra natura.
UANG
Quelli che voi chiamate errori non sono tali. Il sole, quale si trova a milioni di milioni di li di là dal nostro globo, non è quello che noi vediamo. Noi non vediamo, in realtà, e non possiamo vedere che il sole che si riflette sulla nostra retina, sotto un determinato angolo. I nostri occhi non ci sono stati dati per conoscere le grandezze e le distanze; per conoscerle occorrono altri ausili e altre operazioni.
Bambabef sembrò molto stupito a queste parole. Uang, che era molto paziente, gli spiegò la teoria dell'ottica; e Bambabef, che non era affatto stupido, si arrese alle dimostrazioni del discepolo di Confucio. Poi riprese la disputa in questi termini:
Se Dio non ci inganna per mezzo dei nostri sensi, come io credevo, ammettete almeno che i medici ingannano sempre i bambini per il loro bene; dicono che daranno loro dello zucchero, e invece danno loro del rabarbaro. E dunque, io, fachiro, posso ingannare il popolo, che è ignorante come i bambini.
UANG
Io ho due figli, e non li ho mai ingannati. Ho detto loro, quando erano malati: «Ecco una medicina molto amara, bisogna avere il coraggio di berla; vi farebbe male se fosse dolce.» Non ho mai sopportato che governanti e precettori incutessero loro paura degli spiriti, dei fantasmi, dei folletti, degli stregoni. E così ne ho fatti dei giovani cittadini coraggiosi e saggi.
BAMBABEF
Il popolo non è nato in una condizione felice come quella della vostra famiglia. UANG
Tutti gli uomini si somigliano: sono nati con le stesse disposizioni. Sono i fachiri che corrompono la natura degli uomini,
BAMBABEF
Noi insegnamo loro degli errori, lo confesso, ma per il loro bene. Noi facciamo credere loro che, se non comprano i nostri chiodi benedetti, se non espiano i loro peccati dandoci del denaro, diventeranno, in un'altra vita, cavalli da posta, cani o lucertole: ciò li sgomenta, e così diventano gente per bene.
UANG
Ma non vi accorgete di pervertire questa povera gente? Ce ne sono fra loro, più che non si creda, che ragionano, e che se la ridono dei vostri miracoli, delle vostre superstizioni; che sanno benissimo che non saranno cambiati né in lucertole né in cavalli da posta; e allora, che accade? Essi hanno abbastanza buon senso da capire che gli insegnate una religione balorda, ma non ne hanno abbastanza per elevarsi verso una religione pura e libera da superstizioni come la nostra. Le passioni li portano a credere che non c'è religione, perché la sola che si insegna loro è ridicola; voi diventate colpevoli di tutti i vizi in cui affondano.
BAMBABEF
Niente affatto, perché noi insegnamo loro una buona morale. UANG
Vi fareste lapidare dal popolo, se gli insegnaste una morale impura. Gli uomini sono cosiffatti che accettano volentieri di commettere il male, ma non accettano che glielo si predichi. Bisognerebbe soltanto non mischiare una morale saggia con favole assurde, perché così voi indebolite, con le vostre imposture, di cui potreste fare a meno, quella morale che siete obbligati a insegnare.
BAMBABEF
E che! Voi credete che si possa insegnare la verità al popolo senza sostenerla con delle favole? UANG
Lo credo fermamente. I nostri letterati sono della stessa pasta dei nostri sarti, dei nostri tessitori e dei nostri contadini. Essi adorano un Dio creatore, remuneratore e vendicatore. Essi non macchiano il loro culto né con sistemi assurdi, né con cerimonie stravaganti; e ci sono molto meno delitti fra i letterati che non tra il popolo. Perché non degnarsi di istruire i nostri operai, come istruiamo i nostri letterati?
BAMBABEF
Fareste una grossa sciocchezza. È come se voleste che fossero forniti delle stesse doti, che fossero tutti giureconsulti. Occorre pane bianco per i padroni e pane bigio per i domestici.
UANG
Ammetto che non tutti gli uomini debbano avere la stessa scienza; ma ci sono cose necessarie a tutti. È necessario che ognuno sia giusto, e il modo più sicuro di insegnare la giustizia a tutti è di insegnare la religione senza superstizioni. BAMBABEF
È bel progetto, ma impraticabile. Pensate forse che agli uomini basti credere in un Dio che punisce e ricompensa? Voi mi avete detto che spesso succede, tra il popolo, che i più intelligenti si ribellano alle mie favole: costoro si ribelleranno ugualmente alla vostra verità. Diranno: «Chi mi assicura che Dio punisce e ricompensa? Che prova c'è? E che missione avete, voi? Che miracolo avete compiuto perché vi creda?» E si burleranno di voi molto più che di me.
UANG
Ecco dov'è il vostro errore. Voi vi immaginate che si scuoterà il giogo di un'idea onesta, verosimile, utile a tutti, concorde con la ragione umana, solo perché si rifiutano cose disoneste, assurde, inutili, pericolose, che suscitano avversione in chi è dotato di buon senso.
Il popolo è dispostissimo a credere ai suoi magistrati; quando questi gli propongono una credenza ragionevole, la fa sua volentieri. Non c'è nessun bisogno di miracoli per credere in un Dio giusto, che legge nel cuore dell'uomo: è un'idea troppo naturale per essere combattuta. Non è necessario precisare in qual modo Dio punirà e ricompenserà: basta che si creda alla sua giustizia. Vi assicuro che ho visto intere città che non avevano quasi altri dogmi, e sono quelle dove ho trovato più virtù.
BAMBABEF
Fateci caso: in queste città troverete anche dei filosofi che vi negheranno e le pene e le ricompense. UANG
Ma ammetterete che questi filosofi negheranno ancor più vivamente le vostre invenzioni: Perciò non avete niente da guadagnarci. E quand'anche vi fossero dei filosofi che rifiutassero i miei principi, non sarebbero per questo meno onesti né meno ricchi di quella virtù che deve essere praticata per amore, non per paura. Ma c'è di più: lo vi assicuro che nessun filosofo potrebbe mai essere certo che la Provvidenza non riservi pene ai malvagi e ricompense ai buoni; perché se essi mi chiederanno chi mi ha detto che Dio punisce, io chiederò loro chi gli ha detto che Dio non punisce. Insomma, sostengo che i filosofi mi aiuteranno, lungi dal contraddirmi. Volete essere filosofo anche voi?
BAMBABEF
Volentieri. Ma non ditelo ai fachiri.
G
GENESI
Non anticiperemo qui quanto diciamo di Mosè nella voce a lui dedicata; seguiremo, per ordine, qualche passo principale del Genesi.
«Nel principio Iddio creò il cielo e la terra.»
Così è stato tradotto, ma la traduzione non è esatta. Non c'è uomo un po' istruito che non sappia che il testo porta: «Nel principio, gli dei fecero» oppure «gli dei fece il cielo e la terra». D'altronde, questa lezione è conforme all'antica idea dei fenici, i quali avevano immaginato che Dio, avesse impiegato divinità inferiori per dare ordine al caos, lo sciautereb. I fenici erano da molto tempo un popolo potente, che aveva già la sua teogonia pr ima che gli ebrei si fossero impadroniti di qualche villaggio sui confini del loro paese. È ben naturale pensare che, quando gli ebrei ebbero finalmente un piccolo insediamento presso la Fenicia, abbiano cominciato ad apprenderne la lingua, soprattutto quando vi furono schiavi. Allora, coloro che impararono a scrivere, si misero bellamente a copiare qualcosa dell'antica teologia dei loro padroni: è così che avanza lo spirito umano.
Nei tempi in cui si crede che Mosè sia vissuto, i filosofi fenici ne sapevano probabilmente abbastanza per considerare la terra come un punto, a paragone della infinita moltitudine di mondi che Dio ha posti nell'immensità dello spazio chiamato «cielo». Ma quell'idea, così antica e così falsa che il cielo sia stato fatto per la terra, è sempre prevalsa nel volgo ignorante. È press'a poco come se si dicesse che Dio creò tutte le montagne e un granello di sabbia, e ci si immaginasse che le montagne siano state fatte per quel granello! Non è possibile che i fenici, così abili navigatori, non avessero dei buoni astronomi; ma i vecchi pregiudizi prevalevano, e questi vecchi pregiudizi furono la sola scienza degli ebrei.
«La terra era tohu-bohu e vuota; le tenebre erano sopra la faccia dell'abisso, e lo spirito di Dio era portato sulle acque.»
Tohu-bohu significa precisamente caos, disordine; è uno di quei vocaboli imitativi che si trovano in tutte le
lingue, come «sottosopra», «frastuono», «trictrac». La terra non aveva ancora la forma di adesso, la materia esisteva, ma la potenza divina non l'aveva ancora formata. Lo spirito di Dio significa il soffio, il vento, che agitava le acque. Quest'idea è espressa nei frammenti dell'autore fenicio Sanchuniathon. I fenici, come tutti gli altri popoli, credevano all'eternità della materia. Non c'è un solo autore, nell'antichità, che abbia mai detto che qualcosa sia stato tratto dal nulla. In tutta la Bibbia non si trova nemmeno un passo in cui si dice che la materia venne creata dal nulla.
Gli uomini furono sempre divisi sulla questione dell'eternità del mondo, ma mai su quella dell'eternità della materia.
Ex nihilo nihil, in nihilum nil posse reverti. Ecco l'opinione di tutta l'antichità.
«Dio disse: Sia fatta la luce, e la luce fu; ed egli vide che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre; e Dio chiamò la luce "giorno" e le tenebre "notte": e la sera e il mattino furono un giorno. E Dio disse anche: Sia fatto il firmamento in mezzo alle acque, ed esso separi le acque dalle acque. E Dio fece il firmamento e divise le acque al di sopra del firmamento da quelle al di sotto del firmamento; e Dio chiamò il firmamento "cielo". E la sera e il mattino furono il secondo giorno ecc. E Dio vide che ciò era buono.»
Cominciamo con l'esaminare se il vescovo di Avranches, Huet, e Leclerc non abbiano avuto veramente ragione contro coloro che pretendono di trovare in questo passo un tratto di eloquenza sublime.
Questo tipo di eloquenza non appartiene a nessuna storia scritta dagli ebrei. Lo stile è qui della massima semplicità, come nel resto dell'o pera. Se un oratore, per far conoscere la potenza di Dio, si servisse di questa sola espressione: «Egli disse: Sia fatta luce, e la luce fu», sarebbe veramente sublime. Tale è quel passo di un salmo: «Dixit, et facta sunt». È un tratto che, unico in quel passo e posto in modo da rendere una grande immagine, colpisce l'animo e lo rapisce. Ma qui siamo davanti a una narrazione di una semplicità assoluta. L'autore ebreo non parla della luce diversamente da come parla degli altri oggetti della creazione; ripete egualmente ad ogni versetto: «E Dio vide che ciò era buono.». Tutto è sublime nella creazione, non c'è dubbio: ma quella della luce non lo è più di quella dell'erba dei campi. Sublime è ciò che si innalza al di sopra del resto, mentre qui lo stesso tono regna in tutto il capitolo.
Era anche opinione antichissima che la luce non venisse dal sole. Vedendola diffondersi prima del levarsi e dopo il tramontare del sole, gli uomini immaginavano che il sole servisse solo a darle maggior forza. Così l'autore del
Genesi si conforma a questo errore popolare; e, per una singolare inversione dell'ordine delle cose, fa creare il sole e la
luna addirittura quattro giorni dopo la luce. Non riusciamo a capire come ci possano essere un mattino e una sera prima che ci sia un sole: c'è qui una confusione che è impossibile sbrogliare. Quell'autore «ispirato» si conformava ai vaghi e rozzi pregiudizi del suo popolo. Dio non pretendeva di insegnare la filosofia agli ebrei; certo, avrebbe potuto innalzare il loro spirito fino alla verità, ma preferì abbassarsi fino a loro.
La separazione della luce e delle tenebre non appartiene a una fisica migliore; sembra che la notte e il giorno fossero mescolati assieme come grani di specie diversa che debbano venir separati. È abbastanza noto che le tenebre non sono altro che la privazione della luce, e che non c'è luce, in realtà, se non in quanto i nostri occhi ne ricevono la sensazione; ma a quei tempi si era ben lontani dal conoscere queste verità.
Anche l'idea di un firmamento appartiene alla più remota antichità. Ci si immaginava che i cieli fossero del tutto solidi, perché vi si vedevano sempre gli stessi fenomeni. I cieli ruotavano sul nostro capo, e dunque dovevan essere fatti di una materia durissima. E il modo di calcolare come le esalazioni della terra e dei mari potevano fornire acqua alle nubi? Non c'era nessun Halley che potesse fare questo calcolo. Ci dovevan essere dunque dei serbatoi d'acqua, nel cielo.
Questi serbatoi non potevano essere sostenuti che da una volta molto solida: vi si vedeva attraverso, e dunque essa doveva essere di cristallo. Perché le acque superiori cadessero da questa volta sulla terra, era necessario che ci fossero porte, chiuse, cateratte, che s'aprissero e si chiudessero. Tale era l'astronomia ebraica; e poiché si scriveva per gli ebrei, bisognava pur adottare le loro idee.
«E Dio fece due grandi luminari: uno per presiedere al giorno, l'altro alla notte; e fece anche le stelle.»
Sempre la stessa ignoranza della natura. Gli ebrei non sapevano che la luna illumina solo di luce riflessa. E l'autore parla qui delle stelle come di una bagattella, sebbene esse siano altrettanti soli ciascuno dei quali ha dei mondi che ruotano attorno a lui. Lo Spirito Santo si proporzionava allo spirito dei tempi.
«Dio disse ancora: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, che sia padrone dei pesci del mare"...»
Che intendevano gli ebrei per «facciamo l'uomo a nostra immagine»? Quel che intendeva tutta l'antichità: Finxit in effigiem moderantum cuncta deorum.
Si fanno immagini solo di corpi. Nessun popolo immaginò un Dio senza corpo, ed è impossibile rappresentarselo altrimenti. Si può ben dire: «Dio non è nulla di tutto ciò che conosciamo», ma non si può avere alcuna idea di quello che egli è. Gli ebrei credettero sempre a un Dio corporeo, come tutti gli altri popoli. Tutti i primi Padri della Chiesa credettero anch'essi a un Dio corporeo, finché non ebbero abbracciato le idee di Platone.
Se Dio o gli dei secondari crearono l'uomo maschio e femmina, sembra, in questo caso, che gli ebrei credessero Dio e gli dei maschi e femmine. D'altronde non si capisce se l'autore voglia dire che l'uomo aveva dapprima in sé i due sessi, o se intende che Dio creò Adamo ed Eva lo stesso giorno. Il senso più naturale è che Dio formò Adamo ed Eva contemporaneamente, ma questo sarebbe in contraddizione con la formazione della donna, fatta con una costola dell'uomo molto tempo dopo i sette giorni.
«Ed egli il settimo giorno si riposò.»
I fenici, i caldei, gli indiani dicevano che Dio aveva creato il mondo in sei tempi, che l'antico Zoroastro chiama i sei gâhânbâr, così celebri tra i persiani.
È incontestabile che tutti questi popoli avevano una teologia prima che l'orda ebraica abitasse i deserti di Horeb e del Sinai, prima che potesse avere degli scrittori. È dunque assai verosimile che la storia dei sei giorni sia stata imitata da quella dei sei tempi.
«Dal luogo di voluttà usciva un fiume che irrigava il giardino, e di lì si divideva in quattro fiumi; il primo si chiama Pishon (Fison), che gira nel paese di Havila da cui viene l'oro... Il secondo si chiama Ghihon, che circonda l'Etiopia... Il terzo è il Tigri e il quarto l'Eufrate.»
Secondo questa versione il paradiso terrestre avrebbe occupato quasi un terzo dell'Asia e dell'Africa. L'Eufrate e il Tigri hanno la loro sorgente a più di sessanta leghe l'una dall'altra, tra montagne orribili che non somigliano certo ad un giardino. Il fiume che costeggia l'Etiopia, e che non può essere che il Nilo o il Niger, comincia a più di settecento leghe dalle sorgenti del Tigri e dell'Eufrate; e, se il Fison è il Fasi, è ben strano che sia stata messa nello stesso luogo la sorgente di un fiume della Scizia e quella di un fiume dell'Africa.
Del resto, il giardino dell'Eden è chiaramente quello di Eden a Saana, nell'Arabia Felice, famosa in tutta l'antichità. Gli ebrei, popolo molto recente, erano un'orda araba. E menavano vanto di quel che c'era di più bello nel miglior cantone dell'Arabia. Essi si son sempre serviti delle antiche tradizioni delle grandi nazioni in cui si trovavano incorporati.
«Il Signore prese dunque l'uomo e lo pose nel giardino di voluttà perché lo coltivasse.»
È una bellissima cosa «coltivare il proprio giardino», ma è molto improbabile che Adamo potesse coltivare un giardino di sette od ottocento leghe d'estensione. O forse gli furon dati degli aiutanti.
«Non mangiate il frutto della scienza del bene e del male.»
È difficile concepire che ci sia stato un albero che insegnasse il bene e il male, come ci sono peri e albicocchi. E poi, perché Dio non vuole che l'uomo conosca il bene e il male? Il contrario non è molto più degno di Dio e molto più necessario all'uomo? Secondo la nostra povera ragione parrebbe giusto che Dio ordinasse di mangiarne molto di quel frutto; ma bisogna che la nostra ragione si sottometta.
«Come ne avrete mangiato, morirete.»
Tuttavia Adamo ne mangiò e non morì. Molti Padri hanno considerato tutto ciò un'allegoria. In effetti, si potrebbe dire che gli animali non sanno di dover morire, mentre l'uomo lo sa per merito della sua ragione. Questa ragione è l'albero della scienza che gli fa prevedere la sua fine. Una spiegazione che potrebbe essere forse la più ragionevole.
«Il Signore disse anche: "Non è bene che l'uomo sia solo, facciamogli un aiuto simile a lui."»
Ci si aspetta che il Signore dia ad Adamo una donna. Nient'affatto: il Signore gli dà come compagni tutti gli animali.
«E il nome che Adamo diede a ciascuno degli animali è il loro vero nome.»
Per «vero nome» di un animale si può intendere un nome che designi tutte le proprietà della sua specie, o almeno le principali. Ma questo non si trova in nessuna lingua del mondo. In ognuna vi sono solo alcuni nomi imitativi, come «coq» in lingua celtica e «lupus» in latino. Ma questi nomi imitativi sono in numero minimo. E poi, se Adamo avesse conosciuto tutte le proprietà degli animali, o aveva già mangiato il frutto della scienza, o non c'era bisogno che Dio gli vietasse di mangiarlo.
Osservate che questa è la prima volta che Adamo è nominato nel Genesi. Presso gli antichi brahmani, enormemente anteriori agli ebrei, il primo uomo si chiamava Adimo, «il figlio della terra», e sua moglie Procriti, «la