collezione di stampe del XIX secolo.collezione di stampe del XIX secolo.
1.2.5. Il ruolo di Domenico Marchett 2.5 Il ruolo di Domenico Marchett 2.5 Il ruolo di Domenico Marchett 2.5 Il ruolo di Domenico Marchetti i i i.
All’età di 19 anni fui cacciato da San Michele io che ero alla testa allo studio del disegno e d’incisione e sorvegliavo gli altri, io che ero decurione ed avevo la responsabilità della classe dei mezzani, la più difficile da governare (tutti quaranta dai 15 ai 18 anni), io fui dunque cacciato. Ed ecco perché: essendoci rivalità tra il Prelato Presidente e i tre fratelli Selippa, i quali erano da molti anni alla testa della amministrazione del Collegio, noi prendemmo partito per questi […] i più grandi ci accordammo ed un centinaio partimmo rivoluzionarmente senza permesso, per andare dal Cardinal Consalvi, allora Protettore del Collegio (abitava al Palazzo del Papa) e acciò non c’impedissero di entrare alborammo la croce. […] Una piccola deputazione si mandò dal cardinale: questi ci disse di non più venire in tanti, di
137 Memorie, in Corbucci, p. 29, nota 22. 138 Ibid., p. 30.
139 Acquaforte e bulino, 455x350 mm (impronta), realizzata su disegno di Pietro Ermini, come riportano le
iscrizioni, che specificano anche la commissione al Marchetti dall’incisore romano Ignazio Pavon il quale la dedica ad Isabella Augusta Ingram “Amatrice e dilettante delle Belle Arti” (cfr. esemplari Coll. Cialdi e GDSU, inv. 95266). Un esemplare di stato precedente senza lettere si conserva presso il Museo Thorvaldsen di Copenaghen (inv. E 402): esso fu probabilmente donato allo scultore da Calamatta al momento del loro incontro.
tornare a San Michele dove sarebbe venuto lui stesso nella giornata per ascoltarci e renderci giustizia. Tornati al Collegio, i piccini che erano restati, si erano indiavolati più di noi […]. Il cardinale venne e ci ascoltò a diverse coppie e promiseci di esaminare quale delle due parti avesse raggione e rendere giustizia, ma disse: – Se volete ancora ricorrere a me venite due o tre. – Infatti qualche giorno dopo andammo in tre da Consalvi: io era il più timido e li altri dovevano pigliar la parola, ma il cardinale non dette loro il tempo ed incomincio a minacciarci, sgridare e strepitare quando ebbe finito mi si sciolse la lingua (i miei compagni erano tutti intimoriti) e gli dissi: – Vostra Eminenza ci ha detto di venire a reclamare quando ne avevamo motivo: questa non è carne a dare ai malati, questi fagiuoli sono pieni di tarli e questo pane non si pol mangiare. – Gli gettai tutto sopra un bellissimo tavolino lavorato di marmi e gli voltai le spalle, li altri mi seguirono. Quattro o cinque giorni dopo, due soli eravamo cacciati e con ordine di non poter dire neanche addio ai compagni. Tornai da Consalvi e gli dimandai perché mi avevano cacciato. – Perché, disse, siete il più cattivo allievo dell’Ospizio. – Ma eminenza, in dieci anni non ho mai avuto un forte castigo. – Perché quei che vi dovevano castigare non lo facevano! – Com’è possibile: sono stato sotto più di venti prefetti differenti e tutti si son trovati essermi favorevoli. – Ebbene, mi disse, farò esaminare la vostra domanda. – Seppi che si era informato solamente presso il Prelato Presidente. Ci tornai per dirgli che se avessi saputo da chi voleva informarsi, non l’avrei incomodato, e gli rivoltai di nuovo i calcagni, sentendomi insuperbito di aver affogato nel torto il personaggio che guidava gli affari del mondo spirituale e quelli corporali dello Stato! Mi trovai nudo e crudo, senza tetto né parenti per assistermi. I maestri conoscendo l’ingiustizia mi aiutarono: uno mi dette il corpetto, l’atro i calzoni (in Collegio si portava la veste e le mutande).141
L’episodio raccontato da Calamatta con tanta dovizia di particolari dovette restargli bene impresso nella memoria. I biografi ottocenteschi commentando l’ingiustizia commessa per la punizione eccessiva e brutale inflitta dal cardinale Consalvi, si soffermano su quanto la vicenda operò nel carattere e nell’indole di Calamatta forgiando “quello spirito intollerante di freni e pastoje, quel sentimento d’indipendenza, quell’alto principio di dignità”142 e giustizia verso i più deboli che Corbucci definisce risultato da un processo intimo di riflessione, in rapporto al contrasto dell’ambiente soffocante e restrittivo dell’Ospizio; giudizio espresso già dall’Ojetti il quale aggiunge che i superiori lo avrebbero volentieri
141 Memorie, in Corbucci, 1886, pp. 26-28, nota 20. 142 Ibidem, p. 24.
riammesso, ma che il giovane “sentendosi artista, vide che l’Ospizio offriva limitato confine all’animoso suo genio”.143
Più tardi nel 1951, Carlo Alberto Petrucci nel discorso celebrativo del 150° anniversario della nascita, in qualità di direttore della Calcografia Nazionale, ne trae ulteriori e più argute considerazioni, che non mancano di offrire spunti di riflessione su due conseguenze rilevanti nella vita del Nostro: sul fronte politico e religioso l’incidente, avvenuto nell’epoca della carboneria e dei primi moti liberali, sarebbe stato determinante in lui per provocare un graduale distacco dalle pratiche del culto e per suscitare quella avversione contro la Chiesa che Petrucci definisce “di indole politica più che spirituale” lungi però dall’essere ancora anticlericale;144 intuizione che trova conferma in una serie di scelte che Calamatta compie successivamente, tra le quali quella di sposarsi con la religiosissima Josephine Rochette o di intrattenersi epistolarmente in discorsi politici con il cardinale Tosti. Mentre, sul fronte delle scelte artistiche la “grave ripercussione” riguarderebbe l’indirizzo che prese la sua arte che, secondo il critico, fu dettato dalla contingenza di ristrettezza economica nella quale Calamatta si venne a trovare e dunque sulla sua forzata scelta del bulino di traduzione piuttosto che dell’acquaforte d’invenzione o meglio ancora della pittura, incoraggiata anche da “un insegnamento del disegno arido e convenzionale senza stimoli di slancio creativo […] a prezzo della rinuncia di mete più alte”.145 Argomentazioni solo in parte condivisibili, dettate più dal pregiudizio ancora oggi difficile da sradicare circa la superiorità dell’invenzione sulla traduzione,146 che da una analisi circostanziata del contesto storico del primo Ottocento, delle fonti, dei documenti e, nello specifico, della genesi delle opere di Calamatta che di fatto, smentiscono il pensiero di Petrucci.
143 Ojetti, 1874, pp. 9-10. 144 C. A. Petrucci, 1951, p. 12. 145
Id.
146 Petrucci approfondisce nel prosieguo del discorso questa riflessione prendendo in esame l’acquaforte del
piccolo Autoritratto in costume garibaldino (Fig. 112) che Calamatta eseguì direttamente sulla lastra quando era al fronte come volontario garibaldino nel 1866 (v. cap. III, par. 3.2.2.9.), da considerarsi più con intento documentario (un po’ come carte de visite inviata ai più intimi amici) che estetico: “Del resto egli non sembrava apprezzar molto le possibilità sconfinate che alla sua fantasia offriva la scioltezza dell’acquaforte, per la quale, a giudicare dal piccolo autoritratto in divisa garibaldina, era naturalmente chiamato. È fatto costante, del resto, che un artista apprezzi assai più ciò che gli costa maggior fatica, e vi s’intesti e vi
s’impunti, in confronto di quello che per disposizione innata gli riuscirebbe più facile e significativo. Stupisce ancor più che abbia potuto adattarsi, col suo carattere, ad una subordinazione all’opera altrui che, dato il suo scrupolo, era dedizione completa e incondizionata. Quel piccolo ritratto, inciso con segno libero, estroso, imprevisto, sgorgato d’impeto da un intenso stato emotivo, rivela indubbie qualità creative che non sfuggono a chi è del mestiere. Ed è strano che nelle sue memorie non si trovi un accenno di rimpianto a simile rinuncia; si direbbe che la questione per lui non esistesse. Ci avverte però che gl’incisori, lui compreso, non studiavano composizione, e lo dice con l’aria di chi ritiene che non fosse affar loro. Altra prova di grettezza
La libertà di mettere in atto il suo genio fu per Calamatta operata dall’interno dell’incisione di traduzione, peraltro non imposta da nessuno o da alcun evento (nonostante le sue iniziali ristrettezze che, a differenza di molti altri suoi colleghi, tra i quali lo stesso Mercuri, furono di breve durata). Nella maggior parte dei casi, le scelte iconografiche delle sue traduzioni tratte da maestri antichi o contemporanei, non furono mai imposte da contingenze esterne, ma furono sempre meditate alla luce di riflessioni teoriche di natura artistica o politica, spesso partecipate con eminenti personalità del milieu intellettuale e artistico nel quale egli operò e visse (Thorvaldsen, Ingres, Sand, Mazzini, ecc.). Inoltre, il genio creativo di Calamatta è da individuare anche nella maniera innovativa dell’approccio al metodo incisorio, la cui qualità, secondo egli stesso, doveva risiedere nell’alta aderenza all’originale, raggiunta innanzi tutto con la perfezione del disegno preparatorio esercitato anche dal vero, e nella trasposizione sulla lastra attraverso una visione più “pittorica”che grafica, che non doveva tener conto della precisione millimetrica del tratto grafico (vs, in questo, Longhi), bensì dell’unità d’insieme, ottenuta attraverso l’utilizzo di più tecniche differenti sulla stessa lastra,147 sistema derivato anche dall’apertura a nuovi procedimenti incisori che Calamatta trasse dalle diverse scuole europee con le quali si confrontò.
Fuori dall’Ospizio, Calamatta si trovò proiettato nella vita della città cosmopolita ma anche investito dagli eventi del resto del mondo del quale fino a quell’età non aveva che una percezione sfumata e filtrata dall’ambiente chiuso e controllato dell’Istituto.
Nonostante vivesse nei dieci mesi successivi con meno di un franco al giorno, proveniente da una piccola rendita di una casa di Civitavecchia, egli riuscì a non fare mai un debito,148 prova di quanto le ristrettezze e i sacrifici già vissuti all’Ospizio l’avessero reso avvezzo a qualunque tipo di rinuncia. Ma il lavoro non gli mancò poiché Marchetti, come già avevano fatto Giangiacomo e Ricciani all’interno dell’Istituto, lo prese sotto la sua protezione, rafforzando quel legame di rapporto diretto,149 familiare, “quasi paterno, tra maestro e
147 Verso la metà degli anni Quaranta mise a punto una nuova maniera d’incidere che prevedeva l’uso
dell’acquaforte, bulino, maniera nera e acquatinta. Oltre a permettere di velocizzare l’incisione sulla lastra, offriva un effetto più pittorico e una maggiore unità d’insieme.
148 Memorie, in Corbucci, 1886, p. 28, nota 20.
149 Il legame durò anch’esso tutta la vita, come attesta anche la lettera di Marchetti a Mercuri dove il maestro
esprime la gioia dei successi conseguiti dai suoi scolari: “[…] In somma, sono fanatico nel sentire e vedere che due Romani, figli dell’Ospizio e miei scolari, giacchè così vi volete chiamare, si facciano tanto onore in una Parigi, poiché l’amore della patria è innato a noi tutti” (cfr. Ciampi, p. 50, nota 3). La datazione della lettera è incerta, poiché il Ciampi riporta due riferimenti: “Roma, 11 febbraro 1834” all’inizio e “Lettera da Roma, 2 dicembre 1837” a conclusione della citazione, ma è probabile che si riferisca al 1837, anno in cui Calamatta
allievo […] elemento portante dello sviluppo psicologico oltreché professionale”, che Stefano Susinno riferisce a Tommaso Minardi e alla sua scuola creatasi a Roma in questo preciso contesto storico e culturale sull’esempio del ruolo di tutore e committente dei giovani artisti che Canova rivestì nello stesso torno d’anni nell’ambiente dell’Accademia Italiana di Palazzo Venezia, dove attraverso i lavori del “catalogo” di riproduzioni incise dalle sue opere, lo scultore aveva incoraggiato una pratica disegnativa di immediato sbocco economico, fornendo da un lato un’occasione di studio e affinamento dell’occhio, dall’altro un’integrazione necessaria agli scarsi guadagni dei giovani disegnatori e incisori.150
Marchetti non aveva più finestre libere in casa: mi permise di stabilirmi per le scale: andetti a dormire insieme nello stesso letto d’un mio cugino lavorante.151
Il periodo trascorso sotto la protezione di Marchetti nella fase più delicata e decisiva delle scelte di vita, fu per Calamatta molto fecondo poiché, nonostante le difficoltà dello stuolo di incisori che circolavano nella Roma del Grand Tour ponendosi ai servigi dell’uno o dell’altro artista o cercando di prendere parte ai numerosi progetti in corso per le suites di stampe o per i cataloghi delle varie collezioni in svendita,152 Marchetti ebbe sempre un’intensa attività di traduzione, godendo di una stabile rinomanza fino al termine della sua vita, stando a quanto Giangiacomo riferiva nel 1840 a Mercuri, quattro anni prima della sua scomparsa:
Lo stato dei poveri incisori di rami è deplorabile: cosa da far compassione. Ve ne è qualcuno anche di merito il quale cerca l’elemosina, meno che Marchetti e Bertini […] Povere arti, poveri artisti, i quali vivono sulla speranza dei forestieri!153
riceve la medaglia d’onore per l’esposizione al Salon dell’incisione del Voto di Luigi XIII, tratto dal dipinto di Ingres. Un’altra riprova sono i numerosi fogli, tra i quali diversi di pregio (come l’esemplare avanti lettera del
Ritratto di George Sand à la ferronière) donati nel corso della sua vita al Marchetti presenti nella Collezione
di Civitavecchia che riportano la dedica “Al mio Maestro D. Marchetti /L. Calamatta”.
150 S. Susinno, Il disegno di traduzione nell’arte e nel magistero di Tommaso Minardi, in I disegni della
Calcografia 1785-1910, Istituto Nazionale per la Grafica, a cura di M. Miraglia, vol. II, Roma 1995, pp. 1-13,
p. 9. Per il nostro studio il saggio è da considerarsi di primaria importanza, poiché si tratta della prima indagine del contesto socio-antropologico e artistico nel quale si sviluppa il disegno preparatorio all’incisione di riproduzione nel primo Ottocento a Roma, pratica artistica ancora piuttosto distante dall’interesse della storiografia artistica contemporanea.
151 Memorie, in Corbucci, p. 28, nota 20. 152 Borea, p. 656.
In effetti, dalle sue notizie biografiche ancora scarne e imprecise154 ma sufficienti per un primo tentativo di ricostruzione del rapporto con Calamatta, si ricava che l’incisore operò a Roma ‘a tutto tondo’, sia per lo Stato Pontificio – in qualità di direttore della scuola d’incisione all’Ospizio e come incisore della Calcografia Camerale155 –sia ricevendo incarichi provenienti dagli artisti più affermati del momento, passando dalle pitture del Camuccini e Agricola alle sculture di Canova e Thorvaldsen. Fu proprio grazie all’assidua frequentazione con i due scultori che, sebbene forse meno consapevolmente di Giangiacomo, anche Marchetti contribuì a veicolare Calamatta nell’ambito della cerchia neoclassica d’inclinazione purista quando, dietro espressa richiesta del suo allievo, lo introdusse a Thorvaldsen dopo il diniego di Canova dovuto ad una semplice difficoltà logistica, compiendo il progetto che l’allievo si era proposto di portare avanti, quello cioè di disegnare per qualche grande artista ma, aggiungiamo, scelto consapevolmente, dimostrando già una compiuta indipendenza nelle preferenze artistiche alle quali rimarrà fedele per tutto il corso della sua vita:
Non osando spiattellare la mia domanda feci chiedere dal mio maestro a Canova, se voleva permettermi di copiare come studio una qualche statua. Disse non esservi per il momento locale adattato. Impaziente non volli aspettare e feci fare la stessa domanda a Torwaldsen [sic]: questo mi accolse con molta affabilità: feci un disegno finito con impegno e cura della sua Venere: ne fu tanto contento, che, appena finito, mi disse – Se volete disegnare per me, fate quel che più vi piace delle mie opere e ce le comprerò.156
Con una tempistica insperata, a poco meno di 20 anni Calamatta era già al servizio di uno dei primi incisori di Roma e del “primo scultore”, come lui stesso lo definisce, potendosi
154
Servolini (pp. 482-483) riporta che egli fu calcografo veneziano, attivo in Roma, ma in realtà dalla pubblicistica coeva e da altra bibliografia risulta nato vissuto e morto a Roma (1780-1844 ca). Collaborò ai rami per la “Storia della Scultura” del Cicognara (Venezia, 1813-18). Vari suoi rami (da Camuccini, Canova, Baccio della Porta, Sacchi, Raffaello, Luigi Agricola, ecc.) si conservano nella Calcografia di Roma (tavole per il Museo Chiaramonti), di cui fu incisore. Nella raccolta delle stampe al Castello Sforzesco di Milano si conserva l’incisione del Monum. sepolcrale degli Stuart in S. Pietro a Roma (c. 1821). Pubblicò a Roma, nel 1825, l’opera “Costumes et usages des peuples de la Grèce Moderne”. Collaborò ai rami per la Collezione di
25 statue e Bassorilievi di Thorwaldsen (Roma 1830), e alla Storia di Francia tradotta da Pasquale Dell’Aquila ed arricchita di 58 tavole inventate e disegnate da Tommaso De Vivo ed incise da Domenico Marchetti e figlio (Roma, 1838). Fu membro (dal 1838) dell’Accademia di San Luca.
155 Cfr. Miraglia, 1995, ad indicem.
156 Memorie, in Corbucci, p. 31. Nella Collezione Cialdi di Civitavecchia è conservata un’altra incisione, Ecce
Homo, tratta da un dipinto di Guercino. Nelle iscrizioni incise sul margine inferiore (a sin. “Guercino dip.; al
c. “Pi. Campanile dis.”; a ds. “P. Trasmondi inc. 1822”) non compare il nome di Calamatta come incisore. Questo è stato aggiunto a matita accanto a quello di Trasmondi. L’incisione è stata donata da Calamatta a Cialdi, come evidenzia la dedica apposta in b. a ds. del foglio: “Al Comm Cialdi / L. Calamatta”.
permettere di alternare lavori d’incisione a quelli di disegno con una remunerazione quattro volte superiore alle sue necessità.