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LA TRADIZIONE ADONIA COME SCONTRO DI PARADIGM

2 LA MADRE-AMANTE

2.1 LA TRADIZIONE ADONIA COME SCONTRO DI PARADIGM

Se il lettore zelante ha continuato a seguirmi tenendo a bada lo sconcerto di fronte a una ramificazione tradizionale così ampia e variegata, ora può finalmente tirare il fiato e aguzzare l’ingegno: la parte sostanziale di questo lavoro comincia solo ora. Non se ne può fruire appieno, però, se non dopo un’istruzione preliminare, la pre- sentazione panoramica, appunto, che ho abbozzato nel primo capitolo. Mi preme pe- rò ribadire che l’obiettivo della mia ricerca è formulare un’ipotesi di interpretazione generale della tradizione adonia nel suo complesso, piuttosto che ripiegare, come avviene spesso nelle ricerche di fortuna dell’antico, sulla rassegna panoramica delle sue diramazioni.

Con ciò non intendo accusare la pochezza di ingegno degli studiosi, bensì eviden- ziare i limiti ermeneutici immanenti a questo tipo di approccio, sospeso fra interpre- tazione letteraria e ricerca storica: la prima è tendenzialmente sincronica, e deve po-

complessi. Sembra davvero una situazione aporetica: interpretare un corpus di ele- menti non omogenei come un fenomeno unitario di cui individuare il significato ge- nerale è impraticabile sul piano letterario; ma anche sul piano storico non si può formulare un discorso sistematico, poiché in molti casi non esistono relazioni stori- camente dirette e documentabili fra gli elementi di quella classe. Questa aporia basta a spiegare alcuni limiti strutturali della fortuna dell’antico come disciplina: di un corpus diacronico strutturalmente disomogeneo, in quanto costituito da elementi che non intrattengono un rapporto specifico e diretto gli uni con gli altri, non è possibile predicare niente che vada al di là della ricognizione descrittiva. Donde il ben noto approccio rapsodico tipico degli studi sul Fortleben: prima si incontra questo, e poi quest’altro, e poi… e poi…

Il solo modo per uscire da questa impasse ermeneutica è a mio giudizio la pro- spettiva della critica archetipica, che ha l’inestimabile vantaggio di conciliare due approcci (quello storico e quello critico-letterario) apparentemente incompatibili. In una prospettiva archetipica, infatti, i testi, in quanto dati storici, rimangono sempre fenomeni ben individuati in uno specifico contesto culturale; al tempo stesso, dietro ai fenomeni più disparati la critica archetipica ricerca e riconosce tratti ricorrenti, che portati alla luce si prestano a essere letti come costanti metastoriche. Sono que- ste costanti a permettere di postulare una sostanziale omogeneità in un insieme di dati in gran parte irrelati come quelli che costituiscono il corpus tradizionale di un mito, e a permettere così di interpretarlo come un oggetto unitario.

In quanto elementi comuni a tutte le culture, le costanti su cui focalizza l’attenzione la critica archetipica riflettono inevitabilmente i meccanismi di costitu- zione dei gruppi sociali (filogenesi) e di formazione della psiche individuale (onto- genesi). Nel primo caso trovano proficuo impiego le categorie della ricerca antropo- logica, nel secondo quelle della psicanalisi. Queste ultime, in particolare, benché sempre esposte alle obiezioni popperiane di non falsificabilità, permettono di rende- re conto di aspetti del mito legati a un ordine di esperienze condivise da tutti i mem- bri di tutte le culture, anche se da esse elaborate poi secondo modalità anche radi- calmente divergenti. Rispetto all’approccio naturalistico dei primi mitologi, infatti, che riconducevano il mito a un tentativo di ricomporre e razionalizzare su base nar-

rativa i fenomeni inesplicabili del mondo naturale, l’approccio psicoanalitico si spinge ancora più indietro nel percorso dell’ontogenesi: quando l’individuo è infatti in grado di avere paura del tuono o di temere che il sole non ritorni, egli ha già co- munque attraversato alcune fasi cruciali del suo sviluppo (la nascita, il rapporto con la madre, il primo contatto con il mondo, la pulsione verso il piacere fisico; per un tentativo sistematico di radicare la teoria junghiana degli archetipi nel piano dell’esperienza fisica del mondo è fondamentale lo studio di Stevens 1982). Non è un caso che nell’approccio di uno storico delle religioni di rigoroso razionalismo come Walter Burkert il rifiuto del metodo psicanalitico sia espresso in forma molto sfumata (Burkert 1979, pp. 30-31), e sia comunque sostituito da una ricerca delle tracce lasciate negli istituti cultuali e culturali da forme primitive di esperienza bio- logica (Burkert 1996) – un approccio, come si vede, che riprende problemi e conte- nuti della psicanalisi in una diversa prospettiva.

Tra i vantaggi della critica archetipica c’è inoltre la possibilità di inquadrare i fat- tori che determinano i cambiamenti del gusto e le trasformazioni delle figure del mi- to non come un insieme di cause frammentate e apparentemente casuali, ma come tendenze e forze generali, di cui appaiono finalmente perspicue le dinamiche e le motivazioni. Il sistema stesso della cultura appare così come un’architettura percorsa da tracciati salienti che permettono di seguire il confronto tra le principali forze con- trapposte.

Partendo da queste premesse, ho deciso di privilegiare nel mio studio della tradi- zione adonia non tanto i tratti considerati essenziali nell’attuale vulgata del mito (la bellezza, la seduzione), quanto piuttosto gli elementi più pregnanti in una prospetti- va archetipica: la dinamica della relazione amorosa fra il ragazzo e la dea, e le forme del loro rapporto in termini di identità di genere.

Rivolgendo dunque uno sguardo d’insieme a ritroso sulla tradizione adonia, noto che l’enorme e frammentata varietà delle testimonianze antiche si può ridurre di fat- to, come ho già anticipato in apertura, a due versioni principali, quella perduta di Paniassi riassunta nella Biblioteca dello pseudo-Apollodoro e l’episodio ovidiano. Il mito trattato è grosso modo lo stesso (la dea, l’amore, il cinghiale, la morte), ma a uno sguardo più attento esso rivela divergenze tutt’altro che marginali. La principale

è senz’altro il diverso trattamento riservato alle prime fasi della vita di Adone: Pa- niassi le esplora in dettaglio, dalla nascita del bambino all’esito dell’arbitrato di Zeus, mentre Ovidio preferisce rimuoverle in toto. Questo ha importanti conseguen- ze: da un lato, infatti, nella linea ovidiana sparisce il tema della contesa fra le dee, e con esso si attenua il carattere ambivalente di un Adone sospeso fra mondo di sopra e oltretomba; dall’altro vengono a configurarsi in modo radicalmente diverso le cir- costanze dell’innamoramento della dea. Ricordiamo cosa si legge nel riassunto di Paniassi (pseudo-Apollodoro, Biblioteca, 3.14.4 [184-185]):

Dopo nove mesi l’albero si aprì e diede alla luce Adone, che Afrodite, a causa della

sua bellezza, di nascosto dagli dei chiuse, ancora bambino, in una cassa che affidò a Persefone (ὃν Ἀφροδίτη διὰ κάλλος ἔτι νήπιον κρύφα θεῶν εἰς λάρνακα κρύψασα

Περσεφόνῃ παρίστατο). Quando lo vide, Persefone non volle più restituirlo. Allora Zeus decise che l’anno fosse diviso in tre parti e stabilì che Adone ne trascorresse una per con- to suo, un’altra presso Persefone, la terza con Afrodite. Adone però dedicò anche la pro- pria parte di anno ad Afrodite. (trad. M. G. Ciani, corsivo mio)

Questa versione del mito (attestata frammentariamente ma in un’area molto vasta, dalle colonie ioniche dell’Egeo all’Etruria, per non parlare degli antecedenti meso- potamici) colloca il cruciale incontro fra la dea e Adone in un momento imprecisato di poco successivo alla nascita dell’eroe dalla corteccia dell’albero della mirra – un evento senz’altro poco congruente con una vicenda che nella sua forma più comune, già nell’antichità, veniva circoscritta essenzialmente agli amori effimeri ma appagati di una coppia adulta. Qui invece la grande dea della natura e dell’amore si lascia se- durre dalla bellezza di un bambino ancora piccolo (ἔτι νήπιον, come precisa lo pseu- do-Apollodoro) quando lo splendido, amabile adolescente è ancora di là da venire.

Quasi tutti gli studi moderni su Adone marginalizzano lo strano dettaglio di una scelta amorosa che ha per oggetto un partner ancora bambino. La cosa è quanto me- no insolita, e disturbava evidentemente già Ovidio, che nella sua versione del mito, pur prendendo molto alla larga la ricostruzione eziologica della vicenda, presenta questo snodo narrativo in modo da elidere non solo l’episodio della contesa fra le dee, ma la stessa presenza di Venere nell’infanzia dell’eroe. A presenziare alla na- scita, secondo un copione del tutto conformistico, è la ben più pertinente Lucina (v.

510), che pronunciando le parole di rito (verba puerpera, «le parole del parto» v. 511) sblocca e facilita la nascita del bambino (vv. 512-524):

arbor agit rimas et fissa cortice vivum

reddit onus, vagitque puer; quem mollibus herbis naides inpositum lacrimis unxere parentis.

laudaret faciem Livor quoque; qualia namque 515

corpora nudorum tabula pinguntur Amorum, talis erat, sed, ne faciat discrimina cultus, aut huic adde leves, aut illis deme pharetras. Labitur occulte fallitque volatilis aetas,

et nihil est annis velocius: ille sorore 520

natus avoque suo, qui conditus arbore nuper, nuper erat genitus, modo formosissimus infans, iam iuvenis, iam vir, iam se formosior ipso est, iam placet et Veneri matrisque ulciscitur ignes.

L’albero si crepa e dalla corteccia spezzata

dà alla luce il suo peso vivo: il bambino vagisce, le Naiadi lo mettono sull’erba morbida, lo ungono con le lacrime della madre. L’invidia stessa avrebbe lodato la sua bellezza: il suo corpo è simile a quello degli Amori nudi, dipinti sui quadri e, perché non faccia differenza l’equipaggiamento, o togli a loro, o aggiungi a lui una leggera faretra.

Scivola il tempo nascostamente e inganna volando, e niente è più veloce degli anni. Il bambino nato

dalla sorella e dal nonno, e che poco prima era nascosto nell’albero, poco prima era nato, è già un bimbo bellissimo,

poi giovane, e poi uomo, e poi, più bello ancora di se stesso, già piace perfino a Venere e vendica la passione di sua madre. (trad. G. Paduano)

La bellezza del bambino, essenziale per gli sviluppi successivi della sua storia personale, viene equiparata a quella di Amore figlio di Venere (vv. 515-518): viene così riassorbita su un piano puramente metaforico la perturbante connotazione ma- terna del primo incontro fra i due futuri amanti. Gli anni intermedi vengono esplici-

tamente ricacciati nell’ápeiron dell’ellissi narrativa (Labitur occulte fallitque volati- lis aetas, «Scivola il tempo nascostamente e inganna volando»); e il bisogno di bru- ciare le tappe, di appianare la disarmonia della situazione di partenza tradizionale è così urgente che nel giro di tre versi (521-523) il feto frutto dell’incesto è non solo neonato (genitus), bimbo (infans) e giovane uomo (iuvenis), ma addirittura uomo fatto (vir), con una clamorosa contraddizione del principale tratto distintivo di Ado- ne, e cioè la sua incompleta parabola esistenziale, conclusa prima del perfetto fiorire della virilità. Decisamente, in Adone Ovidio non vede l’adolescente sempre acerbo, ma l’uomo già formato. Ed è chiaro che l’espressione iam placet esclude (come mo- stra poi la narrazione del repentino e casuale innamoramento della dea ai vv. 525- 528) anche solo l’ipotesi di uno sguardo erotico della dea all’eroe già nella sua pri- ma infanzia. Quello che piace alla Venere di Ovidio è la viri forma (v. 529), la bel- lezza di un maschio già adulto.

La scelta ovidiana di non narrare l’infanzia di Adone potrebbe sembrare frutto di una selezione arbitraria, stante il carattere spesso (ma ad esempio non nel mito di Mirra!) allusivo e brachilogico delle Metamorfosi. Tuttavia essa si rivela evidente- mente funzionale a un’accentuazione della centralità del rapporto amoroso fra Vene- re e Adone, nell’ottica di una maggiore omogeneità tematica della sezione (non si dimentichi infatti che il decimo libro del poema raccoglie, come finzione di secondo grado all’interno del canto di Orfeo, racconti di amori aberranti o infelici). La con- vergenza tematica non è però il solo effetto della selezione: con la sua scelta espres- siva, Ovidio configura il rapporto affettivo fra la dea e il ragazzo in modo sostan- zialmente ‘orizzontale’, cioè paritario e simmetrico, se non per la dignità dei partner, per l’intensità del coinvolgimento emotivo; invece la versione di Paniassi presenta ancora un legame dai forti connotati materni, un regime affettivo ‘verticale’, segnato dall’asimmetria di una relazione fra un’adulta e un bambino. Alla radice dell’irraggiamento tradizionale del mito di Adone si collocano così due versioni non solo diegematicamente complementari, ma connotativamente antagonistiche. Questa tensione è a mio giudizio uno dei nuclei di senso più interessanti e produttivi dell’intera tradizione adonia, perché permette di apprezzare come dietro alle varia- zioni apparentemente casuali o comunque ‘neutre’ di un dato tradizionale si celino

vere e proprie opposizioni dialettiche da cui appare percorsa e animata la storia della cultura.

A confermare questa lettura come fondata e produttiva è il fatto stesso che un’identica contrapposizione, in modo latente ma ben riconoscibile, si instaura nuo- vamente a millenni di distanza. La stessa volontà correttiva di Ovidio nei confronti di Paniassi si ritrova infatti in un testo che, per la sua natura di studio antropologico dell’Adone greco, dovrebbe per lo meno evitare di esprimere una preferenza ideolo- gica fra le versioni documentate. Ciò che invece sorprende di trovare nei Jardins d’Adonis, in cui si può riconoscere, abbiamo detto, il più recente punto di irraggia- mento tradizionale del mito di Adone, è che il dato perturbante presente nella ver- sione di Paniassi viene addirittura rimosso grazie a una stupefacente forzatura della traduzione (l’originale greco non viene citato: si rifletta sui rischi di simili conces- sioni editoriali alla ‘leggibilità’):

Neuf mois plus tard, l’écorce de l’arbre se brisa et il en sortit l’enfant qu’on appelle Adonis. Il était si beau, alors qu’il était tout jeune, qu’Aphrodite le cacha dans un coffre pour le dérober aux regards des dieux, et le confia à Perséphone. (pseudo-Apollodoro, Bi-

blioteca 3.14.4, nella traduzione di Detienne 1972, p. 11; il corsivo e la traduzione italia-

na di servizio sono miei)

Nove mesi più tardi, la corteccia dell’albero si spaccò e ne uscì il bambino che si chiama Adone. Era così bello, quando era giovanissimo, che Afrodite lo nascose in una cassa per sottrarlo allo sguardo degli dei, e lo affidò a Persefone.

Come si vede, Detienne riesce a modulare la narrazione in modo che la bellezza che spinge la dea a rinchiudere Adone in una cassa non sia quella di un ‘bambino’, di un ‘infante’ (sole traduzioni corrette del greco νήπιος), bensì quella di un essere di età indeterminata ma già esteticamente (cioè eroticamente) definito. Per quanto ampio sia il senso in cui intendere il francese «tout jeune» («giovanissimo»), che potrebbe anche, in teoria, riferirsi a un ‘enfant’ in contrasto con un adulto, la sfumatura infan- tile non è di fatto recuperabile nella traduzione di Detienne, anche perché questa omette (di nuovo con la stessa tendenza) l’avverbio ἔτι, ‘ancora’, che invece accen- tua e disambigua senza residui la precocità della segregazione. La distanza fra «tout

jeune» e ἔτι νήπιον, insomma, sta tutta nell’eliminazione delle possibili risonanze materne implicite nella scena descritta da Paniassi.

Si tratta forse di una svista? Di sicuro non è una svista casuale, dato che nella sua interpretazione Detienne fa leva più di ogni altro studioso, come abbiamo visto in 1.3.2, sulla fisionomia di Adone come seduttore irresistibile. Va da sé che una sedu- zione sprigionata, insieme ai vagiti, da una culla rende quanto meno problematica l’applicazione al suo soggetto del moderno concetto (dongiovannesco e kierkegaar- diano) di seduttore, cui invece Adone viene tendenzialmente ricondotto negli studi più recenti, soprattutto quelli di non specialisti dell’antichità direttamente influenzati da Detienne (ad esempio Menninghaus 2003 e Berrettoni 2007). La spiegazione che mi sembra più plausibile è il fraintendimento da precomprensione: l’idea che De- tienne si è fatto di Adone a partire da Ovidio deve aver influenzato a ritroso la sua traduzione di un testo che invece si muove, abbiamo visto, in direzione radicalmente opposta. È sempre la precomprensione di Adone come giovane adulto e irresistibile seduttore (come togliersi dalle orecchie l’«Adoncino d’amor» di mozartiana memo- ria?) a determinare un’ulteriore forzatura da parte del ‘traduttore/traditore’ Detienne: le proposizioni consecutiva e finale che rendono narrativamente così logico questo periodo («Il était si beau […] qu’Aphrodite le cacha […] pour le dérober […]», «Era così bello […] che Afrodite lo nascose […] per sottrarlo […]») riflettono infatti più la prospettiva dell’interprete (e le sue conoscenze pregresse: la traduzione libera «pour le dérober» («per sottrarlo»), ad esempio, è già in Atallah 1966, p. 23, uno studio che Detienne, pur storpiando spesso il nome del suo autore in Attalah, pre- suppone forse più di quanto non dichiari) che il senso letterale del passo, in cui la concatenazione consecutivo-finale corrisponde a due semplici complementi circo- stanziali (διὰ κάλλος, «a causa della sua bellezza» e κρύφα θεῶν, «di nascosto dagli dèi»). Se si può concordare sul fatto che l’amore della dea è senz’altro suscitato dal- la bellezza del ragazzo (διὰ κάλλος), certo l’occultamento di Adone non sembra evi- dentemente concepito solo per impedire, come per una sorta di gelosia preventiva, che una simile bellezza venga vista anche da altri. L’espressione κρύφα θεῶν, in al- tre parole, non si può intendere come il fine dell’occultamento, ma come una sua semplice, non meglio specificata circostanza (non dimentichiamo che la Biblioteca è

un manuale di mitologia per lo più molto sintetico). Un’analisi del passo in chiave storico-religiosa permette infatti di capire, sulla base di confronti che svilupperemo in 2.2, che le motivazioni della dea, ammesso che qui siano ricostruibili con certez- za, hanno piuttosto a che vedere con il compimento di un’operazione di protezione soprannaturale del ragazzo.

Il fraintendimento di Detienne, insomma, che lo si voglia leggere o meno come permanenza della prospettiva ovidiana, è innegabilmente segno di una sintonia pro- fonda fra i due punti di vista: sia Ovidio che Detienne, infatti, privilegiano una carat- terizzazione ‘orizzontale’ del rapporto fra la dea e il ragazzo, rapporto presentato come conforme, nonostante la sua asimmetria strutturale, a una ‘normale’ storia d’amore corrisposto. Entrambi, soprattutto, sembrano voler rimuovere dal quadro dei dati disponibili tutti i segnali che, configurando il rapporto come misteriosamen- te sospeso fra maternità e erotismo, potrebbero accrescere la distanza verticale fra i due amanti in termini di autonomia e potere.

Se la rimozione di questi elementi da parte di Detienne ha avuto, come abbiamo visto in 1.2.4, un seguito significativo fra gli estimatori dei Jardins d’Adonis, non sono mancate, negli anni successivi, interpretazioni

nella sua interpretazione parte addirittura dalla versione altrove ‘censurata’ di Pa- niassi per leggere la vicenda di Adone come l’espressione mitica di una dinamica profonda analizzabile in termini junghiani: l’amore tra Afrodite e Adone va letto come rapporto fusionale madre-figlio, e quest’ultimo è simbolo del soggetto incapa- ce di integrarsi nelle istituzioni civiche per la sua riluttanza a sottrarsi a un rapporto avvolgente e totalizzante con la madre.

Per lo studioso della tradizione adonia, l’interesse di questa contrapposizione va ben oltre il semplice dibattito sul significato del mito di Adone nella cultura greca. Ai miei occhi, infatti, non è tanto rilevante il fatto che Segal possa collegare la sua lettura ‘matriarcale’ del mito di Adone a studi canonici nel campo, come la Geschi- chte der griechischen Religion di Martin Nilsson (1950, 19612; sulla stessa linea an-

cora Burkert 1979), quanto che, a monte della nuova vulgata promossa da Detienne, essa riveli totale sintonia con la visione poetica di autori come Auden e Kallman, che interpretano gli amori di Afrodite e di Adone come un criptotesto del legame di solidarietà distruttiva fra Agave e Penteo nel mito tebano di Dioniso (un’analisi del libretto oltre, in 2.3). In una prospettiva di storia della fortuna, insomma, l’elemento che assume la massima rilevanza è la continuità con cui, a millenni di distanza, tro- vano espressione punti di vista su Adone similmente polarizzati: in altre parole, O- vidio sta a Paniassi (e poi a Auden/Kallman) esattamente come Detienne sta a Steh- le, Winkler e Segal.

L’importanza di questa constatazione non può essere sopravvalutata: essa forni- sce infatti, come rivela uno sguardo d’insieme, lo strumento più idoneo per una comprensione sintetica dell’intera tradizione del mito, e permette di formulare in termini generali l’idea che costituisce la tesi di fondo di questo studio: nonostante la sua incredibile varietà di forme e contenuti, la tradizione adonia è percorsa da una opposizione binaria, che riguarda il modo di intendere il rapporto amoroso fra la dea