Non è del tutto naturale che le metamorfosi di cui la terra abbonda abbiano fatto immaginare in Oriente, dove tutto è stato immaginato, che le nostre anime passino da un corpo a un altro? Un punto quasi impercettibile diventa un verme, questo verme diventa farfalla; una ghianda si trasforma in quercia, un uovo in uccello; l'acqua diventa nuvola e tuono, il legno si muta in fuoco e cenere: tutto, nella natura, sembra insomma subire una metamorfosi. Così, ben presto si attribuì alle anime, immaginate come lievi figure, quel che si osserva in modo sensibile nei corpi più grossolani. L'idea della metempsicosi è forse il più antico dogma dell'universo conosciuto e vive ancora in gran parte dell'India e della Cina.
È anche assai naturale che tutte le metamorfosi di cui siamo testimoni abbiano prodotto quelle antiche favole che Ovidio ha raccolto nella sua opera mirabile. Gli ebrei stessi ebbero le loro metamorfosi. Se Niobe fu mutata in sasso, Edith, la moglie di Lot, fu mutata in una statua di sale. Se Euridice restò negli inferi per aver guardato dietro di sé, è per la medesima indiscrezione che la moglie di Lot fu privata della natura umana. Il borgo dove abitavano, in Frigia, Filemone e Bauci, si tramutò in un lago; lo stesso successe di Sodoma. Le figlie di Anio mutarono l'acqua in olio; nelle Scritture si narra di una metamorfosi pressoché simile, ma più vera e più santa. Cadmo fu mutato in serpente; la verga di Aronne diventò anch'essa un serpente.
Gli dei si trasformavano spessissimo in uomini; gli ebrei non videro mai gli angeli che sotto forma umana: gli angeli mangiarono in casa di Abramo. Paolo, nella sua Epistola ai Corinzi, dice che l'angelo di Satana lo schiaffeggiò: «Angelus Satanae me colaphiset».
MIRACOLI
Un miracolo, in virtù della parola stessa, è una cosa mirabile. In questo caso, tutto è miracolo, l'ordine prodigioso della natura, la rotazione di cento milioni di globi intorno a un milione di soli, l'attività della luce, la vita degli animali, sono perpetui miracoli.
Secondo le idee acquisite, chiamiamo miracolo la violazione di queste leggi divine ed eterne. Che ci sia un'eclissi di sole durante la luna piena, che un morto faccia a piedi due leghe di cammino portando tra le braccia la propria testa, lo chiamiamo miracolo. Molti fisici sostengono che in questo senso non esistono miracoli: ed ecco i loro argomenti.
Un miracolo è la violazione delle leggi matematiche, divine, immutabili, eterne. Per questa sola definizione, un miracolo è una contraddizione in termini. Una legge non può essere nello stesso tempo immutabile e violata. Ma una legge, si oppone, stabilita da Dio stesso, non può essere sospesa dal suo autore? I fisici di cui sopra hanno l'ardire di rispondere di no, e che è impossibile che l'Essere infinitamente saggio abbia fatto delle leggi per poi violarle. Non potrebbe, dicono, alterare la sua macchina se non per farla andare meglio; ora, è chiaro che essendo Dio, egli ha fatto quest'immensa macchina tanto bene quanto ha potuto: se ha visto che ci sarebbe stata qualche imperfezione, risultante dalla natura della materia, vi ha provveduto fin da principio; e perciò non vi apporterà mai alcun mutamento.
Inoltre, Dio non può,far nulla senza ragione: ora, quale ragione lo indurrebbe a sfigurare per qualche tempo la propria opera?
A favore degli uomini, si dice. Sarà dunque almeno a favore di tutti gli uomini, si ribatte: poiché è impossibile concepire che la natura divina operi per qualche uomo in particolare, e non per tutto il genere umano; e perfino il genere umano è ben poca cosa: è molto meno di un piccolo formicaio a paragone di tutti gli esseri che riempiono l'immensità. Ora non è la più assurda delle pazzie immaginare che l'Essere infinito sovverta a favore di tre o quattro centinaia di formiche, su questo mucchietto di fango, il gioco eterno delle molle immense che fanno muovere tutto l'universo?
Ma supponiamo che Dio abbia voluto distinguere un piccolo numero di uomini con certi favori particolari: dovrà mutare ciò ch e stabilì per tutti i tempi e tutti i luoghi? Non ha certo alcun bisogno di questo mutamento, di questa incostanza per favorire le sue creature: i suoi favori sono nelle sue stesse leggi. Per esse ha tutto previsto, tutto disposto; tutte obbediscono irrevocabilmente alla forza che egli ha impresso per sempre nella natura.
Perché Dio farebbe un miracolo? Per rendere perfetto un certo disegno su alcuni esseri viventi! Egli dovrebbe dire, dunque: «Con la fabbrica dell'universo, con i miei decreti divini, con le mie leggi eterne non mi è riuscito di venire a capo di un certo disegno; cambierò le mie idee eterne, le mie leggi immutabili, per cercare di eseguire ciò che con esse non ho potuto fare.» Sarebbe una confessione della sua debolezza, e non della sua potenza. Sarebbe in lui, mi pare, la più inconcepibile contraddizione. Così dunque, osare attribuire a Dio dei miracoli è veramente insultarlo (se mai gli uomini possono insultare Dio); è come dirgli: «Sei un essere debole e incoerente.» È dunque assurdo credere ai miracoli, è disonorare in qualche modo la Divinità.
Si insiste con questi filosofi, dicendo loro: «Voi avete un bell'esaltare l'immutabilità dell'Essere supremo, l'eternità delle sue leggi, la regolarità dei suoi mondi infiniti; questo nostro picco lo ammasso di fango è stato sempre visitato dai miracoli; le storie sono tanto ricche di prodigi quanto di eventi naturali. Le figlie del gran sacerdote Anio tramutavano tutto quel che volevano in grano, vino o olio; Atalide, figlia di Mercurio, risuscitò diverse volte Ippolito; Ercole strappò Alcesti alla morte; Heres ritornò nel mondo dopo aver passato quindici giorni negli inferi; Romolo e Remo nacquero da un dio e da una vestale; il Palladio cadde dal cielo nella città di Troia; la chioma di Berenice di ventò una costellazione; la capanna di Filemone e Bauci fu mutata in un superbo tempio; la testa di Orfeo pronunziava oracoli, dopo la sua morte; le mura di Tebe si costruirono da sole, al suono del flauto, al cospetto dei greci; le guarigioni avvenute nel tempio d'Esculapio furono innumerevoli, e noi possediamo ancora dei monumenti pieni di nomi e di testimoni oculari dei miracoli d'Esculapio.»
Nominatemi un popolo presso il quale non siano avvenuti degli incredibili prodigi, soprattutto nei tempi in cui si sapeva appena leggere e scrivere.
I filosofi rispondono a queste obiezioni limitandosi a ridere e ad alzare le spalle; ma i filosofi cristiani dicono: «Noi crediamo ai miracoli operati nella nostra santa religione; li crediamo per fede, e non per la nostra ragione, che ci guardiamo bene dall'ascoltare; perché, quando parla la fede, si sa che la ragione deve restare muta. Noi crediamo fermamente nei miracoli di Gesù Cristo e degli apostoli; ma permetteteci di dubitare un poco di parecchi altri. Consentite, ad esempio, che noi sospendiamo il nostro giudizio su ciò che ci narra un uomo semplice, cui è stato dato il nome di "grande". Egli assicura che un umile frate era così solerte nel fare miracoli che il suo priore infine gli proibì di esercitare questo dono. Il frate obbedì. Ma un giorno, vedendo un povero muratore piombare giù dal tetto, esitò fra il desiderio di salvargli la vita e la santa obbedienza. Ordinò soltanto al muratore di restare sospeso in aria sino a nuovo ordine, e andò di corsa dal priore a raccontargli come stavano le cose. Il priore l'assolse del peccato che aveva commesso, cominciando a fare un miracolo senza il suo permesso, e gli consentì di portarlo a termine, a patto però che la facesse finita e non ricominciasse più. Concordiamo con i filosofi che bisogna un po' diffidare di questa storia.»
«Ma come osereste negare,» si dice loro, «che san Gervasio e san Protasio siano apparsi in sogno a sant'Ambrogio e gli abbiano indicato il luogo ove si trovavano le loro reliquie? che sant'Ambrogio le abbia dissotterrate e che esse abbiano guarito un cieco? Sant'Agostino era allora a Milano; è lui che riferisce questo miracolo: "Immenso populo teste", scrive nel suo De civitate Dei, libro XXII. Ecco un miracolo fra i meglio assodati.» I filosofi rispondono che non credono a niente di tutto ciò; che Gervasio e Protasio non appaiono a nessuno; che al genere umano importa assai poco sapere dove si trovano i resti delle loro carcasse; che credono tanto poco alla guarigione di quel cieco quanto a quella del cieco di Vespasiano; che fu un miracolo inutile, e che Dio non fa niente di inutile; e restano fermi nei loro principi. Il mio rispetto per san Gervasio e san Protasio non mi permette di essere dell'avviso di questi filosofi; mi limito solo a riferire la loro incredulità. Essi fanno gran caso del passo di Luciano che si trova nella Morte di Peregrino: «Quando un abile prestigiatore si fa cristiano, è sicuro di far fortuna.» Ma, dato che Luciano è un autore profano, non deve godere di nessuna autorità fra di noi.
Questi filosofi non possono risolversi a credere ai miracoli operati nel II secolo. Invano alcuni testimoni oculari hanno scritto che quando il vescovo di Smirne, san Policarpo, fu condannato al rogo e gettato tra le fiamme, udirono una voce dal cielo che gridava: «Coraggio, Policarpo! Sii forte, mostrati uomo!»; e allora le fiamme del rogo si scostarono dal suo corpo e formarono una cupola di fuoco sopra la sua testa, e dal mezzo del rogo uscì una colomba: e così si fu obbligati a tagliare la testa a Policarpo. «A che pro questo miracolo?» dicono gli increduli. «Perché le fiamme hanno perduto la loro natura, e la mannaia del boia non ha perduto la sua? Com'è che tanti martiri uscirono sani e salvi dall'olio bollente e non poterono invece resistere al filo della spada?» Si risponde che tale fu la volontà di Dio. Ma i filosofi avrebbero voluto vedere tutto ciò con i loro occhi, prima di crederci.
Quelli poi che rafforzano i loro ragionamenti con la scienza, vi diranno che gli stessi Padri della Chiesa hanno più volte ammesso che ai tempi loro non si facevano più miracoli. San Crisostomo dice esplicitamente: «I doni straordinari dello Spirito erano concessi anche agli indegni, perché la Chiesa aveva allora bisogno di miracoli; ma oggi essi non sono più concessi nemmeno ai degni, perché la Chiesa non ne ha più bisogno.» E confessa poi che ai suoi tempi non c'era più nessuno che risuscitasse i morti, e nemmeno che guarisse i malati.
Sant'Agostino stesso, nonostante il miracolo di Gervasio e Protasio, scrive nel De Civitate Dei: «Perché quei miracoli che avvenivano un tempo oggi non avvengono più?» E ne dà la stessa ragione di san Crisostomo: «Cur, inquiunt, nunc illa miracula quae praedicatis facta esse non fiunt? Possem quidem dicere necessaria prius fuisse quam crederet mundus, ad hoc ut crederet mundus.»
Si obietta ai filosofi che sant'Agostino, nonostante questa confessione, narra tuttavia di un vecchio ciabattino di Ippona, il quale, avendo perduto il suo abito, andò a pregare nella cappella «dei venti martiri»; che, tornandosene via, trovò un pesce nel cui corpo c'era un anello d'oro; e che il cuoco che gli cucinò il pesce disse al ciabattino: «Ecco ciò che ti donano i venti martiri.»
Ma i filosofi rispondono che non c'è niente in questa storia che contraddica alle leggi della natura; che la fisica non è affatto offesa se un pesce ha inghiottito un anello d'oro e un cuoco ha regalato quell'anello a un ciabattino; che non v'è in ciò alcun miracolo.
Se si ricorda a questi filosofi che, secondo san Girolamo, nella sua Vita di Paolo l'eremita, il detto eremita parlò molto spesso con satiri e fauni; che un corvo gli portò tutti i giorni, per trent'anni, mezzo pane per desinare, e un pane intero il giorno in cui sant'Antonio venne a trovarlo, potranno ancora rispondere che tutto ciò non è assolutamente in contrasto con la fisica; che satiri e fauni possono pur essere esistiti e che, in ogni caso, se questo racconto è una favoletta, essa non ha niente in comune con i veri miracoli del Salvatore e dei suoi apostoli. Molti buoni cristiani hanno contestato la storia di san Simeone Stilita, scritta da Teodoreto. E molti miracoli, stimati autentici dalla Chiesa greca, furono invece messi in dubbio da parecchi latini, allo stesso modo che dei miracoli latini apparvero sospetti alla Chiesa greca; vennero in seguito i protestanti, che contestarono vivamente i miracoli dell'una e dell'altra Chiesa.
Un dotto gesuita, che predicò a lungo nelle Indie, si lamenta che né lui né i suoi confratelli sian mai riusciti a fare miracoli. Saverio si duole, in molte delle sue lettere, di non possedere il dono delle lingue; dice di trovarsi, fra i giapponesi, come una statua muta. Eppure i gesuiti scrissero che aveva risuscitato otto morti: son parecchi; ma bisogna anche considerare che egli li risuscitava a seimila leghe di qui. Si è trovata in seguito della gente convinta che l'abolizione dell'ordine dei gesuiti in Francia sia stata un miracolo ben più grande di quelli di Saverio e Ignazio.
Comunque sia, tutti i cristiani convengono che i miracoli di Gesù Cristo e degli apostoli sono assolutamente autentici, ma che si può fortemente dubitare di certi miracoli avvenuti nei nostri tempi, la cui autenticità non è sicura affatto.
Sarebbe augurabile, ad esempio, perché un miracolo venisse ben appurato, che fosse fatto in presenza dell'Accademia delle Scienze di Parigi, o della Società Reale di Londra, e della Facoltà di medicina, assistite da un distaccamento del reggimento delle guardie per contenere la folla, che potrebbe con la sua indiscrezione impedire il manifestarsi del miracolo.
Un giorno qualcuno chiese a un filosofo che cosa avrebbe detto se avesse veduto fermarsi il sole, cioè se fosse venuto a cessare il moto della terra intorno a quest'astro; se tutti i morti fossero risuscitati e tutte le montagne fossero andate a buttarsi nel mare: il tutto per provare qualche verità importante, come per esempio la grazia versatile. «Che cosa direi?» rispose il filosofo. «Mi farei manicheo; direi che c'è un principio che disfa ciò che l'altro ha fatto.»
MORALE
Ho appena letto queste parole in una declamazione in quattordici volumi, intitolata Histoire du Bas- Empire: «I cristiani avevano una morale; ma i pagani non ne avevano nessuna.»
Ah, signor Le Beau, autore di questi quattordici volumi, chi vi ha messo in testa tale panzana? Che cosa sarebbe dunque la morale di Socrate, di Zaleuco, di Caronda, di Cicerone, di Epitteto, di Marco Antonino?
Non c'è che una morale, signor Le Beau, come non c'è che una geometria. Ma mi si risponderà che la maggior parte degli uomini ignora la geometria. Sì, ma se ci si applica un po', ognuno concorda con i suoi principi. Gli agricoltori, i manovali, gli artigiani non hanno mai seguito corsi di morale; non hanno letto né il De finibus bonorum et
malorum di Cicerone né le Etiche di Aristotele; però, non appena si mettono a riflettere, diventano senza saperlo
discepoli di Cicerone: il tintore indiano, il pastore tartaro e il marinaio inglese conoscono il giusto e l'ingiusto. Confucio non inventò un sistema di morale come si costruisce un sistema di fisica: lo trovò nel cuore di tutti gli uomini.
Questa morale era nel cuore del pretore Festo quando i giudei lo sollecitarono a far morire Paolo, che aveva condotto degli stranieri nel loro tempio. «Sappiate,» rispose Festo, «che i romani non condannano nessuno senza averlo prima ascoltato.»
Se i giudei mancavano di morale, o mancavano alla morale, i romani la conoscevano e le rendevano onore. La morale non sta nella superstizione, non sta nelle cerimonie, non ha nulla in comune con i dogmi. Non si ripeterà mai abbastanza che tutti i dogmi sono diversi, mentre la morale è la medesima in tutti gli uomini che fanno uso della ragione. La morale viene dunque da Dio, come la luce. Le nostre superstizioni non sono che tenebre. Lettore, rifletti: sviluppa questa verità e traine le conseguenze.
MOSÈ
Molti dotti han sostenuto che il Pentateuco non può essere stato scritto da Mosè. Essi dicono che, dalla stessa scrittura, è accertato che il primo esemplare conosciuto fu trovato al tempo del re Giosia, che quest'unico esemplare fu portato al re dal segretario Safan. Ora, tra Mosè e questa azione del segretario Safan, corrono, secondo il computo ebraico, millecentosessantasette anni. Dio, infatti, apparve a Mosè nel roveto ardente l'anno 2213 dalla creazione del mondo, e il segretario Safan pubblicò il libro della legge l'anno 3380. Questo libro, trovato sotto Giosia, rimase
sconosciuto fino al ritorno degli ebrei dalla cattività di Babilonia; ed è scritto che fu Esdra , ispirato da Dio, a portare alla luce tutte le Sante Scritture.
Ora, che a comporre il Pentateuco sia stato Esdra o un altro, è assolutamente indifferente, dato che questo libro è veramente ispirato. Non è detto, nel Pentateuco, che Mosè ne è l'autore: potrebbe, quindi, essere permesso attribuirlo a un altro uomo, cui lo Spirito Divino lo abbia dettato, se la Chiesa non avesse deciso che esso è opera di Mosè.
Alcuni contradditori aggiungono che nessun profeta ha mai citato i libri del Pentateuco, che non se ne fa menzione né nei salmi, né nei libri attribuiti a Salomone, né in Geremia, o in Isaia, né infine in alcun libro canonico. Le parole che corrispondono a quelle di Genesi, Esodo, Numeri, Levitico, Deuteronomio non si trovano in nessun altro scritto né del Vecchio, né del Nuovo Testamento.
Altri, più arditi, hanno posto i seguenti quesiti:
1) In quale lingua Mosè avrebbe scritto in un selvaggio deserto? Non poteva essere che in egiziano, perché dal testo stesso risulta che Mosè e tutto il suo popolo erano nati in Egitto. È probabile che essi non parlassero altra lingua. Gli egiziani non si servivano ancora del papiro; i geroglifici venivano incisi sul marmo o sul legno. È anche detto che le tavole dei comandamenti furono incise sulla pietra. Si sarebbero dunque dovuti incidere su pietre polite cinque volumi, il che avrebbe richiesto sforzi e tempo prodigiosi.
2) È verosimile che in un deserto dove il popolo ebraico non aveva né calzolai né sarti, e dove il Dio dell'universo era obbligato a fare continui miracoli per conservare i vecchi abiti e le vecchie scarpe degli ebrei, si siano trovati uomini tanto abili da incidere cinque libri del Pentateuco sulla pietra o sul legno? Si dirà che si trovarono pure operai che fecero un vitello d'oro e che poi ridussero quell'oro in polvere; che costruirono il tabernacolo, che l'adornarono con trentaquattro colonne di bronzo dai capitelli d'argento, che tesserono e ricamarono i veli di lino, di giacinto, di porpora e di scarlatto. Ma proprio questo rafforza l'opinione dei contradditori. Essi replicano che non è possibile che, in un deserto dove mancava tutto, si siano potute fare opere così ricercate; che semmai si sarebbe dovuto cominciare col fare tuniche e calzari; che gente che manca del necessario non dà nel lu sso; e che è una evidente contraddizione dire che c'erano fonditori, incisori, scultori, tintori, ricamatori quando non c'erano né abiti, né sandali, né pane.
3) Se Mosè avesse scritto il primo capitolo del Genesi, sarebbe stato proibito a tutti i giovani di leggere quel primo capitolo? Si sarebbe portato così poco rispetto al legislatore? Se fosse stato Mosè a dire che Dio punisce l'iniquità