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Il documento dell’Associazione Nazionale Musei Scientifici e del Museo di Storia Naturale di Firenze

6. L’ITALIA E LE RESTITUZIONI

6.1 Il documento dell’Associazione Nazionale Musei Scientifici e del Museo di Storia Naturale di Firenze

La posizione assunta dall’Italia verso le richieste di restituzione da parte del Governo Australiano è sostanzialmente negativa e può essere estesa anche agli altri casi simili. 61 Pur comprendendo le richieste dei nativi e sapendo che molte nazioni hanno già restituito gran parte dei materiali dei musei alle comunità d’origine, l’ANMS vede una sostanziale differenza culturale che determina la sua presa di posizione.

Austalia, Nuova Zelanda e Canada hanno bisogno di mettere in atto un’azione di riconciliazione con le comunità native, mentre per l’Italia lo scenario è diverso. “Tali reperti non sono stati acquisiti illegalmente (in quanto all’epoca della raccolta, non erano in vigore nei paesi d’origine dei reperti, leggi che vietavano l’acquisizione e l’asportazione di tali materiali) né a seguito di campagne coloniali, guerre, razzie o genocidi, ma attraverso scambi commerciali diretti con i proprietari avvenute durante missioni o esplorazioni scientifiche. Il materiale conservato nei musei italiani è quindi essenzialmente frutto di interesse scientifico o di sete di conoscenza di luoghi e popoli poco noti e non di un collezionismo essenzialmente estetico o della raccolta di oggetti da immettere sul mercato a soli fini economici”.62

L’Italia non ha quindi una responsabilità storica che giustifichi un dovere di riconciliazione con le comunità d’origine dei reperti, residenti in Australia. Inoltre quando le restituzioni avvengono nell’ambito dei territori nazionali, ciò significa che il patrimonio complessivo della nazione non viene impoverito poiché i materiali vengono restituiti da istituzioni culturali della nazione a cittadini e comunità che godono oggi dei diritti civili e sono perciò a tutti gli effetti cittadini di quella stessa nazione. Diverso sarebbe il caso dell’Italia che, in caso di restituzione, vedrebbe gli oggetti oggi inseriti nel patrimonio nazionale

59 Giacomo Giacobini, Una minaccia per le collezioni di antropologia biologica (e non solo), in Museologia Scientifica, 8 (1-2): 8-10, 2011. Pagg. 8 – 10.

60 ANMS, op.cit. p.10

61 Ibid, pag.9: “Il titolo del documento fa riferimento a resti provenienti dal territorio

australiano […] ma il significato del documento è molto più ampio e vuole ricordare che le collezioni anatomiche sono a tutti gli effetti beni culturali, essendo

inequivocabilmentetutelati dalla legge. 62 Ibid. pag. 16.

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varcare i confini italiani con un forte impoverimento del patrimonio culturale dell’intero paese.

Per negare la restituzione, l’Italia sostiene l’importanza delle collezioni – a cui verrebbero sottratti i resti - per lo sviluppo delle conoscenze scientifiche e per il tessuto culturale della nazione. L’allargamento delle richieste di restituzione e la loro accettazione avrebbero un impatto negativo sullo sviluppo delle ricerche scientifiche, in quanto le modalità di restituzione prevedono che il materiale sia restituito alla completa proprietà delle comunità native per il loro uso tradizionale e senza obbligo di conservazione, impedendone l’accesso agli studiosi. A sostegno della tesi il documento afferma anche che l’impatto negativo che avrebbe sulla ricerca scientifica italiana si rifletterebbe specularmente sia sui Paesi chiamati a restituire i manufatti sia sulle comunità native, la cui cultura è sopravvissuta grazie soprattutto all’azione della scienza dei Paesi nei cui musei oggi si trovano i resti e i manufatti oggetto delle richieste di restituzione.

6.1.1 Il Museo di Scienze Naturali (sez. Antropologia ed Etnologia) dell’Università di Firenze.

La raccolta di reperti scheletrici provenienti dal territorio australiano, di cui è stata chiesta la restituzione, fa parte di un’ampia e importante collezione antropologica del Museo di Storia Naturale di Firenze. Il documento ANMS ripercorre la storia dell’istituzione per dimostrare il ruolo che il museo occupa nella storia delle collezioni scientifiche e per giustificare le modalità di acquisizione.

La collezione è unica al mondo e si costituì negli anni in cui il Museo di Antropologia ed Etnologia (istituito nel 1869) era sotto la direzione del suo fondatore Paolo Mantegazza. 63 I reperti australiani giunsero in museo dal 1870 al 1905 con varie modalità di acquisizione:

acquisto o dono di viaggiatori (Giglioli, D’Albertis, Podenzana, Scheidel); dono da enti pubblici (Ministero della Pubblica Istruzione);

dono da donatori stranieri (James Grose, Teodore Caruel); scambi con il museo di Sidney.

Conta una trentina di individui, rappresentati principalmente da crani e in alcuni casi dallo scheletro post craniale. Grazie ai contatti con i naturalisti di tutta Europa e con diversi viaggiatori, Mantegazza costituì – e fu il primo in Italia – un patrimonio di collezioni osteologiche unico al mondo. Nel museo sono documentate popolazioni estinte, quali i Fuegini, o ormai integrate con popolazioni occidentalizzate, quali, per esempio i Melanesiani.

La collezione craniologica nel suo complesso, grazie alla varietà di materiali che

63 M. Zavattaro, G. Roselli. “Sezione di Antropologia e Etnologia” in F. Barbagli, G. Pratesi, (a cura di) Museo di Storia Naturale dell'Università degli Studi di Firenze. Guida alla visita delle

Sezioni. Polistampa, Firenze, pp. 95-154; M. Zavattaro, G. Roselli, Antropologia e

Etnologia, Museo di Storia Naturale, guida alla Sezione. Firenze, NOVA Arti Grafiche, 2009.

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la compongono, ha consentito già nella seconda metà dell’Ottocento di dimostrare che sulla base dell’analisi morfologica dei crani non era possibile definire razze o supportare classificazioni e gerarchie razziali. Un primato della scuola fiorentina, che vi giunse anche grazie alla raccolta dei reperti australiani. Per il Museo “la collezione rappresenta dunque un corpus indivisibile proprio per il suo intrinseco valore storico-documentario di raccolta formata con precisi intenti di ricerca scientifica, che acquista un suo significato nella sua interezza e nella sua articolata composizione. Ancora oggi le collezioni antropologiche presenti nell’osteoteca del Museo fiorentino sono meta di ricercatori provenienti da ogni parte del mondo”.64

6.1.2. Un archivio storico biologico patrimonio italiano e dell’umanità. In generale le collezioni di reperti scheletrici presenti nei musei antropologici, devono essere difese per il loro ruolo di testimonianze culturali. La loro storia inizia con l’acquisizione dei resti (ottenuti per vie legali) e prosegue con lo studio, che oggi è possibile con tecniche sempre più sofisticate. La loro importanza è aumentata dalla pubblicazione degli studi e dalla valorizzazione museografica. Questi oggetti sono quindi un “archivio storico-biologico”, un documento unico e irripetibile di una frazione della variabilità biologica della nostra specie, oggetto della ricerca antropologica del passato e potenziale oggetto di ricerca nel futuro.

Il percorso delle collezioni - afferma il documento – “si è sviluppato nel contesto storico e valoriale della civiltà occidentale, porta a definirle come esempio di bene culturale a tutti gli effetti e soprattutto come patrimonio dell’unità intera e non sono più solo il retaggio di un unico individuo o di una popolazione”. Le spoglie godono oggi, dopo un percorso scientifico e di analisi culturale, di un significato più universale: essi sono diventati testimoni del cammino umano verso la conoscenza reciproca fra le culture, e in quanto tali sono diventati patrimonio dell’umanità. In virtù anche del fatto che sono stati acquisiti, conservati, e studiati in Italia implicano rapporti storici fra le comunità italiane e lo sviluppo scientifico culturale del paese: “non si può negare che essi, oltre a rappresentare un patrimonio universale, siano anche parte del patrimonio culturale italiano”.65

6.1.3. L’inalienabilità del patrimonio culturale

L’argomentazione che è considerata più forte, per negare la restituzione, è l’inalienabilità del patrimonio culturale e la sua importanza identitaria.

Il patrimonio culturale e le istituzioni svolgono un ruolo fondamentale per ogni società: una comunità è un gruppo di individui che si forma attorno a un insieme di simboli condivisi. La perdita del patrimonio culturale corrisponde alla perdita della memoria collettiva. Per questo motivo sia le leggi preunitarie italiane sia le leggi dello Stato Italiano prevedono l’inalienabilità del patrimonio. Il documento conclude affermando che i musei italiani, per le motivazioni

64 ANMS, Documento, op.cit. 65 ibid. pag. 19.

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addotte, comprendono il significato che i resti umani possono avere per le comunità d’origine e si dichiarano disponibili a collaborazioni dirette, tuttavia trattando solo con le predette comunità d’origine, chiaramente identificate. Si ritiene che il Governo Australiano non abbia l’autorità di mediare tra i musei italiani e le comunità aborigene, di cui ha riconosciuto l’autorità culturale. Si ritiene che la forma di collaborazione da mettere in atto sia quella seguita da molti musei nei processi di riconciliazione: un’implicazione diretta dei rappresentanti delle comunità d’origine nella conservazione e nell’esposizione dei resti umani, onde preservare e comunicarne i significati, nell’ottica delle comunità d’origine e non nell’ottica dei “colonizzatori bianchi”.66

6.1.4 La museologia di cooperazione

Prendendo spunto dal Nord America, uno degli effetti che ha avuto la politica di riconciliazione con le nazioni indiane è stata la nascita di una nuova museologia di cooperazione tra gli staff scientifici dei musei e i rappresentanti delle comunità indigene. 67 Community curation di riferimento sono quelle messe in pratica nella realizzazione di alcune grandi istituzioni come il National Museum of American Indian (NMAI) di Washington aperto nel 2004 e il George Gustav Heye Center, sua succursale newyorkese, il cui rinnovamento è stato completato nel 2010, o quella del Museum of Anthropology dell’Università della British Columbia (MOA) a Vancouver, aperto al pubblico in una veste nuova nel 2010.

La tendenza verso una museologia di cooperazione fu già percepita - come nota Pinna - nel 1988 da James Clifford, in seguito a una visita a quattro musei dell’area di Vancouver, dove notava come nell’allestimento il Museo interpretava le opere in suo possesso come “parte di una tradizione in sviluppo dinamica” come il prodotto di “un processo creativo, non come un tesoro salvato da un processo scomparso.”

Gli stessi operatori museali “bianchi” dichiararono di voler passare “da una museologia di tipo coloniale a una di tipo cooperativo”. Una museologia di cooperazione deve essere un’effettiva condivisione dell’azione di curatela, che deve andare al di là della semplice consulenza. La collaborazione si concretizzò in una totale rilettura dei contenuti del museo che portò alle nuove esposizioni del 2010.

Sull’efficacia della nuova museologia sono comunque stati sollevati alcuni dubbi come ha indicato Micheal Brown,68 per il rischio di produrre un allestimento buonista e privo di approfondimento accademico con il risultato di produrre un’esposizione monotona e senza spessore culturale.

66 Casi emblematici di museologia di cooperazione sono stati: la gestione del caso della Pipa sacra del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze e la progettazione della nuova esposizione delle collezioni dell’Oceania, da parte del Museo Pigorini di Roma.

67 G. Pinna, “I diritti dei popoli indigeni e la museologia di collaborazione” in Museologia

Scientifica, 5 (1-2), 2001, pp.28-52.

68F.M. Brown, “Exhibiting Indigenous Heritage in the Age of Cultural Property” in J.Cuno (a cura di) Whose Culture? The promise of Museums and the debate over Antiquities, Princeton University Press, Princeton, pp. 145-164.

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