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L’A DONE DI F RAZER E I SUOI LETTOR

1 ADONE: MITO, RITO, TRADIZIONE

1.3 LE INTERPRETAZIONI DEL MITO

1.3.1 L’A DONE DI F RAZER E I SUOI LETTOR

L’impulso di gran lunga più significativo che una singola interpretazione abbia impresso alla tradizione adonia compete senza alcun dubbio al capolavoro dell’antropologo e storico delle religioni James Frazer, The Golden Bough, pubblica- to dal 1890 al 1915 in tre edizioni successive di ampiezza e approfondimento cre- scenti (I ed. 2 voll., 1890; II ed. 3 voll., 1900; III ed. 12 voll., 1911-1915), e diffuso presso cerchie di lettori anche non specialisti grazie a un’edizione ridotta in due vo- lumi apparsa nel 1922 e presto tradotta in molte lingue. Come ogni opera destinata a lasciare un’impronta profonda sulla cultura successiva, The Golden Bough va com- preso in primo luogo come il risultato di un progressivo cambiamento di prospettiva che nel corso del XIX secolo allarga la portata degli studi storico-religiosi dalla con- siderazione monografica dell’antichità greco-romana a un’analisi comparativa di amplissimo spettro. A essere giustapposti con i sistemi religiosi dell’antichità classi- ca sono non solo quelli del vicino oriente antico, di cui nel corso dell’Ottocento si fa sempre meno sfocata la conoscenza, ma quelli dei popoli cosiddetti ‘primitivi’, che Frazer prende in esame a partire dai sempre più numerosi e dettagliati resoconti et- nografici disponibili.

Se la prospettiva metodologica e l’ampiezza del campo di ricerca sono in linea con le coordinate della nuova disciplina antropologica che si viene definendo in Eu- ropa a partire dai lavori di Tylor, e che non sarebbe stata possibile senza l’ampliamento verso Oriente delle conoscenze linguistiche ed etnografiche maturato nella prima metà del secolo (dalla decifrazione dell’egiziano geroglifico allo svilup- po della linguistica indoeuropea al lento ma costante progresso negli studi sulle scritture cuneiformi), peculiare all’opera di Frazer è l’assunto che la ricerca compa- rata in senso diatopico e diacronico permetta in ultima analisi l’esplorazione a pro- fondità fino a quel momento inaccessibili della cultura umana nelle sue fasi primor- diali. È dunque illuminante e pertinente il confronto che l’antropologo Fabio Dei i-

stituisce fra il metodo di Frazer e la psicanalisi freudiana, che più o meno negli stessi anni prende corpo a partire da un’analoga istanza di esplorazione degli abissi – abis- si della psiche individuale e non della cultura, ma esattamente come quelli presenti nell’oggi non solo come indizi fossilizzati e inattivi, ma come forze latenti e sempre operanti nella storia (Dei 1998).

Descrivere l’enorme impatto del Ramo d’oro sulla cultura europea e la continuità della sua influenza esorbita di molto dai limiti di questo studio (sul tema si vedano almeno Vickery 1973; Fraser 1990; Dei 1998, in special modo i capitoli 9 e 10). Un esempio significativo sta forse già nell’opposto giudizio di L. Wittgenstein e T. S. Eliot in merito alla prospettiva dell’indagine frazeriana e alla legittimità delle sue conclusioni. Per Wittgenstein l’etnocentrismo teleologico di Frazer, che vede nell’inesauribile ricchezza delle tradizioni religiose dei popoli antichi e moderni solo una serie di tappe lungo un percorso di progresso lineare dell’umanità, da un’infanzia sottosviluppata all’insegna di magia e religione verso un’età adulta illu- minata dagli ideali della razionalità scientifica e dal faro della civiltà vittoriana, è so- lo un aberrante e miope fraintendimento delle credenze religiose nella loro dimen- sione pragmatica (uno studio approfondito della questione in Clack 1999). Per Eliot, al contrario, la grandezza di Frazer consiste essenzialmente nell’aver tracciato, con la sua architettura di analogie e sovrapposizioni funzionali, una mappa nel caos del mondo contemporaneo, aprendo così una nuova strada alla sua rappresentazione let- teraria. Ciò che ripugna a Wittgenstein dell’opera di Frazer è l’eccesso di spiegazio- ni, che tendono a ridurre i fatti a una serie di pregiudizi eurocentrici e inopportuna- mente razionalistici. Per Eliot invece i fatti su cui riposa l’immensa mole del Ramo d’oro, ancorché frutto di mera attività compilativa e non di ricerca sul campo, hanno un valore che travalica di gran lunga le teorie in ultima analisi ingenue e limitate che da essi estrapola l’autore – argomento che diventerà poi classico fra gli apologeti di Frazer, sempre più contestato e rimosso nei nuovi contesti delle discipline antropo- logiche nel XX secolo.

L’Adone di Frazer è interamente assorbito (non senza vistose forzature) all’interno del modello del «dying god», cioè di quel demone della vegetazione (già studiato da Mannhardt 1877) la cui esistenza ciclica è intimamente associata al ciclo

della natura che di anno in anno si rinnova. Di conseguenza, per Frazer la dimensio- ne personale di Adone passa in secondo piano rispetto alla sua identificazione con la vegetazione e, in particolare, con le messi.

Per quanto attiene alle fonti, la scelta interpretativa di Frazer non può che fondar- si su una ipervalutazione delle testimonianze orientali rispetto alla tradizione greca del mito. Solo in Oriente, infatti, e in particolare nei riti di Adone testimoniati per la città di Biblo (Soyez 1977), la resurrezione del dio è il momento conclusivo della fe- sta, e rappresenta un vero e proprio ritorno dell’eroe dall’oltretomba. In Grecia le fe- stività adonie prevedevano invece un diverso svolgimento, che cominciava con il momento gioioso (la celebrazione degli amori di Adone e di Afrodite), seguito da una conclusione mesta e funerea (l’esposizione e il compianto rituale sul corpo del ragazzo morto). L’Adone greco di fatto non risorge, e il suo ritorno, di cui è talora questione nelle fonti (Teocrito 15.144), si può riferire al ritorno annuale della festivi- tà.26

Accusare Frazer di aver ‘inventato’ la dimensione circolare dell’esistenza di A- done non sarebbe corretto: già una parte delle fonti antiche è esplicita in tal senso (sempre nelle Siracusane di Teocrito, vv. 136-137) e, quando Frazer scrive, il carat- tere ciclico dell’Adone fenicio si era fatto via via sempre più cospicuo nel panorama degli studi (Brugsch 1852; Renan 1864), al punto che facendone il prototipo del ‘dio che muore’ Frazer non aveva fatto altro che assecondare una tendenza ampiamente disseminata in Europa dalla moda dell’orientalismo. Specifico effetto del Ramo d’oro è però la diffusione capillare di questa interpretazione (ben al di là delle cer- chie degli specialisti) e la sua conseguente canonizzazione esclusiva, soprattutto per quanto riguarda la ricezione adonia nel panorama letterario europeo.

E così, se anche prima di Frazer Adone era occasionalmente tematizzato come correlato simbolico-metaforico dell’esistenza sovraindividuale, della continuità delle energie vitali dell’universo al di là dell’estinzione del singolo (come abbiamo visto sopra ad esempio nel Meister von Palmyra di Wilbrandt), a partire dalla pubblica-

26 Sulla resurrezione di Adone si vedano Atallah 1966, pp. 259-302; Burkert 1979, p. 160 e

zione dei volumi del Ramo d’oro dedicati ad Adone (19143), e soprattutto

dell’edizione ridotta del 1922, lo sguardo dei poeti si volge verso Adone in termini totalmente frazeriani – senz’altro a causa di una tendenziale convergenza tra la vi- sione del mondo modernista, in cui la nozione di io individuale appare segnata da una crisi che ne fa un costrutto frammentario e stratificato, e le prospettive dell’indagine di Frazer, che rivelano la subordinazione dell’io individuale, visto fino a quel momento come entità razionale tendenzialmente autodeterminata, a dinami- che e strutture profonde comuni a tutte le culture. Questa mi sembra anzi una chiave di lettura importante della ricezione modernista di Adone: in H.D., ad esempio, «A- donis» è il titolo di una delle liriche di The God (1913-1917), in cui la visione fraze- riana traspare nell’assimilazione del dio (apostrofato nella sua versione statuaria nel frontone di un tempio) alla stagione declinante: «Not the gold on the temple-front/ where you stand,/ is as gold as this,/ not the gold that fastens your sandal,/ nor the gold reft/ through your chiselled locks/ is as gold as this last years’s leaf» («Nem- meno l’oro del frontone su cui ti trovi è d’oro come questo, né l’oro che ti lega il sandalo, né il nastro d’oro che attraversa i tuoi ricci cesellati è d’oro come questa fo- glia dell’anno passato», p. 48). La giustapposizione speculare di nume e natura è al tempo stesso la base di un confronto tra Adone e l’io individuale: «Each of us like you/ has died once» («Ognuno di noi, come te, è morto una volta», p. 47) è l’incipit della poesia, che prosegue rivendicando alla coscienza individuale l’esperienza della ciclicità stagionale, e che conclude con un’equivalenza sostanziale fra il nume e l’io («each of us like you/ has died once,/ each of us like you/ stands apart, like you/ fit to be worshipped», «Ognuno di noi, come te, è morto una volta; ognuno di noi come te se ne sta in disparte, degno, come te, di essere venerato», p. 48).

La dipendenza di T. S. Eliot da Frazer è molto più esplicita: nelle note a The Wa- ste Land, l’autore esplicita il debito nei confronti di From Ritual to Romance di J. L. Weston (1920), e soprattutto dei due volumi Adonis, Attis, Osiris dell’opera di Fra- zer (in particolare in relazione a «riti della vegetazione»). Anche in questo caso la cifra dell’influenza appare legata essenzialmente alla tensione fra esistenza indivi- duale e vita della natura, e in particolare alla dimensione ciclica di quest’ultima, che nell’epoca moderna si trova, secondo Eliot, al punto più basso del percorso.

La stessa tensione fra esistenza individuale e sovraindividuale è sottesa a The Pot of Earth di Archibald MacLeish, pubblicato nel 1925. Il poemetto, articolato in tre parti, è posto all’insegna del Golden Bough da una citazione in esergo che descrive appunto il costume di far crescere steli d’erba in un vaso da utilizzare nella festa per Adone. La struttura generale è basata, come in altri testi modernisti, sul contrappun- to fra la vicenda individuale di una giovane del presente e frammenti di descrizione del rito antico. Il senso dell’insieme è funzione del conflitto fra l’irrilevanza inelut- tabile dell’esistenza individuale e la continuità inarrestabile della vita intesa come fenomeno globale: il personaggio principale dà voce al disagio dell’individuo schiacciato nel tempo lineare della vita irripetibile di fronte alla ‘fretta’ del ciclo na- turale: «And why, then, must I hurry?/ There are things I have to do/ More than just to live and die/ More than just to die of living» («E perché, dunque, devo fare in fretta? Ci sono altre cose che ho da fare, oltre che vivere e morire, oltre che morire di vita», p. 183).

Anche Pound risponde all’influsso di Frazer tematizzando Adone nel Canto

XLVII, un intermezzo misterico al centro della quinta decade (dal sottotitolo: Siena.

The Leopoldine Reforms). La fonte letteraria più riconoscibile nel testo è l’Epitafio di Adone (citazione greca imprecisa dei vv. 92-93: «τυ Διώνα/ TU DIONA/ Και

Μοῖραι τ᾽ Ἄδωνιν [sic per καὶ Μοῖραι τὸν Ἄδωνιν]/ KAI MOIRAI T’ ADONIN», p. 458)

ma lo spunto mitico di maggior rilievo è l’assimilazione della discesa infera di Ado- ne a quella di Odisseo («First must thou go the road/ to hell/ And to the bower of Ceres’ daughter Proserpine,/ Through overhanging dark, to see Tiresias» («Prima di giungere/ al termine del viaggio devi prendere la via degli inferi/ Ai boschi di Pro- serpina figlia di Cerere,/ Per caligine fosca a consultar Tiresia», ibid., trad. M. de Rachewiltz). Adone è conforme alla sua versione orientale, e in questo è evidente il retaggio di Frazer: «The sea is streaked red with Adonis» («L’onda è striata di rosso da Adone», ibid., trad. M. de Rachewiltz) allude al rito adonio di Biblo, dove il fiu- me Adone, che scende dal monte Libano, si macchia di rosso in primavera durante le locali feste in onore dell’eroe. Anche i versi seguenti, col loro riferimento ai giardini di Adone, tradiscono la lettura mitografica più che una diretta fonte letteraria: «Wheat shoots rise new by the altar,/ flower from the swift seed» («Intorno all’altare

spunta il grano/ fior fiore di seme veloce», ibid., trad. M. de Rachewiltz). Nel com- plesso Adone è figura di un io rigenerato dall’immersione ctonia, e il rapporto tema- tico con i canti della quinta decade (che celebra le istituzioni bancarie della Toscana protomoderna facendone il modello positivo opposto al sistema economico contem- poraneo) sembra correlare Adone e la discesa infera al recupero regressivo di uno strato atavico e idealizzato.

Un esame sistematico dell’influenza di Frazer sulla poesia e la poetica del mo- dernismo euroamericano ci porterebbe troppo lontano da questa ricognizione della fortuna del mito di Venere e Adone. Gli esempi che ho addotto finora dovrebbero bastare a dare un’idea della rilevanza e della pervasività dei temi che i letterati mo- dernisti mutuano dall’inesauribile repertorio esplorato in The Golden Bough. Nell’architettura complessiva della tradizione adonia, più precisamente, l’opera di Frazer (al pari del Venus and Adonis di Shakespeare o dell’Adone di Marino) si con- figura di fatto come un vero e proprio punto di irraggiamento, che si riflette in testi a loro volta autorevoli abbastanza da riverberarsi in ulteriori riprese. Se da Frazer di- pendono infatti i maestri del canone modernista, è più da questi che da The Golden Bough che dipenderanno le ulteriori riprese di tematiche adonie nella poesia anglo- americana più recente come Adonis in Winter di Kenneth Rexroth (1944) o The Day the Blood Sang di J. R. Brownfield (1970).