• Non ci sono risultati.

JEFTE, O DEI SACRIFICI UMANI

Nel documento Dizionario filosofico (pagine 93-96)

JEFTE, O DEI SACRIFICI UMANI

Risulta evidente, dal testo del libro dei Giudici, che Jefte promise di sacrificare la prima persona che uscisse dalla sua casa a congratularsi con lui per la sua vittoria contro gli ammoniti. Gli venne incontro la sua unica figlia: egli si strappò le vesti e la immolò, dopo averle permesso d'andare a piangere sulle montagne la disgrazia di morire vergine. Le fanciulle ebree celebrarono a lungo questo evento, piangendo la figlia di Jefte per quattro giorni.

In qualsiasi tempo sia stata scritta questa storia, se sia stata imitata dalla storia greca di Agamennone o d'Idomeneo, o ne sia stata il modello; ch'essa sia anteriore o posteriore ad analoghe storie assire non è questo che voglio esaminare. Io mi attengo al testo: Jefte votò sua figlia in olocausto e adempì al suo voto.

Era espressamente comandato dalla legge ebraica di immolare gli uomini votati al Signore: «Ogni uomo votato non sarà riscattato, ma verrà messo a morte senza remissione». La Vulgata traduce: «Non redimetur, sed morietur» (Levitico XXVII, 29). È in virtù di tale legge che Samuele fece a pezzi il re Agag, cui Saul aveva perdonato; e proprio per aver risparmiato Agag, Saul fu riprovato dal Signore e perdette il suo regno. Ecco, dunque, i sacrifici di sangue umano chiaramente stabiliti: nessun punto della storia è meglio appurato. Di una nazione si può giudicare soltanto rivolgendosi ai suoi archivi e in base a quel che riferisce di sé.

L

LEGGI (DELLE)

I

Al tempo di Vespasiano e di Tito, mentre i romani sventravano i giudei, un israelita molto ricco, che non voleva essere sventrato, fuggì portandosi via tutto l'oro che aveva guadagnato con il suo mestiere d'usuraio, e condusse verso Esion Gheber tutta la sua famiglia, composta della vecchia moglie, di un figlio e di una figlia. Aveva al suo seguito due eunuchi, uno dei quali gli serviva da cuoco, e l'altro era zappatore e vignaiolo. Un buon esseno, che sapeva a memoria il Pentateuco, gli faceva da elemosiniere. Costoro s'imbarcarono nel porto di Esion Gheber, attraversarono il mare chiamato Rosso e che non è per niente tale, ed entrarono nel golfo Persico, per andare a cercare la terra di Ofir, senza sapere dove fosse. Ed ecco abbattersi una terribile tempesta che spinse la famiglia ebraica verso le coste delle Indie; il vascello fece naufragio presso una delle isole Maldive, oggi chiamata Padrabranca, che era a quel tempo deserta.

Il vecchio riccone e la vecchia annegarono; il figlio, la figlia, i due eunuchi e l'elemosiniere si salvarono: trassero come poterono qualche provvista dal vascello, costruirono delle capannucce nell'isola, e qui vissero abbastanza comodamente. Sapete come l'isola di Padrabranca sia situata a cinque gradi dall'equatore, e come vi si trovino le più grosse noci di cocco e i migliori ananas del mondo; era dolce viverci al tempo in cui altrove si sgozzava il resto della nazione diletta, ma l'esseno piangeva pensando che forse non restavano più altri ebrei sulla terra, e che il seme di Abramo si sarebbe estinto.

«Sta in voi risuscitarlo,» disse il giovane ebreo: «sposate mia sorella» «Lo farei volentieri,» disse l'elemosiniere, «ma la legge vi si oppone. Sono esseno, ho fatto voto di non sposarmi; la legge esige che si adempiano i propri voti; s'estingua pure la razza ebrea, ma certo io non sposerò vostra sorella, per quanto graziosa sia.»

«I miei due eunuchi non possono darle dei figli,» riprese l'ebreo; «perciò gliene darò io, se vi sta bene, e sarete voi a benedire il matrimonio.»

«Preferirei mille volte essere sventrato dai soldati romani,» disse l'elemosiniere, «che autorizzarvi a commettere un incesto; fosse almeno vostra sorella da parte di padre, passi ancora, la legge lo permette; ma è vostra sorella da parte di madre, e ciò è abominevole.»

«Capisco,» disse il giovane, «che sarebbe un delitto a Gerusalemme, dove potrei trovare altre ragazze; ma nell'isola di Padrabranca, dove non vedo altro che noci di cocco, ananas e ostriche, credo che la cosa sia più che permessa.»

L'ebreo, nonostante le proteste dell'esseno sposò dunque la sorella, e ne ebbe una figlia: fu l'unico frutto di un matrimonio che l'uno reputava legittimo e l'altro abominevole.

In capo a quattordici anni, la madre morì; il padre disse all'elemosiniere: «Vi siete finalmente sbarazzato dei vostri vecchi pregiudizi? Volete sposare mia figlia?» «Dio mi guardi!» disse l'esseno. «Ebbene, allora la sposerò io,» disse il padre, «e avvenga quel che può; ma io non voglio che il seme d'Abramo sia annientato.» L'esseno, spaventato da questo orribile proposito, non volle più restare con un uomo che trasgrediva tanto la legge, e fuggì. Il novello sposo aveva un bel gridargli: «Restate, amico mio; osservo la legge naturale, servo la patria, non abbandonate i vostri amici.» L'altro lo lasciava gridare, ossessionato dalla legge, e fuggì a nuoto nell'isola vicina.

Era la grande isola d'Attolo molto popolosa e molto civile; non appena vi approdò, lo fecero schiavo. Imparò a balbettare la lingua attolica; si lamentava amaramente del modo inospitale con cui l'avevano ricevuto; gli dissero che quella era la legge, e che, da quando l'isola era stata sul punto d'essere sorpresa dagli abitanti di Adà, si era saggiamente decretato che tutti gli stranieri che fossero approdati in Attolia venissero fatti schiavi. «Non può essere una legge,» disse l'esseno «perché non è nel Pentateuco.» Gli risposero che però era nel Digesto del paese, e così restò schiavo: per sua fortuna, aveva un ottimo e ricchissimo padrone, che lo trattò bene, e al quale si affezionò molto.

Un giorno degli assassini vennero per uccidere il padrone e rubare i suoi tesori; chiesero agli schiavi se il padrone era in casa, e se aveva molto denaro. «Vi giuriamo,» dissero gli schiavi, «che non ha un soldo, e che non è in casa.» Ma l'esseno disse: «La legge non permette di mentire; vi giuro che è in casa, e che ha un sacco di soldi.» E così il padrone fu ucciso e derubato. Gli schiavi accusarono l'esseno davanti ai giudici di aver tradito il padrone; l'esseno disse che non voleva mentire, e che non avrebbe mentito per niente al mondo; e fu impiccato.

Mi raccontavano questa storia, e molte altre, nell'ultimo viaggio che feci dall'India in Francia. Arrivato, andai a Versailles per certi miei affari; vidi passare una bella donna seguita da molte altre bellezze. «Chi è quella bella donna?» chiesi al mio avvocato in parlamento, che era venuto con me: perché avevo un processo in parlamento a Parigi per gli abiti che m'ero fatto fare nelle Indie, e volevo avere sempre a fianco il mio avvocato. «È la figlia del re,» disse; «è incantevole e di ottimo cuore; peccato che in nessun caso possa diventare regina di Francia.» «Come!» gli dissi, «se le toccasse la disgrazia di perdere tutti i suoi parenti e i principi del sangue (Dio non voglia!), essa non potrebbe ereditare il regno del padre!» «No,» disse l'avvocato, «la legge salica vi si oppone formalmente.» «E chi ha fatto questa legge salica?» chiesi all'avvocato. «Non ne so niente: ma si pretende che presso un antico popolo, detto dei sali, che non sapevano né leggere né scrivere, esistesse una legge scritta la quale diceva che in terra salica una ragazza non può ereditare nemmeno un podere; e questa legge è stata adottata in terra non salica.» «E io,» dissi, «la abrogo; mi avete assicurato che questa principessa è dolce e generosa; dunque avrebbe un diritto incontestabile alla corona, se sventura volesse che non restasse altri che lei di sangue reale: mia madre ha ereditato da suo padre; e voglio che una principessa erediti dal suo.»

L'indomani la mia causa fu giudicata in una camera del parlamento, e la perdetti per un voto; il mio avvocato mi disse che l'avrei vinta per un voto in un'altra camera. «Questa poi è comica,» gli dissi. «Dunque, ad ogni camera una legge.» «Sì,» disse, «ci sono venticinque commenti sul diritto consuetudinario di Parigi; vale a dire che si è provato venticinque volte che il diritto consuetudinario di Parigi è equivoco; e, se ci fossero venticinque camere di consiglio, ci sarebbero venticinque giurisprudenze diverse. Abbiamo,» proseguì, «a venticinque leghe da Parigi una provincia chiamata Normandia, dove sareste stato giudicato in tutt'altro modo.» Questo mi fece venir voglia di vedere la Normandia. Vi andai con uno dei miei fratelli. Incontrammo, nella prima locanda, un giovane che si disperava; gli chiesi quale fosse mai la sua sventura, mi rispose che era quella d'avere un fratello maggiore. «Ma che sventura è avere un fratello maggiore?» gli dissi; «mio fratello è maggiore di me, e viviamo benissimo insieme.» «Ahimè, signore» mi disse, «qui la legge dà tutto ai maggiori e non lascia niente ai minori,» «Avete ragione,» dissi, «d'essere in collera; dalle mie parti si divide in parti uguali, e non per questo, a volte, i fratelli si amano di più.»

Queste piccole avventure mi indussero a fare alcune belle e profonde riflessioni sulle leggi, e vidi che anche per queste è come per i nostri vestiti: ho dovuto portare un dolman a Costantinopoli e un giustacuore a Parigi.

Se tutte le leggi umane sono convenzioni, dicevo, non resta altro che far bene i propri affari. I borghesi di Delhi e di Agra dicono di aver fatto un pessimo affare con Tamerlano; i borghesi di Londra si congratulano di aver fatto un ottimo affare con re Guglielmo d'Orange. Un cittadino di Londra mi diceva un giorno: «È la necessità a fare le leggi, e la forza a farle osservare.» Gli domandai se talvolta non facesse le leggi anche la forza, e se Guglielmo il Bastardo e il Conquistatore non avesse dato ordini nel paese senza fare con loro alcun contratto. «Sì,» disse, «allora eravamo tanti buoi; Guglielmo ci mise un giogo, e ci fece marciare a forza di pungolo; più tardi ci mutammo in uomini, ma le corna ci sono rimaste, e con quelle colpiamo chiunque voglia farci lavorare per sé e non per noi.»

Assorto in tutte queste riflessioni, mi compiacevo di pensare che c'è una legge naturale, indipendente da tutte le convenzioni umane: il frutto del mio lavoro dev'essere mio; devo onorare il padre e la madre; non ho alcun diritto sulla vita del mio prossimo, e il mio prossimo non ne ha sulla mia ecc. Ma quando pensai che da Shodorlahomor fino a Mentzel colonnello degli ussari, ognuno può assassinare lealmente e depredare il suo prossimo con una patente in tasca ne restai molto afflitto.

Mi dissero che anche tra i ladri ci sono certe leggi, e che ce ne sono perfino in guerra. Domandai che cosa fossero queste leggi di guerra. «Sono,» mi dissero, «quella d'impiccare un valoroso ufficiale che abbia resistito in una

cattiva postazione, senza cannone, contro un esercito regio; quella di far impiccare un prigioniero, se ne hanno impiccato uno dei vostri; di mettere a ferro e a fuoco i villaggi che non vi abbiano portato tutte le loro provviste nel giorno prescritto, secondo gli ordini del grazioso sovrano del vicinato.» «Bene,» dissi, «ecco Lo spirito delle leggi.»

Dopo essere stato istruito per bene, scoprii che esistono sagge leggi per le quali un pastore è condannato a nove anni di galera per aver dato ai suoi montoni un po' di sale proveniente dall'estero. Il mio vicino è stato rovinato da un processo per due querce che gli appartenevano, e che aveva fatto tagliare nel suo bosco, perché non aveva potuto osservare una formalità di cui non poteva essere a conoscenza. Sua moglie è morta in miseria, suo figlio tira avanti ancor più miseramente. Riconosco che queste leggi sono giuste, per quanto la loro esecuzione sia piuttosto dura: ma non sono certo soddisfatto delle leggi che autorizzano centomila uomini ad andare legalmente a sgozzare centomila vicini. Mi è parso che la maggior parte degli uomini abbia ricevuto dalla natura abbastanza buon senso per fare le leggi, ma che non tutti abbiano abbastanza giudizio per farne di buone.

Radunate da un capo all'altro della terra i semplici e tranquilli agricoltori: converranno tutti facilmente che dev'essere lecito vendere al vicino l'eccedenza del proprio grano, e che la legge contraria è inumana e assurda; che le monete, rappresentative delle derrate, non devono essere alterate più che non lo siano i frutti della terra; che un padre di famiglia dev'essere padrone in casa sua; che la religione deve raccogliere gli uomini per unirli, e non per farne dei fanatici e dei persecutori; che quelli che lavorano non devono privarsi del frutto del proprio lavoro per dotarne la superstizione e l'ozio: insomma, potranno fare in un'ora trenta leggi di questa specie, tutte utili al genere umano.

Ma lasciate che arrivi Tamerlano e soggioghi l'India: allora non vedrete altro che leggi arbitrarie. L'una opprimerà una provincia per arricchire un pubblicano di Tamerlano; Per un'altra sarà un crimine di lesa maestà l'aver detto male dell'amante del primo cameriere di un rajah; una terza porterà via all'agricoltura metà del raccolto, e gli contesterà il resto; infine ci saranno leggi per le quali un usciere tartaro verrà a prendervi i vostri figli in culla, farà del più robusto un soldato e del più debole un eunuco, e lascerà il padre e la madre senza soccorso e senza consolazione.

Ora, è meglio essere il cane di Tamerlano o un suo suddito? È chiaro che la condizione del suo cane è di gran lunga preferibile.

II

I montoni vivono del tutto pacificamente in società; si crede che la loro natura sia molto mite, perché nessuno vede la prodigiosa quantità di animaletti che divorano. C'è da credere anzi che essi li mangino innocentemente, senza saperlo, come quando noi mangiamo del formaggio di Sassenage. La repubblica dei montoni è l'immagine fedele dell'età dell'oro.

Un pollaio è chiaramente lo Stato monarchico più perfetto. Non c'è nessun re che possa essere paragonato a un gallo. Il gallo, se cammina fiero in mezzo al suo popolo, non lo fa per vanità. Se il nemico si avvicina, esso non ordina ai suoi sudditi di andare a farsi ammazzare per lui, in virtù della sua scienza e onnipotenza; ci va lui stesso, schiera dietro di sé le sue galline e combatte fino alla morte. Se la vittoria è sua, canta lui stesso il Te Deum. Nella vita civile, nessuno è tanto galante, onesto, disinteressato. Ha tutte le virtù. Se ha nel suo becco regale un chicco di grano o un vermiciattolo, lo dona alla prima delle sue suddite che gli capita davanti. Insomma, Salomone nel suo serraglio non somigliava nemmeno da lontano a un gallo del suo pollaio.

Se è vero che le api sono governate da una regina con cui tutti i sudditi fanno l'amore, il loro è un governo ancora più perfetto.

Il mondo delle formiche passa per un'eccellente democrazia. Essa è al di sopra di tutti gli altri Stati perché tutti vi sono eguali e il singolo lavora per la felicità di tutti.

La repubblica dei castori è ancora superiore a quella delle formiche, almeno a giudicare dalle loro costruzioni. Le scimmie somigliano più a saltimbanchi che a un popolo ben ordinato, e non sembra che siano riunite sotto leggi fisse e fondamentali, come le specie precedenti.

Noi assomigliamo più alle scimmie che ad ogni altro animale, per il dono dell'imitazione, per la superficialità delle nostre opinioni, e per la nostra incostanza, che non ci ha mai permesso di avere leggi uniformi e durature.

Quando la natura formò la nostra specie e ci diede alcuni istinti - l'amor proprio per la nostra conservazione, la benevolenza per quella degli altri, l'amor, che è comune a tutte le specie e il dono inesplicabile di combinare più idee di tutti gli altri animali riuniti assieme - dopo averci assegnata la nostra parte, ci disse: «Fate come potrete.»

In nessun paese del mondo c'è un buon codice. La ragione è evidente: le leggi sono state fatte via via, secondo i tempi, i luoghi, i bisogni ecc.

Quando i bisogni cambiano, le leggi, che restano immutate, diventano ridicole. Così la legge che proibiva di mangiare carne di maiale e di bere vino, era assai ragionevole in Arabia, dove il maiale e il vino sono perniciosi; a Costantinopoli è assurda.

La legge che assegna tutto il feudo al primogenito è ottima in tempi di anarchia e di saccheggio. Allora, il primogenito è il capitano del castello che prima o poi i briganti assaliranno; i cadetti saranno i suoi ufficiali, e i contadini i suoi soldati. Tutto quello che c'è da temere è che il cadetto assassini o imprigioni il signore salico, suo fratello maggiore, per diventare a sua volta il padrone della bicocca, ma questo avviene raramente perché la natura ha combinato in tale modo i nostri istinti e le nostre passioni che proviamo più orrore di assassinare il nostro fratello maggiore che non desiderio di prendere il suo posto. Ora tale legge, conveniente per i possessori di castelli al tempo di Chilperico, è detestabile quando si tratti di spartire le rendite in una città.

A vergogna degli uomini, si sa che le leggi del gioco sono le sole che dappertutto siano giuste, chiare, inviolabili e osservate. Perché l'indiano che ha dettato le regole del gioco degli scacchi è obbedito di buon grado in tutto il mondo, e invece le decretali dei papi, per esempio, sono ai nostri giorni oggetto di orrore e di disprezzo? Perché l'inventore degli scacchi combinò ogni cosa con esattezza per la soddisfazione dei giocatori, mentre i papi, nelle loro decretali, non mirarono che al loro interesse. L'indiano volle, nello stesso tempo, esercitare l'ingegno degli uomini e procurare loro un divertimento; i papi vollero invece abbrutire lo spirito umano. Così, da cinquemila anni, le regole fondamentali del gioco degli scacchi sono rimaste immutate e sono comuni a tutti gli uomini della terra; mentre le decretali sono osservate soltanto a Spoleto, a Orvieto, a Loreto, dove il più meschino giureconsulto le detesta e le disprezza in segreto.

Leggi civili ed ecclesiastiche

Tra le carte di un giureconsulto si sono trovate queste note, che forse meritano d'esser prese in esame.

Che nessuna legge ecclesiastica abbia vigore se non quando riceva l'esplicita sanzione del governo. Appunto con questo mezzo Atene e Roma non ebbero mai lotte religiose. Queste discordie sono proprie delle nazioni barbare, o imbarbarite.

Che solo al magistrato sia dato di permettere o vietare il lavoro nei giorni festivi, perché non sta ai sacerdoti proibire agli uomini di coltivare il proprio campo.

Che tutto ciò che riguarda i matrimoni dipenda unicamente dal magistrato, e i sacerdoti si limitino all'augusta funzione di benedirli.

Che il prestito a interesse sia oggetto solo della legge civile, perché questa sola presiede al commercio. Che tutti gli ecclesiastici siano sottomessi in tutti i casi al governo, perché sono tutti sudditi dello Stato. Che non si cada mai nella ridicola vergogna di pagare a un sacerdote straniero la prima annata del reddito di una terra che dei cittadini han donato a un sacerdote loro cittadino.

Che nessun sacerdote possa mai privare un cittadino della minima prerogativa, sotto pretesto che quel cittadino è un peccatore, perché il prete, anch'egli peccatore, deve pregare per i peccatori e non giudicarli.

Che i magistrati, i lavoratori e i preti paghino egualmente le imposte dello Stato, perché tutti appartengono egualmente allo Stato.

Che ci sia un solo peso, una sola misura, un solo diritto.

Che i supplizi dei criminali siano utili. Un uomo impiccato non è utile a nessuno, mentre un uomo condannato ai lavori forzati serve ancora la patria ed è una lezione vivente.

Che ogni legge sia chiara, uniforme e precisa: interpretarla porta quasi sempre a corromperla.

Nel documento Dizionario filosofico (pagine 93-96)