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GIUSTO (DEL) E DELL'INGIUSTO

Nel documento Dizionario filosofico (pagine 82-86)

Chi ci ha dato il sentimento del giusto e dell'ingiusto? Dio, che ci ha fornito di un cervello e di un cuore. Ma quand'è che la ragione ci illumina sul vizio e la virtù? Quando ci insegna che due più due fanno quattro. Non c'è conoscenza innata, per la stessa ragione per cui non c'è albero che sorga dalla terra già carico di foglie e di frutti. Niente è, come si dice, innato, ossia nato sviluppato; ma, ripetiamo ancora, Dio ci fa nascere con organi i quali, man mano che si sviluppano, ci fanno sentire tutto ciò che la nostra specie deve sentire per la conservazione di se stessa.

Come si produce questo mistero continuo? Ditemelo voi, gialli abitanti dell'isola della Sonda, neri africani, imberbi canadesi, e voi, Platone, Cicerone, Epitteto. Voi tutti sentite egualmente che è meglio dare ciò che avanza del vostro pane, del vostro riso, o della vostra manioca al povero che ve lo chiede umilmente, anziché ammazzarlo o cavargli gli occhi. È chiaro a tutti che un beneficio è più onesto di un oltraggio, che la mitezza è preferibile all'ira.

Si tratta dunque solo di servirci della nostra ragione per discernere le sfumature dell'onesto e del disonesto. Il bene e il male sono spesso vicini; le nostre passioni li confondono: chi ci illuminerà? Noi stessi, se siamo in tranquillità d'animo. Chiunque ha scritto sui nostri doveri, ha scritto bene in tutti i paesi del mondo, perché ha scritto ubbidendo alla sua ragione. Tutti hanno detto la stessa cosa: Socrate ed Epicuro, Confucio e Cicerone, Marco Antonio e Murad II ebbero la stessa morale.

Ripetiamolo ogni giorno a tutti gli uomini: «La morale è una: essa viene da Dio; i dogmi sono diversi: vengono da noi.»

Gesù non insegnò nessun dogma metafisico; non scrisse opuscoli teologici; non disse: «Io sono consustanziale, ho due volontà e due nature in una sola persona.» Egli lasciò ai cordiglieri e ai giacobini, che dovevano venire dodici secoli dopo di lui, il compito di argomentare per stabilire se sua madre fosse stata concepita o no nel peccato originale; non disse mai che il matrimonio è il segno visibile di una cosa invisibile; non disse una parola della grazia concomitante; non istituì né monaci né inquisitori; non prescrisse niente di quel che vediamo oggi.

Dio aveva dato la conoscenza del giusto e dell'ingiusto in tutti i tempi che precedettero il cristianesimo. Dio non è mutato e non può mutare; il fondo della nostra anima, i nostri principi di ragione e di morale saranno eternamente i medesimi. A che servono alla virtù le distinzioni teologiche, i dogmi fondati su queste distinzioni, le persecuzioni fondate su questi dogmi? La natura, sgomenta e fremente d'orrore contro tutte queste invenzioni barbare, grida a tutti gli uomini: «Siate giusti, e non dei sofisti persecutori!»

Leggete nel Sadder, che è il compendio delle leggi di Zoroastro, questa saggia massima: «Quando non è sicuro se un'azione che ti viene proposta sia giusta o ingiusta, astieniti.» Chi mai dette una regola più ammirevole? Quale legislatore si espresse meglio? Non è questo il sistema delle opinioni probabili, inventate da gente che si chiamava «la Società di Gesù».

Ben-al-Betif, quel degno capo dei dervisci, diceva loro un giorno: «Fratelli miei, sarà bene che vi serviate spesso di quella sacra formula del nostro Corano: "In nome di Dio molto misericordioso", perché Dio usa misericordia, e voi imparerete a usarla ripetendo spesso le parole che raccomandano una virtù senza la quale non resterebbero sulla terra che ben pochi uomini. Ma guardatevi bene, fratelli miei, d'imitare quei temerari che si vantano ogni momento di lavorare per la gloria di Dio. Se un giovane imbecille sostiene una tesi sulle categorie davanti a un ignorante in toga impellicciata, non manca di scrivere in grossi caratteri a capo della sua tesi: "Ek Allâh abron doxa: ad majorem Dei gloriam". Se un buon musulmano fa imbiancare il suo salotto, subito fa dipingere sull'uscio queste quattro parole; se un "saka" porta dell'acqua, lo fa per la maggior gloria di Dio. È un uso empio piamente praticato. Che direste di un umile servitore che, vuotando il vaso da notte del nostro sultano, esclamasse "Alla maggior gloria del nostro invincibile monarca"? Eppure, c'è ben maggior distanza dal sultano a Dio che dal sultano all'umile servitore.

«Che avete in comune, miserabili vermi della terra chiamati uomini, con la gloria dell'Essere infinito? Può egli amare la gloria? Può riceverne da voi? Può goderne? Fino a quando, animali bipedi e implumi, concepirete Dio a vostra immagine? E che! Perché voi siete vanitosi, perché amate la gloria, volete che anche Dio l'ami. Se esistessero molti dei, forse ognuno di loro vorrebbe ottenere i suffragi dei suoi simili. Questa sarebbe la gloria di un dio. Se si può paragonare la grandezza infinita con l'estrema piccolezza, questo Dio sarebbe come il re Alessandro, o Iskander, il quale voleva entrare in lizza solo contro dei re. Ma voi, poveri vermi, quale gloria potete procurare a Dio? Cessate di profanare il suo santo nome! Un imperatore, chiamato Ottaviano Augusto, proibì che lo si lodasse nelle scuole di Roma, per timore che il suo nome venisse avvilito. Ma voi non potete né avvilire l'Essere supremo né onorarlo. Annientatevi, adorate e tacete.»

Così parlava Ben-al-Betif; e i dervisci gridarono: «Gloria a Dio! Ben-al-Betif ha parlato da saggio!»

GRAZIA

Sacri consultori della Roma moderna, illustri e infallibili teologi, nessuno rispetta più di me le vostre divine decisioni; ma se Paolo Emilio, Scipione, Catone, Cicerone, Cesare, Tito, Traiano, Marco Aurelio tornassero in quella Roma cui un giorno dettero una certa fama, dovete riconoscere ch'essi sarebbero un po'stupiti delle vostre decisioni intorno alla grazia. Che direbbero se udissero parlare della grazia di salvezza secondo san Tommaso, e della grazia medicinale secondo il Caietano; della grazia esteriore e interiore, della gratuita, della santificante, dell'attuale, dell'abituale, della cooperante; dell'efficace, che qualche volta resta senza effetto; della sufficiente, che qualche volta non basta;della versatile e della congrua? In buona fede, essi ne capirebbero più di voi e di me?

Che bisogno avrebbe questa povera gente delle vostre sublimi istruzioni? Mi sembra di udirli dire:

Reverendi Padri, voi siete dei terribili geni; noi pensavamo stoltamente che l'Essere eterno non si conducesse mai secondo leggi particolari, come i vili umani, ma secondo le sue leggi generali, eterne come lui. Nessuno ha mai immaginato fra noi che Dio fosse simile a un padrone insensato, che dà un peculio a uno schiavo e rifiuta il nutrimento a un altro; che ordina a un monco d'impastare farina, a un muto di leggergli qualcosa, a un paralitico di fargli da corriere.

Tutto è grazia da parte di Dio: egli ha fatto al mondo che abitiamo la grazia di formarlo; agli alberi, la grazia di farli crescere; agli animali, quella di nutrirli. Ma si potrà dire che, se un lupo trova sulla sua strada un agnello per la sua cena, e un altro lupo muore di fame, Dio ha concesso al primo una grazia particolare? O che si è preso cura, con una grazia preveniente, di far crescere una quercia a preferenza di un'altra, cui manca la linfa? Se in tutta la natura tutti gli esseri sono soggetti alle leggi generali, perché mai una sola specie d'animali non dovrebbe esservi soggetta?

Perché il padrone assoluto di tutto dovrebbe prendersi cura di dirigere la vita intima di un solo uomo, più che di governare il resto dell'intera natura? Per quale bizzarria dovrebbe cambiare qualcosa nel cuore di un curlandese o di un biscaglino, mentre non cambia mai nulla alle leggi che ha imposto a tutti gli astri?

Che miseria supporre ch'egli faccia, disfi e rifaccia di continuo i nostri sentimenti! E che audacia crederci diversi da tutti gli esseri! Per di più, soltanto in coloro che vanno a confessarsi avverrebbero questi mutamenti. E così, un savoiardo, un bergamasco avrà il lunedì la grazia di far dire una messa per dodici soldi; il martedì, andrà all'osteria e la grazia lo pianterà in asso; il mercoledì avrà una grazia cooperante che lo spingerà a confessarsi, ma non avrà la grazia efficace della perfetta contrizione; il giovedì avrà invece una grazia sufficiente, che però, come si è detto, non lo assisterà sufficientemente. Dio lavorerà di continuo nella testa di quel bergamasco, ora con forza, ora debolmente, mandando al diavolo il resto della terra. Non si degnerà di occuparsi dell'intimo degli indiani e dei cinesi! Reverendi Padri, se vi resta un granello di ragione, non trovate questo sistema enormemente ridicolo?

Sciagurati, guardate quella quercia la cui cima si tende verso le nuvole, e quella canna che striscia ai suoi piedi: voi non dite che la grazia efficace è stata concessa alla quercia e negata alla canna. Alzate gli occhi al cielo, guardate l'eterno Demiurgo che crea milioni di mondi che gravitano tutti gli uni verso gli altri in virtù di leggi universali ed eterne. Vedete la stessa luce riflettersi dal sole a Saturno, e da Saturno a noi; e in questo accordo di tanti astri trascinati in rapido moto, in questa generale obbedienza di tutta la natura, osate credere, se potete, che Dio si preoccupi di dare una grazia versatile a suor Teresa e una concomitante a suor Agnese!

Atomo, al quale uno stupido atomo ha detto che l'Eterno ha leggi particolari per alcuni atomi del tuo vicinato, che concede la sua grazia a questo e la rifiuta a quello, che un tale, che non aveva la grazia ieri, l'avrà domani: non ripetere questa sciocchezza. Dio ha fatto l'universo, e non creerà certo nuovi venti per smuovere qualche fu scello di

paglia in un angolino dell'universo. I teologi sono come i guerrieri di Omero, i quali credevano che gli dei si armassero ora contro di loro, ora in loro favore. Se Omero non fosse considerato un poeta, sarebbe certo considerato un bestemmiatore.

È Marco Aurelio che parla così, non io. Perché Dio, che vi ispira, mi fa la grazia di credere a tutto quello che voi dite, a tutto quello che avete detto e a tutto quello che direte.

GUERRA

La carestia, la peste e la guerra sono i tre più famosi ingredienti di questo basso mondo. Si possono collocare nella classe della carestia tutti i cattivi nutrimenti cui la penuria ci costringe a ricorrere per abbreviare la nostra vita nella speranza di sostentarla.

Nella peste si comprendono tutte le malattie contagiose, che sono in numero di due o tremila. Questi due presenti ci vengono dalla provvidenza. Ma la guerra, che riunisce tutti questi doni, ci viene dall'inventiva di tre o quattrocento persone sparse sulla superficie del globo sotto il nome di principi o di governanti; è forse per questo motivo che costoro, in molte dediche, vengono chiamati «immagini viventi della divinità».

L'ottimista più risoluto ammetterà senza fatica che la guerra trascina sempre con sé la peste e la fame, per poco che abbia visto gli ospedali degli eserciti in Germania, o che sia passato in qualche villaggio dove è stata compiuta qualche impresa bellica.

Non c'è dubbio che non sia una bellissima arte, quella che devasta le campagne, distrugge le abitazioni e fa crepare, normalmente, in un anno, quarantamila uomini su centomila. Quest'invenzione fu dapprima coltivata da nazioni che s'erano riunite per il bene comune; per esempio la dieta dei greci dichiarò alla dieta della Frigia e dei popoli vicini che sarebbe partita su un migliaio di barche da pesca per andare a sterminarli, se poteva.

Il popolo romano adunato in assemblea giudicava che era suo interesse andare a battersi prima della mietitura contro il popolo di Veio, o contro i volsci. E qualche anno dopo tutti i romani, avendocela a morte contro tutti i cartaginesi, combatterono a lungo per mare e per terra. Oggi le cose vanno altrimenti.

Un genealogista prova a un principe che egli discende in linea diretta da un conte i cui parenti, tre o quattrocent'anni prima, avevano fatto un patto di famiglia con un casato di cui non rimane nemmeno la memoria. Quel casato aveva lontane pretese su una provincia il cui ultimo possessore è morto di apoplessia: il principe e il suo consiglio concludono senza difficoltà che quella provincia gli appartiene per diritto divino. La provincia in questione, che si trova a qualche centinaio di leghe di distanza, ha un bel protestare che non lo conosce, che non ha nessuna voglia di essere governata da lui; che, per dar leggi alla gente, bisogna almeno avere il loro consenso: questi discorsi non arrivano nemmeno agli orecchi del principe, il cui diritto è incontestabile. Egli trova di botto una quantità di uomini che non hanno niente da fare e niente da perdere; li veste d'un grosso panno turchino a cento soldi il braccio, orla il loro cappello d'un cordoncino bianco, li fa girare a destra e a sinistra e marcia verso la gloria.

Gli altri principi, che sentono parlare di questa spedizione, vi prendono parte, ciascuno secondo il suo potere, e coprono pochi palmi di terra di più mercenari omicidi di quanti ne trascinassero al loro seguito Gengis-Khân, Tamerlano, o Bâyazîd.

Popoli lontani sentono dire che qualcuno sta per battersi, e che ci sono cinque o sei soldi al giorno da guadagnare se vogliono essere della partita: subito si dividono in due schiere come i mietitori, e vanno a vendere i loro servizi a chiunque voglia assoldarli.

Queste moltitudini si accaniscono le une contro le altre non soltanto senza avere alcun interesse nella faccenda, ma senza neppure sapere di che si tratti.

E così si trovano contemporaneamente cinque o sei potenze belligeranti, ora tre contro tre, ora due contro quattro, ora una contro cinque; e tutte si detestano allo stesso modo, e di volta in volta si alleano e s'attaccano; tutte d'accordo su un punto solo, fare il maggior male possibile.

La cosa più strabiliante di questa impresa infernale è che ogni capo assassino fa benedire le sue bandiere e invoca solennemente Dio prima di andare a sterminare il prossimo. Se un capo ha avuto la fortuna di far sgozzare solo due o tremila uomini, non ne ringrazia Dio; ma quando ce ne sono almeno diecimila sterminati dal ferro e dal fuoco e, per colmo di grazia, è stata distrutta fino all'ultima pietra qualche città, allora si canta a quat tro voci una canzone abbastanza lunga, composta in una lingua ignota a tutti coloro che hanno combattuto, e per di più infarcita di barbarismi. La medesima canzone serve per i matrimoni e per le nascite, e al tempo stesso per la strage: questo è imperdonabile, soprattutto nel paese più famoso per le canzoni nuove che inventa a getto continuo.

La religione naturale ha innumerevoli volte impedito ai cittadini di commettere crimini. Un'anima bennata non ne ha la volontà; un'anima tenera ne ha orrore; essa si figura un dio giusto e vendicativo. Invece la religione artificiale incoraggia tutte le crudeltà che si commettono in gruppo: congiure, rivolte, rapine, imboscate, assalti alle città, saccheggi, stragi. Ognuno allegramente va incontro al delitto sotto la bandiera del proprio santo.

Ovunque viene pagato un certo numero d'oratori per celebrare quelle giornate di sangue; gli uni sono vestiti di un lungo giustacuore nero e di mantelluccio; gli altri indossano una camicia sopra una veste; alcuni portano sopra la camicia due strisce penzolanti di stoffa screziata. Tutti parlano a non finire: citano quel che si è fatto un giorno in Palestina a proposito di un combattimento in Veteravia.

Il resto dell'anno, questi tali declamano contro i vizi. Provano in tre punti e per antitesi che le dame che stendono un lieve strato di carminio sulle loro guance fresche saranno oggetto eterno delle eterne vendette dell'Eterno; che Polyeucte e Athalie sono opere del demonio; che un uomo che si fa servire in tavola duecento scudi di merluzzo in un giorno di quaresima ottiene immancabilmente il premio del paradiso, e che un pover'uomo che mangia due soldi e mezzo di montone è dannato per sempre all'inferno.

Su cinque o seimila declamazioni di questa specie, ce ne sono al massimo tre o quattro, composte da un gallo di nome Massillon, che un uomo retto può leggere senza disgusto; ma in tutti quei discorsi, non ce n'è uno in cui l'oratore osi ergersi contro quel flagello e quel crimine che è la guerra, la quale comprende in sé tutti i flagelli e tutti i crimini. Quegli sciagurati oratori parlano continuamente contro l'amore, che è la sola consolazione del genere umano e il solo modo di ridargli vita; non dicono niente degli sforzi esecrandi che facciamo per distruggerlo.

Hai fatto un gran brutto sermone sull'impurità, o Bourdaloue! ma non hai fiatato contro quegli omicidi compiuti in mille modi diversi, quelle rapine, quei brigantaggi, quella rabbia universale che devasta il mondo. Tutti i vizi riuniti di tutte le età e di tutti i luogh i non eguaglieranno mai i mali che produce una sola campagna di guerra.

Miserabili medici delle anime, state a gridare per cinque quarti d'ora su qualche puntura di spillo, e non dite niente sulla malattia che ci lacera in mille pezzi! Filosofi moralisti, bruciate tutti i vostri libri! Finché il capriccio di pochi uomini farà legalmente sgozzare migliaia di nostri fratelli, la parte del genere umano che si consacra all'eroismo sarà quanto c'è di più infame nell'intera natura.

Che diventano e che m'importano l'umanità, la beneficenza, la modestia, la temperanza, la dolcezza, la saggezza, la pietà, mentre mezza libbra di piombo sparata da seicento passi mi dilania il corpo, e muoio a vent'anni tra tormenti indicibili, in mezzo a cinque o seimila moribondi, mentre i miei occhi, che s'aprono per l'ultima volta, vedono la città dove sono nato distrutta dal ferro e dalle fiamme, e gli ultimi suoni che odono le mie orecchie sono le grida delle donne e dei bambini agonizzanti sotto le rovine, il tutto per i pretesi interessi di un uomo che non conosciamo?

E il peggio è che la guerra è un flagello inevitabile. A guardar bene, tutti gli uomini hanno adorato il dio Marte: Sabaoth, per gli ebrei, significa il dio degli eserciti; ma Minerva, in Omero, chiama Marte un dio furioso, insensato, infernale.

I

IDEA

Che cos'è un'idea?

È un'immagine che si dipinge nel mio cervello. Tutti nostri pensieri sono dunque immagini?

Certamente, perché le idee più astratte nascono dalla mia percezione degli oggetti. Io pronuncio la parola «essere» in generale, solo perché ho conosciuto esseri particolari. Pronuncio la parola «infinito» solo perché, avendo visto dei limiti, allontano nel mio intelletto questi limiti quanto più posso. Io ho idee solo perché ho immagini in testa.

E qual è il pittore che fa questo quadro?

Non sono io, non sono un disegnatore tanto bravo: colui che mi ha fatto, fa le mie idee. Sareste dunque del parere di Malebranche, il quale diceva che noi vediamo tutto in Dio?

Per lo meno sono ben sicuro che, se non vediamo le cose in Dio, le vediamo grazie alla sua azione onnipotente. E come si effettua questa azione?

V'ho detto cento volte, nelle nostre conversazioni, che non ne sapevo nulla, e che Dio non ha rivelato il suo segreto a nessuno. Io ignoro cos'è che fa battere il mio cuore, correre il mio sangue nelle vene; ignoro il principio di tutti

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