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Ricerche sulla fortuna del mito di Venere e Adone

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Academic year: 2021

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SCUOLA NORMALE SUPERIORE

Tesi di Perfezionamento

Classe di Lettere

Ricerche sulla fortuna

del mito di Venere e Adone

Candidato: Alessandro Grilli

Relatore: Ch.mo prof. Guido Paduano

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PREMESSA

Presento in questa dissertazione il nucleo principale delle ricerche che ho svolto ne-gli ultimi anni sulla fortuna del mito di Venere e Adone. Delle molte direzioni in cui è possibile percorrere l’immenso corpus dei testi coinvolti ho scelto di privilegiare quella che esplora gli impliciti ‘matriarcali’ nella storia d’amore fra il ragazzo e la dea. Questo mi ha permesso di porre al centro dell’indagine l’aspetto indubbiamente più importante dell’intera vicenda, cioè il rapporto amoroso, illuminandolo però da un’angolazione che per molti versi non ha goduto finora di un apprezzamento ade-guato. Il mito di Venere e Adone è infatti il terreno ideale per approfondire, in ter-mini di storia culturale, temi la cui rilevanza travalica senz’altro gli ambiti speciali-stici della comparatistica e della storia della tradizione classica, per coinvolgere gli orizzonti più ampi della psicologia, della sociologia e degli studi di genere. Nella prospettiva che ho adottato, la diffusione del mito di Venere e Adone può essere considerata in primo luogo come riflesso pregnante dei modi in cui le culture hanno cercato di metabolizzare ed esprimere, in un arco di tempo molto lungo, il dato ol-tremodo problematico della dominanza amorosa femminile. La figura di Adone rap-presenta in tal senso solo un ottimo piano di sezione per comprendere le ricadute sull’immaginario, in contesti anche molto disparati, di questo desiderio attivo fem-minile, tanto ingombrante e cospicuo nelle sue attestazioni quanto incompatibile con l’assetto patriarcale della cultura. Per quanto disparate siano le innumerevoli varia-zioni di questo mito, in esse si possono sempre riconoscere le tracce di un identico obiettivo: articolare una rappresentazione (da intendere come descrittiva, normativa, o semplicemente apotropaica) del maschio ‘difettoso’, incapace di sottrarsi cioè all’abbraccio soverchiante della donna per realizzarsi come individuo attivo nella Storia.

Inevitabilmente, questa impostazione della ricerca e i metodi che essa richiede sa-rebbero forse emersi meno nitidamente in uno studio meno selettivo; le pagine che seguono sono infatti espressione, tra l’altro, della mia personale idea di fortuna

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dell’antico, che contrasta in qualche misura con le tendenze dominanti nella disci-plina.

d i i c i i ( n ) - 1 c m e c o i n d o i n m i n i d i

esplorazionze

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INTRODUZIONE

0.1 IL ‘MITO’ DI ADONE

La prima illusione di cui è bene liberarsi per comprendere la storia della fortuna del mito di Adone (e per leggere con profitto questo lavoro) è che la figura di Adone sia un’entità dai contorni chiari e distinti la cui memoria si tramanda dall’antichità alle età successive lungo i percorsi sicuri segnati dai capolavori delle letterature classiche. Nessuna Medea di Euripide, nessun Edipo re di Sofocle proietta nel caso di Adone la sua ombra gigantesca su una posterità creativamente unita nella defe-renza. Il ruolo di principale modello letterario spetta sì a un raffinato episodio delle Metamorfosi di Ovidio (10.503-739), ma la sua rilevanza per la tradizione adonia, benché capitale, è tutt’altro che esclusiva.

Di cosa si fa la storia dunque quando si cerca di seguire la rigogliosa, esuberante tradizione relativa a questo mito? Di un tema letterario? di una figura del culto? O piuttosto di un concetto astratto, di un’allegoria? E anche qui: allegoria di cosa? Del-la bellezza? delDel-la caducità? del sole? delle messi? delDel-la caccia? dell’eros?

Purtroppo, nella prospettiva di una ricognizione complessiva della fortuna del mi-to, la risposta a queste domande è sempre affermativa, e tutte le piste suggerite sono valide e potenzialmente produttive: occuparsi di Adone in termini di storia della tra-dizione significa cominciare con l’esplorare la mitologia nella sua più autentica na-tura di punto di mediazione fra poesia e religione, per poi seguire l’eco di una realtà già complessa lungo i canali della storia della cultura – dalla filosofia alle arti, dalla storia della lingua alla psicologia, dalla sociologia agli studi di genere. Adone smette presto, infatti, di essere solo un personaggio del mito, e degenera (o cresce) fino a diventare un nome comune, un luogo comune, un simbolo passepartout che si ritro-va nelle più ritro-varie associazioni di idee, talora non solo distanti ma contraddittorie ri-spetto alla loro matrice più antica.

Questa complessità è già inscritta nell’Adone antico, che nella cultura occidentale degli ultimi tre secoli è stato recepito come un’etichetta relativamente compatta (an-che nella lingua d’uso il sostantivo comune ‘adone’ sta semplicemente per ‘ragazzo

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molto bello’), quando in esso, di fatto, si possono riconoscere matrici molteplici e talora nettamente distinte. Per cominciare, Adone è marcato fin dalle origini, e fin nel nome (un appellativo semitico, Adon, ‘Signore’, frainteso dai Greci come nome proprio), dalla sua fisionomia transculturale, sospesa fra Oriente e Occidente. Ma soprattutto, e a differenza di quasi tutti i miti antichi che hanno lasciato tracce signi-ficative nella cultura moderna, la figura di Adone è esperita dai popoli mediterranei (e trasmessa alle culture successive) su due piani ben distinti: da un lato quello pro-priamente mitologico-letterario, con innumerevoli variazioni poetiche sul mito; dall’altro quello rituale, con la celebrazione festiva delle Adonie, destinate alle mas-se e diffumas-se, con differenze anche non marginali nello svolgimento, in tutto il Medi-terraneo antico. A complicare le cose sopraggiungono, numerose e autorevoli già in età imperiale, le interpretazioni allegoriche del mito di Adone, che esercitano sulla tradizione successiva un’influenza difficile da sopravvalutare.

Il risultato è che l’‘essenza’ di Adone oggi, da un punto di vista retrospettivo e panoramico, non si lascia recuperare tramite la semplice analisi delle versioni lette-rarie conservate del mito, ma risulta costantemente diffratta da lenti extralettelette-rarie. La più importante è senz’altro l’esperienza diretta che gli antichi avevano del culto e delle sue atmosfere, e che per noi è recuperabile in minima parte solo da scarne trac-ce documentarie o da ulteriori rappresentazioni letterarie (se non per analogia trami-te i riti cristiani che hanno sostituito le Adonie mantrami-tenendone alcuni elementi). Nel-lo stesso modo hanno influito le speculazioni teoriche su Adone, di cui già nell’antichità gli studiosi (filosofi o teologi) proponevano interpretazioni, che a loro volta determinavano le successive rappresentazioni letterarie del personaggio, in un vertiginoso circolo ermeneutico che porta, nell’antichità come nell’età moderna, gli interpreti ad alimentarsi delle opere dei poeti e i poeti di quelle degli interpreti: que-sto è vero di Nonno di Panopoli (IV-V sec.) che presuppone Porfirio (234-305 ca.) che presuppone Ovidio (43 a.C.-18 d.C. ca.) o le sue fonti; così come di Frazer (1854-1941), che riprende e fa sua l’interpretazione agraria attestata a partire da Cornuto (I sec. d.C.) e influenza a sua volta un’intera generazione di poeti, da Yeats (1865-1939) a Pound (1885-1972), da H. D. (1886-1971) a Eliot (1888-1965), da MacLeish (1892-1982) a Hughes (1930-1998).

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Di questo circolo ermeneutico è parte integrante anche il presente studio, che dal-la considerazione deldal-la tradizione adonia nel suo complesso ricava, accanto alle non poche difficoltà dell’impresa, il vantaggio di una maggiore consapevolezza: solo uno sguardo d’insieme alla tradizione permette di capire infatti come anche i dati più basilari e apparentemente acquisiti non siano altro che il prodotto di trasformazioni storiche e risemantizzazioni progressive su cui si può e si deve fare luce.

Un esempio elementare ma significativo: già il fatto che si sia affermato nel lin-guaggio corrente il sintagma ‘mito di Adone’ invece del più corretto ‘mito di Venere e Adone’ potrebbe sembrare un dato neutro o irrilevante. Niente di più falso: una simile nominalizzazione della vicenda marginalizza la dea, e rende più difficile, co-sì, attribuire il giusto peso a un elemento strutturalmente capitale, ovvero la subordi-nazione a più livelli del ragazzo alla sua controparte femminile. Voler capire qualco-sa del ‘mito di Adone’, perciò, implica già in sé una forma di precomprensione (nel senso che il termine assume in Gadamer 1960), che in quanto tale agisce, insieme ad altri fattori, orientando e determinando ulteriori interpretazioni (come è infatti avve-nuto nel Novecento, dove quasi tutti gli studiosi di questo mito hanno impostato il problema dal punto di vista del ragazzo piuttosto che della dea). Questo mostra al-tresì come in una ricerca di così ampia prospettiva anche gli elementi in apparenza più neutri si lascino ricollocare all’interno di un sistema più complesso di determi-nanti. Solo uno sguardo generale permette infatti di apprezzare il fatto che Adone re-sti per millenni, nella letteratura, nell’arte e nella filosofia, inseparabile complemen-to della dea, finché, grosso modo all’inizio dell’era borghese (vedremo oltre nel cap. 4 alcune possibili spiegazioni del fenomeno), comincia a divenire più frequente, ne-gli usi linguistici stereotipi e in letteratura, la sua rappresentazione come figura a se stante – una tendenza accolta e potenziata nell’Adone novecentesco, che è sempre più spesso una figura di giovane o di adulto in autoreferenziale isolamento.

0.2 L’INVENZIONE DELLA BELLEZZA

L’associazione di Adone alla bellezza, oggi antonomastica, ci offre forse l’esempio più cospicuo di come un’indagine genealogica sui significati sia in grado di decostruire le valenze di questo personaggio nella cultura corrente, mettendo in

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luce le tendenze storiche e ideologiche che ne hanno orientato le trasformazioni e gli adattamenti semantici. In effetti, se oggi troviamo Adone ancora abbastanza interes-sante da leggere (e da scrivere) un saggio come questo, è perché ci aspettiamo di po-ter capire qualcosa della bellezza, di cui questa figura mitica rappresenta per noi (sottolineo: per noi) non solo un’incarnazione di spicco, ma una sorta di archetipo assoluto. Il contributo della storia della fortuna alla comprensione del mito può e-splicarsi appunto nel mostrare che gli elementi che appaiono oggi come primari e sostanziali sono invece effetto di una complessa catena di selezioni, spostamenti e risemantizzazioni, legate alla persistenza del mito in contesti culturali in continuo cambiamento. Sarà sorprendente scoprire, così, che la traslazione semantica che por-ta Adone a divenpor-tare nel corso dei secoli un indicatore antonomastico di bellezza maschile ha bisogno di molto, molto tempo prima di compiersi e cristallizzarsi – e che questo significato oggi esclusivo ne nasconde o ne sostituisce molti altri, la cui elisione testimonia in modo eloquente le tendenze latenti ma inarrestabili del cam-biamento culturale.

Per gli antichi Adone era sì un giovane di bellezza straordinaria, ma non speciale o unica rispetto ai tanti formosissimi ephebi del mito (così Igino intitola una lista di questi «bellissimi adolescenti» in Fabulae 271.1-2; ma la tendenza a includere Ado-ne in serie di figure mitiche analogamente belle o votate all’eros è testimoniata ad esempio da Ateneo, 13.20.38; Clemente Alessandrino, Protrettico, 2.33.8; [Clemen-te], Omelia 5.12.2; Nonno, Dionisiache 42.242-250: il fatto che Adone non fosse che ‘uno dei tanti’ è evidentissimo ad esempio in Dione Crisostomo, Orazioni, 29.18, dove si parla di Ganimede, di Adone, di Iasione e τῶν ὁµοίων, cioè «di simi-li» personaggi). Non solo: se dal mondo greco si risale agli antecedenti semitici di questa figura, e quindi, oltre l’Adone fenicio di Biblo si esplorano le fisionomie del giovane assiro Tammuz o, ancora oltre, del sumero Dumuzi, si scopre che il dato della bellezza è quanto meno marginale: dei numerosi esempi possibili, si pensi solo al balbale (canto amoroso) per Inanna e Dumuzi tradotto in Black et alii 2004, pp. 206-209. In questo componimento, appartenente al genere della lirica amorosa, il desiderio di Inanna per lo sposo è sì vibrante di commozione, ma si limita a sottoli-neare la sua prestanza economico-sociale: «È lui l’uomo del mio cuore! Lui è

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l’uomo del mio cuore! Fratello, lui è l’uomo che ha parlato al mio cuore! Non zappa, ma accumula mucchi di grano; porta sempre grano al magazzino, un agricoltore che ha tanti mucchi di grano; un pastore le cui pecore sono pesanti (?) di lana”» (p. 208). Il punto dei miti più antichi non riguarda l’effetto soggettivo della bellezza, ma va cercato in motivazioni di carattere escatologico, sociale o politico-religioso: l’unione del giovane con la dea è conferma mitico-rituale della ierogamia che fonda le istitu-zioni della città-stato (il re-pastore di popoli ricava i suoi poteri direttamente dalla dea poliade tramite l’unione amorosa). In questa prospettiva la bellezza è senz’altro il tratto meno specifico, a fronte di fattori ben altrimenti funzionali, come la ricchez-za, il rango o la funzione sociale. Anche nel mito greco di Adone, del resto, la bel-lezza viene esplicitata solo come causa dell’innamoramento di Afrodite, mentre il percorso del ragazzo si snoda (lo vedremo tra poco) fra strutture mitiche di ben maggiore pregnanza, come appunto la ierogamia, la doppia pertinenza ctonia e sola-re, la nascita dall’incesto, la caccia, la morte precoce. Ancora una volta è la prospet-tiva storica a rivelare come proprio tutti questi motivi inizialmente così essenziali perdano via via di importanza, in misura diversa e per diverse ragioni, o addirittura spariscano dal retaggio tradizionale del mito.

Temo di portare un duro colpo all’immagine che tanti (direi tutti, studiosi inclusi) hanno di Adone, ma uno sguardo d’insieme alla tradizione adonia dal III millennio a.C. a oggi mostra in tutta evidenza che la rilevanza della bellezza di Adone non è un dato originario, ma tende a emergere a seguito di una selezione/riduzione pro-gressiva degli elementi che caratterizzavano questa figura nelle fasi più antiche del mito. La stessa bellezza dell’Adone greco, da cui la nostra semplificazione deriva, per quanto associata al ragazzo con la frequenza di un epiteto stereotipo (cfr. ad es. Procopio di Gaza, Epistole, 18), ha tutta l’aria di una razionalizzazione a posteriori dell’innamoramento che Afrodite concepisce nei suoi confronti. Una costante del mito greco (e non solo) rispetto a dati tradizionali talora molto anteriori è infatti la razionalizzazione su base psicologica o moralistica: invidia, gelosia e altri sentimen-ti umani sono spesso chiamasentimen-ti a rendere più consequenziali e comprensibili vicende mitiche che si ritrovano attestate in fasi più antiche come dure giustapposizioni di eventi di cui si è persa l’originaria matrice causale. Nella fattispecie, la bellezza del

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partner umano è la più semplice spiegazione psicologica di una ierogamia, che agli occhi dei Greci era sufficientemente ‘contro natura’ da rendere necessaria una moti-vazione ad hoc: i loro racconti mitici, infatti, rappresentano gli dei come profonda-mente consapevoli della propria distanza incolmabile dai mortali; amare una creatu-ra mortale è per un dio un abbassamento disdicevole, come implica Afrodite stessa nell’Inno omerico in suo onore (vv. 247-255). La bellezza straordinaria delle creatu-re umane pcreatu-rescelte è dunque la motivazione più immediata e ragionevole sul piano psicologico e culturale con cui il mito greco, nelle forme arcaiche e classiche a noi note, dà senso ai racconti di amori fra uomini e dei.1 E infatti i riferimenti alla

bel-lezza straordinaria sono talmente comuni e diffusi quando si parla di umani amati dagli dei che ci si chiede come questa qualità abbia finito per diventare appannaggio esclusivo del solo Adone, che ha visto ridotto a quest’unico elemento il suo profilo inizialmente tanto più ricco e complesso (cercheremo di formalizzare alla fine del paragrafo un’ipotesi su come ciò sia avvenuto).

Queste considerazioni finiscono per tradursi in riserve sostanziali sui presupposti di indagini sistematiche come quella in cui Winfried Menninghaus (2003) approfon-disce i dati tradizionali su Adone (pp. 13-65) per ricostruire a ritroso una semantica generale della bellezza estrema. L’analisi di Menninghaus è ingegnosa e talora illu-minante, ma riposa su un presupposto fallace che la inficia del tutto, ovvero che la correlazione fra Adone e bellezza avesse, nella formazione del mito, la stessa forma che essa ha per noi. Al contrario, l’equivalenza di Adone e bellezza nei termini

1 La tradizione moderna vi si conforma totalmente – nell’Adone di Marino, ad esempio, il dio

Apollo lo esplicita nel caso di Giacinto: «rapito a forza da’desiri accesi/ corsi al’esca del bello e’n terra scesi», 19.31.7-8; mentre il dio Bacco, in un passo di poco successivo, riconduce anch’egli alla forza divina della bellezza la propria attrazione per il mortale Pampino: «Or, qua-lunque tu sia, bench’io sia dio, per te mia deitate il ciel disprezza,/ e te mortal far possessor vogl’io/ di quanta ho colassù gloria e grandezza;/ peroché se celeste è il sangue mio,/ celeste è ancor la tua somma bellezza», 19.72.1-6; ancora più radicale la sentenza con cui la Vénus di La Fontaine conclude la dichiarazione d’amore al suo Adonis: «La beauté, dont les traits même aux dieux sont si doux,/ Est quelque chose encor de plus divin que nous» («La bellezza, i cui tratti sono così graditi agli dei, è qualcosa di ancor più divino di noi stessi», Adonis, vv. 97-98).

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dell’antonomasia che ci è così familiare costituisce una cristallizzazione piuttosto tardiva delle lingue moderne; non a caso Menninghaus deve a volte sostenere le sue interpretazioni del mito antico con prove irrelate alle fonti classiche ma derivate dal-la loro tradizione moderna.2 Sostanzialmente assente nell’antichità classica con

l’accezione oggi comune,3 ancora nel Rinascimento l’uso antonomastico del nome

Adone e dei suoi derivati non rimanda alla bellezza bensì alla cura eccessiva dell’aspetto (disdicevole per gli eroi come Ruggero, ad esempio, che infatti viene accusato di sembrare «l’Adone o l’Atide di Alcina» in Ariosto, Orlando furioso, 7.57.8) o all’ambiguità androgina (come nel sonetto 94 del I libro di Les amours di Ronsard, 1552, pp. 73-74, dove la donna amata, «quand d’un bonnet son chef elle adonise», «quando con un cappello si adonizza il capo», non lascia trapelare «s’elle est fille ou garçon», «se è una ragazza o un ragazzo»). Di fatto, prima di specializ-zarsi come il simbolo per eccellenza della bellezza canonica maschile, Adone è stato solo uno fra i tanti personaggi belli del mito, come rivela il cursorio esame delle fonti antiche accennato sopra.

Doppiamente immetodico, pertanto, risulta il titolo che Menninghaus sceglie per il suo capitolo su Adone: «“Wegen der Schönheit”», «“A causa della bellezza”», traduzione del greco διὰ κάλλος, il sintagma con cui una fonte antica

(pseudo-2 Ad esempio a p. 35, dove l’idea che la bellezza estrema di Adone trapeli dalla sua

freddez-za inaccessibile è sostenuta non da prove antiche (che infatti non esistono, giacché Adone è

sempre un amante del tutto cedevole, sia di Afrodite che degli altri dei – Persefone, Apollo,

Dioniso, Eracle – da cui, secondo varie fonti, è concupito), ma da citazioni del Venus & Adonis di Shakespeare (1593), dove però la ritrosia di Adone rappresenta la principale novità introdotta nel mito dalla riscrittura moderna.

3 In greco o latino non ci sono occorrenze di ‘adone’ come nome comune; la stessa

cristalliz-zazione del nome come termine topico di paragone (cfr. ad esempio Alcifrone, Epistole 4.17.2) è attestata ma non esclusiva di questo personaggio: cfr. ad esempio Luciano, De mercede

con-ductis 35.16: «ci sono poi quelli che vogliono essere ammirati anche per la loro bellezza, e

allo-ra bisogna dirgli Adone e Narciso anche se a volte hanno il naso lungo mezzo metro». In greco, a mostrare come la morte precoce sia ben più rilevante della bellezza di Adone, l’unico nome comune derivato da Ἄδωνις è ἀδώνιον, la statuetta che rappresenta il ragazzo defunto usata nel rituale in suo onore (il tema è approfondito oltre in 4.1).

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Apollodoro, Biblioteca, 3.14.4 [184], citato oltre in 1.1; lo stesso sintagma in rela-zione al personaggio si trova anche in Antonino Liberale, 34) motiva l’innamoramento di Afrodite per il piccolo Adone. Il peso che Menninghaus attri-buisce a queste parole è chiaramente esagerato, dato che esse non derivano testual-mente dalla fonte più antica, ma appartengono allo spiccio riassunto con cui l’autore della Biblioteca dà conto del trattamento di questo mito in un’opera perduta del poe-ta epico Paniassi di Alicarnasso (V sec. a.C.). Ancora più scorretto e tendenzioso, peraltro, mi sembra far leva su questo διὰ κάλλος come se in esso fosse racchiuso lo specifico della vicenda adonia: una bellezza anche estrema come causa dell’amore degli dei per i/le mortali è un motivo a tal punto diffuso da costituire un vero e pro-prio luogo comune, e non può certo chiarire in che senso Adone fosse già allora spe-ciale rispetto ad altri giovani bellissimi. Anche nello stesso manuale dello pseudo-Apollodoro, ad esempio, lo stesso sintagma ricorre in relazione a Ila, amasio di Era-cle, che διὰ κάλλος ὑπὸ νυµφῶν ἡρπάγη, «fu rapito dalle ninfe a causa della sua bel-lezza» (1.9.19 [117]). Già nell’Inno omerico ad Afrodite, del resto, si dice che Zeus rapì Ganimede «per la sua bellezza» (ὃν διὰ κάλλος, v. 203). Analogamente, l’autore del Discorso sull’amore pseudo-demostenico annovera Adone e Ganimede, insieme «ad altri dello stesso genere» (καὶ ἄλλους τοιούτους, 30), fra i giovani amati dagli dei «per la loro bellezza» (διὰ κάλλος, ibid.); e se ne potrebbero citare molti altri, maschi e femmine, cui una bellezza eccezionale procura favori divini più o meno duraturi: per dirla con Isocrate, si trovano «più personaggi divenuti immortali per la loro bellezza che per tutte quante le altre virtù» (πλείους γὰρ ἂν εὕροιµεν διὰ τὸ κάλλος ἀθανάτους γεγενηµένους ἢ διὰ τὰς ἄλλας ἀρετὰς ἁπάσας, Encomio di Elena, 60).

L’associazione dell’Adone antico a una bellezza straordinaria è dunque sensata e legittima a patto di non considerarla, come di fatto implica Menninghaus, un legame specifico e biunivoco. Essa diverrà tale solo nel corso della tradizione, man mano che si offuscherà la memoria di altri aspetti salienti di questo mito, e soprattutto man mano che – parallelamente – altri superbelli (Endimione, Ila, Cefalo, Giacinto, Cipa-risso ecc.) finiranno con lo sbiadire ai margini dell’immaginario più diffuso. Fino a quel momento Adone sarà sì il più bello di tutti, ma solo come ciascun altro bello

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sa-rà ‘il più bello di tutti’ nel suo contesto narrativo. Questo paradosso è vivo ancora nell’Adone di Marino (1623), poema-monstre fondato appunto sul presupposto che la bellezza del protagonista sia un assoluto insuperabile. Eppure anche lì si fa spazio digressivo ad alcuni di questi miti minori senza rinunciare a segnalare come altret-tanto insuperabile la bellezza di ciascuno: e così Apollo parla di Giacinto come in-carnazione della bellezza assoluta («Scultore in marmo o ver pittore in carta/ di for-mar non si vanti un sì bel viso./ S’avesse la beltà corpo mortale,/ credo che la beltà sarebbe tale», 19.26.5-8) senza che questo impedisca a Bacco di descrivere poi a sua volta la bellezza, anch’essa insuperabile, di Pampino (19.65-73): anche quando A-done è ormai avviato a diventare il superbello per eccellenza, la bellezza straordina-ria si presenta sempre, paradossalmente, come un vertice assoluto e senza confronto, a prescindere dal personaggio che la incarna.

Vale la pena di chiedersi a questo punto come mai proprio Adone e non un’altra figura del mito, magari qualcuno dei formosissimi ephebi, sia stato selezionato dalla cultura occidentale come paradigma di bellezza maschile, al punto da soppiantare tutti gli altri eroi bellissimi, e cristallizzarsi addirittura in un’antonomasia linguistica. Per una spiegazione di ordine semantico generale mi sembra indispensabile riferirsi alla teoria dei prototipi, formulata a partire dagli anni Settanta dalla linguista Elea-nor Rosch e approfondita da altri studiosi di semantica cognitiva come George La-koff e Ronald Langacker. Alla base di questa teoria c’è l’intuizione che la definizio-ne di concetti come fasci di attributi definizio-necessari e sufficienti, propria della logica ari-stotelica e classica, vada sostituita da una definizione fondata su attributi di diversa rilevanza, rilevanza che è funzione non di un’astrazione logica ma della struttura del mondo come esso viene percepito dal soggetto. All’interno di una categoria, pertan-to, alcuni elementi avranno uno statuto di maggiore rappresentatività rispetto ad al-tri. Un esempio classico riguarda la classe ‘uccello’, in cui un elemento come ‘pas-sero’ viene riconosciuto come più centrale rispetto a elementi come ‘struzzo’ o ‘pin-guino’. In termini di prototipicità, Adone è in effetti più vicino alla definizione di ‘bello’ di quanto non siano altre figure del mito, che condividono con lui la qualità della bellezza, ma che si distinguono per qualche altro aspetto che le rende più ec-centriche e meno ‘universali’. Ciò che fa di Adone il bello per eccellenza, è proprio,

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in qualche misura, la sua ‘normalità’ emblematica (beninteso nella categoria dei bel-li, cioè dei maschi considerati per la loro potenzialità amorosa), la sua medietà di uomo amante eterosessuale rispetto alla quale le sue altre caratteristiche (la nascita dall’incesto, il legame con la regalità semitica, la stessa natura semidivina di eroe sospeso fra la terra e l’aldilà) finiscono per passare in secondo piano o addirittura per essere elise nel corso della tradizione.

L’accentuazione di alcuni tratti come più pregnanti di altri ha luogo ovviamente all’interno di un codice, che nel caso di Adone è il sistema della mitologia greco-romana nella sua tradizione postclassica (un sistema che deve moltissimo, come ve-dremo tra poco, all’impianto complessivo delle Metamorfosi di Ovidio). Se cer-chiamo in questo sistema le radici della maggiore prototipicità di Adone rispetto ad altre figure di corpi maschili bellissimi, non avremo difficoltà a riconoscere una se-rie di opposizioni in cui è sempre Adone a distinguersi come il più vicino all’idea di ‘uomo più bello possibile’. Tanto per cominciare, Adone è un mortale, e non un dio. Tende quindi a prevalere su Apollo, paradigma sì di bellezza maschile, ma superu-mana.4

Inoltre Adone è eterosessuale (gli accenni alle sue avventure come amasio di al-cuni dèi sono solo in fonti molto marginali rispetto alla vulgata delle Metamorfosi), e prevale quindi gradualmente su altri giovinetti ovidiani (Ganimede in primis, ma anche Ciparisso o Ila) che sono sì memorabili esempi di bellezza, ma anche oggetti di desiderio pederotico, e quindi non adatti a un uso emblematico realmente ‘univer-sale’. Quando nel 1545 Lodovico Dolce costruisce nelle sue Stanze nella Favola di Adone una sovrapposizione connotativa tra Adone e Ganimede, ad esempio, la sua subliminale assimilazione di Adone a un personaggio dell’immaginario omoerotico è decisamente contro tendenza.

4 La concorrenza fra Adone e Apollo è attestata occasionalmente ancora oggi. Nella cultura

pop basterà ricordare l’episodio di Star Trek dal titolo Who Mourns for Adonais? (che cita il v. 415 dell’Adonais di Shelley), in cui Adonais è una semplice allusione letteraria: nel telefilm, in realtà, non c’è nessun Adone, ma solo un Apollo bellissimo e folle di autocompiacimento narci-sistico.

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La fruibilità erotica della bellezza sembra essere un altro aspetto cruciale nel de-terminare la maggiore prototipicità: rispetto a una figura come Narciso, ad esempio, che pure lo affiancherà a lungo nell’uso antonomastico, Adone prevale alla fine per il fatto che la sua bellezza è destinata a un uso amoroso e transitivo, mentre quella di Narciso sembra meno ‘vera’, meno corrispondente alla definizione di ‘bellezza’, proprio perché ripiegata in un non-rapporto solipsistico. E così, se per molto tempo le due figure sembrano intercambiabili (come conferma un’associazione che va al-meno dall’Adonis/ Narcissique decor, «la bellezza di Adone e di Narciso» del De planctu naturae di Alano di Lille, 1160-1170 ca., al «Narcisetto, Adoncino d’amor» del libretto di Da Ponte per Le nozze di Figaro di Mozart, 1786), nella cultura suc-cessiva le strade dei due ragazzi divergeranno: Narciso imboccherà quella della bel-lezza ‘malata’, e il suo nome sarà legato nella lingua comune a un aspetto della psi-che pericolosamente vicino ai confini della patologia; Adone resterà, senza rivali, su quella della bellezza perfetta tutta fatta per l’amore.

Il fatto che la bellezza si manifesti in una vita e in una vocazione amorose è un al-tro elemento importante nella percezione del prototipo: nel concetto di bellezza, in-fatti, la connessione con l’esperienza amorosa non è accessoria ma essenziale (si de-finisce come ‘bello’ ciò che suscita desiderio). Achille, ad esempio, è sì bellissimo, come ci viene ricordato da Omero in poi, ma nella sua vita l’amore ha un ruolo mar-ginale rispetto al valore militare; questo marginalizza dunque la sua bellezza rispetto a quella di chi, come Adone, ha nell’eros la cifra principale dell’esistenza. Questo era chiarissimo già nell’antichità, se un autore come Coricio di Gaza (16.1.5) può rovesciare il celebre ammonimento omerico di Zeus ad Afrodite ferita, in cui la dea viene esortata a occuparsi della sfera nuziale lasciando la guerra a Ares e Atena (Ili-ade, 5.428-430), in un invito speculare di Zeus ad Ares in cui accanto alla dea viene menzionato il nome del suo amante più ‘appropriato’: «non a te, figlio mio, sono state date le faccende d’amore: tu occupati di guerre e di battaglie, mentre di quelle si occuperanno Adone e Afrodite» (οὔ τοι, τέκνον ἐµόν, ἐρωτικὰ δέδοται ἔργα· ἀλλὰ σὺ µὲν πολέµους µετέρχου καὶ µάχας, ταῦτα δὲ ’Αδώνιδι καὶ ’Αφροδίτῃ µελήσει).

A questo si aggiunge l’elemento forse più importante, perché si basa sull’idea u-niversale che la bellezza sia necessario correlato dell’amore (in mancanza di

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defini-zioni ‘essenzialiste’, la bellezza viene pensata dalla cultura come la qualità di una persona capace di suscitare in altre il desiderio amoroso): se è rilevante in generale che la vicenda di Adone sia stata progressivamente semplificata e ridotta, nel corso dei secoli, alla sola relazione con la dea, lo è ancor più che ad amare il ragazzo non sia una divinità qualsiasi, ma la dea stessa dell’amore. Questo permette a Adone di surclassare gli amanti mortali di Cibele, di Demetra, di Aurora e di Selene. Resta da capire come mai Adone prevalga anche rispetto agli altri amanti di Venere/Afrodite. Ma anche in questo caso la sua maggiore prototipicità è messa facilmente in luce da un’analisi contrastiva. Rispetto ad Anchise, ad esempio (come anche rispetto al Ti-tono amato da Aurora), Adone ha un vantaggio capitale: la morte precoce, che gli impedisce di ricomparire nelle vesti di vecchio venerabile – cosa che invece intacca l’immagine di Anchise, e non certo in un luogo marginale del canone letterario! Pensando al vegliardo di Virgilio, portato sulle spalle dal figlio Enea, chi mai ricor-da, invece dell’Eneide, i versi dell’Inno omerico ad Afrodite, che cantano il giovane e bellissimo Anchise amato dalla dea sui prati dell’Ida? Vale la pena di esplicitare qui un principio fondamentale della tradizione dell’antico, e di quel suo aspetto par-ticolare che è la cristallizzazione dei tratti distintivi nelle figure mitologiche: un si-mile processo è mediato di necessità dai testi del canone letterario, e non dalle fonti più rare, perché è solo la conoscenza generalizzata del repertorio a permettere la dif-fusione capillare di una nozione. Di conseguenza, rispetto al raro mito di Afrodite che rapisce e seduce Fetonte, narrato da Esiodo nel perduto Catalogo delle donne, o agli amori della dea con Faone, di cui parlano poeti arcaici e classici a noi noti solo in frammenti, è evidente che il mito di Adone, unico amore umano di Venere canta-to nelle Metamorfosi di Ovidio, qualifichi di per sé il ragazzo come un procanta-totipo senza rivali.

Anche rispetto a Efesto e Ares le ragioni della prevalenza di Adone come partner di Afrodite sono evidenti: al di là del fatto che Efesto non è bello ma brutto e scian-cato, sia lui che il pur bellissimo Ares non si prestano a ipostatizzare la perfetta de-siderabilità maschile in quanto sono uniti ad Afrodite da rapporti non di affinità ma di complementarità antitetica. Efesto è la tecnica come Afrodite è la natura; Ares è la guerra come Afrodite è la pace. Adone è invece la bellezza amorosa esattamente

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come lo è la dea: come scrive Paolo Vendramin nel testo di un dramma musicale messo in scena a Venezia nel 1640, «Il fior d’ogni beltà,/ Ristretto in una coppia» (L’Adone, 3.1, p. 127).

Anche se una semantica sincronica del sistema mitologico non può reggere la prova dei dati dello sviluppo storico (l’associazione di Afrodite ad Ares è erede ad esempio della coppia di divinità micenee della guerra Enialio-Eniò, mentre l’amore per Adone è di derivazione orientale), è pur vero che in ogni momento dato il signi-ficato delle parti di un sistema tende ad aggiustarsi per aggiustamenti sistemici. In questo senso vale forse la pena di osservare che la rosa canonica dei compagni di Afrodite, – Efesto, Ares, Adone – ricorda in qualche modo (forse un’eco della tripar-tizione indeuropea delle funzioni descritta da Dumézil…) l’opposizione fra Era, A-tena e Afrodite nel giudizio di Paride: come Era è figura delle istituzioni e del potere politico, Atena della forza guerriera e Afrodite della felicità amorosa, così Efesto (figlio legittimo di Era) lo è della cultura materiale e delle istituzioni (essendo lui lo sposo legittimo di Afrodite), Ares della guerra e Adone dell’amore, cioè della stessa prerogativa che definisce la sua amante. Ergo: il rapporto tra Afrodite/Venere e A-done non si fonda su un bilanciamento equilibrato fra opposti, ma su un parossismo iperbolico di una stessa qualità, e si traduce pertanto in una bellezza amorosa alla seconda potenza che infatti (come sottolinea in particolare Detienne 1972) ha alla lunga conseguenza disarmoniche e disastrose in quanto smisurata ed eminentemente antisociale. In sintesi, la bellezza di Adone scivola nel corso dei secoli verso il cen-tro prototipico della categoria a motivo della sua purissima consonanza con la sfera dell’eros, oltre che della sostanziale assenza di caratterizzazioni ulteriori di questo personaggio. Per sintetizzare con le parole di Lodovico Dolce (Stanze nella favola di Adone, 1545, 15.1-8), la bellezza di Adone è preferibile a quelle di dei e di uomini, compresi i formosissimi ephebi del mito (Narciso, Giacinto, Croco, Ganimede), o della letteratura (il pastore Alessi di Bucoliche 2):

Il figliuol di Cefiso, e’l bel Giacinto

E Croco, e quel ch’al sommo Giove piacque, E l’altro, del cui amore acceso e vinto Ne li suoi versi il gran pastor non tacque:

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Cedano il pregio lor, caduto e spinto Quando l’alta bellezza al mondo nacque, Onde a ragion pel caro Adon da parte Venere pone il suo Vulcano e Marte.

Vedremo meglio in 1.2.5 come si articoli la semantica di Adone in quanto ‘bello’; in queste considerazioni liminari mi preme solo evidenziare come una comprensione anche superficiale di una realtà mitica non possa prescindere dallo sguardo d’insieme sulle sue vicende tradizionali e sulle sue trasformazioni nella storia: spero in particolare di aver lasciato adeguatamente intuire come dietro alle nozioni più e-lementari (“il mito di Adone parla della bellezza”) ci sia in realtà un magma di signi-ficati molto più complesso, che è appunto scopo di questa indagine cercare di chiari-re.

0.3 IL METODO DELLA RICERCA

Estremamente difficile è scegliere il punto di vista da cui considerare un oggetto così frastagliato come il corpus adonio. Anche supponendo di poterlo definire uni-vocamente, esso conterrebbe comunque testi e dati talmente abbondanti e variegati da scoraggiare il più audace esploratore. Impensabile, perciò, la rassegna descrittiva: un simile approccio sarebbe forse ancora concepibile per tradizioni mitiche costituite principalmente dalle riscritture di un modello letterario eminente – e anche in quei casi è ben raro che una buona idea interpretativa generale compensi la fastidiosa im-pressione di affastellamento compilativo. Una rassegna analitica non permetterebbe comunque mai di valorizzare adeguatamente lo specifico della tradizione adonia, so-spesa tra realtà disomogenee come mito, rituale, allegoresi e stereotipo culturale. Questo saggio, perciò, aspira non tanto a inventariare e descrivere, quanto a mettere in luce linee di forza significative e chiaramente riconoscibili nel marasma di ripeti-zioni e variaripeti-zioni che costituisce il suo oggetto.

In primo luogo mi è sembrato utile introdurre una distinzione che potrebbe valere per ogni mito, ma che è fondamentale per quello di Adone; è bene infatti riferirsi, nella ricognizione fenomenica della materia, a tre forme principali di tradizione: nel-la prima, che chiameremo ‘diegematica’, a essere trasmesso è il mito come narra-zione, essenzialmente nelle riscritture di modelli letterari. Nella seconda, che

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chia-meremo ‘emblematica’ (con intenzionale allusione alla voga degli emblemi poetici inaugurata in Europa dagli Emblemata di Andrea Alciato, 1531-1534), Adone non è più personaggio di una storia, ma figura a se stante, una figura che viene trasmessa con la fisionomia appunto di un simbolo isolato, e comunque estrapolata dalla sua vicenda mitica (sottintesa nel contesto dell’allusione). L’Adone della tradizione die-gematica è ancora il personaggio di una storia, anche se diversa nei dettagli da quel-la raccontata da Ovidio o da Paniassi; l’Adone emblematico è invece solo un’etichetta, un segno, di cui sopravvivono (vedremo meglio in 1.2.5 con quale in-credibile varietà) quasi solo gli aspetti connotativi. La terza forma di tradizione ri-manda invece agli archetipi dell’immaginario (in senso principalmente junghiano), rispetto ai quali un mito è solo un caso particolare, un’attuazione storicamente e te-maticamente determinata di costanti simboliche e strutturali più profonde.

La distinzione di questi tre piani della tradizione è fondamentale soprattutto per quanto riguarda il metodo della ricerca: a ciascuna modalità di trasmissione corri-sponde infatti un approccio metodologico capace di valorizzarne al meglio alcuni aspetti. I modi della trasmissione diegematica, ad esempio, si prestano soprattutto a un’indagine filologica e storico-letteraria, tale da mettere in luce (in una prospettiva storicizzata) il concatenarsi degli eventi culturali che hanno dato luogo alle trasfor-mazioni del mito nelle sue riscritture letterarie. La tradizione emblematica costitui-sce invece un oggetto coerente con le coordinate metodologiche della tematologia. Non voglio riprendere qui il complesso dibattito sulla definizione di ‘tema’ e ‘moti-vo’ letterari (una chiara esposizione in Giglioli 2001; per una riflessione a più voci sullo stato dell’arte nel campo della critica tematica si veda invece il numero 58, 2009, della rivista «Allegoria»), né soprattutto la questione di fino a che punto un personaggio del mito si possa considerare equivalente a un tema letterario (le posi-zioni in merito vanno dal sì senza riserve della scuola di Raymond Trousson al no della scuola comparatistica italiana; si veda in particolare Ceserani 2009). Mi basta qui constatare come il personaggio mitologico nella sua versione emblematica, cioè privato della sua consistenza di attore narrativo, si presti di fatto a essere indagato come un tema letterario. Il punto più delicato sta piuttosto, a mio giudizio, nella di-stinzione fra la tradizione emblematica e la tradizione archetipica di un mito, spesso

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confuse o considerate indistinguibili. La mia opinione è che invece sussista una pre-cisa differenza: nella tradizione emblematica, l’oggetto della trasmissione è il perso-naggio mitologico o letterario come figura sintetica, intenzionalmente ed esplicita-mente richiamato da un artista, che lo desume dall’enciclopedia culturale condivisa; nella tradizione archetipica, invece, la continuità non riposa più su forme di ripresa esplicite e intenzionali. L’intentio auctoris non può mai essere esclusa, ovviamente (soprattutto da quando si è cominciato a esplorare i territori del folklore, dell’antropologia o della psicologia del profondo), ma in linea di massima una lettu-ra archetipica tenderà a privilegiare situazioni in cui riemergono con continuità le stesse concatenazioni narrative o funzionali anche in assenza di un riferimento e-splicito a un mito o di una dipendenza testuale direttamente dimostrabile (gli aspetti archetipici del mito di Adone sono presentati meglio oltre, in 1.2.6). Nel corso della sua amplissima disseminazione emblematica, la figurina di Adone, con l’etichetta in bella vista, tende a decorare i più svariati ambienti – letterari e non – più o meno immemore delle vicende vissute in tanti testi poetici antichi e moderni; nella pro-spettiva della critica archetipica, invece, Adone si ritrova accanto Titono, Meleagro, Endimione, e poi ancora Odisseo, Rinaldo e Tannhäuser, ma anche Julien Sorel o addirittura personaggi di fiabe come Hänsel und Gretel, che pure hanno ben poco a che vedere con Adone nelle sue attestazioni storicamente determinate (lo vedremo in dettaglio nei capitoli 2 e 3).

L’aspetto più specifico nell’impostazione metodologica di questo studio consiste appunto nel rifiuto di un’indagine basata sull’approfondimento più o meno erudito della tradizione diegematica: in un corpus eterogeneo e caotico come quello adonio, mi sembra infatti che solo le prospettive della critica archetipica, capaci di cogliere le strutture profonde di un mito sul piano delle costanti antropologiche o psicologi-che, possano garantire risultati di un certo interesse in termini generali. Ciò che spe-ro di mostrare è che anche l’indagine di realtà peregrine e avulse dalla cultura con-divisa ha ricadute importanti in termini di comprensione del mondo anche sul piano dell’esperienza comune. L’interpretazione archetipica dei miti e delle loro trasfor-mazioni letterarie mette infatti in evidenza strutture elementari della cultura che non si limitano a illustrare come vari poeti pensano un certo personaggio: a essere

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map-pato dalla scomposizione analitica dei miti e delle loro costanti strutturali è il reper-torio stesso di possibilità con cui noi immaginiamo e conosciamo il mondo – con cui noi, in ultima analisi, pensiamo noi stessi. Lo studio della tradizione dei miti, perciò, è come un’indagine storica su fenomeni di longue durée (alludo ovviamente al ples-so di problemi metodologici discusples-so in Braudel 1958), e può condurre alla cono-scenza di nuclei elementari del significato, che agiscono nell’immaginario (e di con-seguenza nella storia) a un livello universalmente diffuso e straordinariamente ele-mentare, un livello che non mi sembra azzardato accostare a quello che la biochimi-ca riveste per la comprensione della fisiologia. L’analisi archetipibiochimi-ca dei miti può in-somma contribuire in modo significativo a comprendere i principi, i contenuti, le co-stanti di una vera e propria ‘biochimica’ della cultura.

L’orientamento in prevalenza archetipico non mi impedirà peraltro di far ricorso a uno strumentario critico eclettico, a seconda delle peculiarità dei problemi specifici che mi troverò ad affrontare. A un primo livello, ovviamente, mi servirò di strumenti della semiotica, della linguistica e della critica letteraria (per quanto variegati siano gli ambiti in cui proliferano le reincarnazioni di Adone, i principali sono pur sempre quelli della letteratura e delle arti figurative). Anche le discipline storiche, beninteso, sono un importante ambito di riferimento sul piano del metodo, visto che nella loro forma più generale i problemi qui affrontati sono di ordine storico-culturale. Tutta-via, dialogare con i principali interpreti del mito di Venere e Adone rende ineludibile collocarsi, in modo anche solo intermittente, in una prospettiva antropologica e sto-rico-religiosa. Va da sé, infine, che lo sforzo di generalizzazione che caratterizza questo studio, e che ho voluto attento soprattutto alle costanti della coscienza indivi-duale e collettiva, mi è sembrato del tutto impraticabile senza un continuo rimando all’orizzonte della psicanalisi, in primo luogo junghiana. Questo non toglie che al-cuni aspetti dei problemi così impostati si lascino analizzare in modo ancora più convincente con strumenti della psicologia sociale e della filosofia in senso lato (spunti di rilievo mi derivano da Giorgio Agamben, 1977, e da René Girard, 1961), in particolare nelle accezioni più attente alle morfologie dei ruoli di genere (una li-nea di pensiero che parte almeno da Foucault e si dirama, in una costellazione di teo-rici più o meno incisivi, nell’attuale dibattito della teoria queer).

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Lo stato dell’arte offre purtroppo un ben gracile supporto: nonostante l’ampia va-rietà di studi sull’Adone semitico o classico (su cui vd. oltre, 1.3), la fortuna moder-na del mito non è mai stata oggetto di reali tentativi di interpretazione: al di là di saggi comparatistici ma limitati a un singolo contesto (Cebrián 1988, che approfon-disce relativamente al personaggio di Adone le ricerche a tutto campo di Cossío 1952), la sola monografia a me nota sul tema (Tuzet 1987) è uno studio parziale e ingenuamente compilativo che considera le sole letterature francese, inglese, italiana e spagnola, e il cui contributo critico si esplica, oltre che nella ricognizione dei prin-cipali filoni tematici, in diligenti florilegi o sommari delle opere, come quello cui si riduce quasi interamente, ad esempio, l’analisi dell’Adone di Marino (pp. 172-186). Molto più utile l’antologia commentata di Geoffrey Miles (1999), che esplora la pre-senza di Adone nella letteratura inglese da Edmund Spenser (1552?-1599) a Ken-neth Rexroth (1905-1982). Benché informati e precisi, tuttavia, anche i ragguagli di Miles non mirano all’interpretazione complessiva del fenomeno, limitandosi a espli-citare le tappe principali della sua scansione cronologica. Questi sono d’altronde i limiti strutturali delle antologie, come quella peraltro molto pregevole di Andrea Torre (vol. 1, 2009) e Stefano Tomassini (vol. 2, 2010), che ha il merito, tra gli altri, di riproporre al lettore moderno testi della tradizione diegematica italiana dal 1532 al 1898. I limiti nazionali sono trascesi, ovviamente, nelle voci di taluni dizionari (Mo-ormann-Uitterhove 1987; Weiser 2008; Grafton-Most-Settis 2010 – si noti peraltro la significativa assenza della voce Adonis dai repertori di Elisabeth Frenzel, 1962 e 1976), il cui scopo si limita peraltro, com’è ovvio, a fornire una lista più o meno la-cunosa delle principali trascrizioni del mito insieme a un semplice orientamento complessivo.

Nella mia esposizione del problema ho dunque rinunciato all’opzione, più lineare ma a mio giudizio meno produttiva, di un’analisi del corpus condotta sulla base di parametri meramente cronologici o storico-culturali. Anche una tassonomia degli aspetti formali delle attestazioni del mito non mi è sembrata essenziale per la com-prensione della sua fortuna moderna, per quanto di certo se ne potrebbero ricavare spunti interessanti. Il discorso articolato in questa dissertazione rimanda principal-mente, nelle sue linee più generali, alle prospettive della critica archetipica e il suo

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svolgimento si limita a riflettere, nel modo più stringente, la struttura argomentativa della mia interpretazione, di cui i vari capitoli approfondiscono singoli tratti. Questo non significa che la componente descrittiva sia completamente eliminata: per rende-re più chiaro il percorso seguito, e fornirende-re al lettorende-re tutti gli elementi utili a farsi un’idea della materia, l’intero primo capitolo (Adone: mito, rito, tradizione) è dedi-cato a una presentazione generale del corpus adonio. In esso vengono in primo luo-go sintetizzate, com’è ovvio, le testimonianze antiche su Adone (1.1), mentre i para-grafi seguenti illustrano le principali direzioni in cui ha avuto luogo l’irraggiamento tradizionale, diegematico e emblematico (1.2), e il ruolo che in esso hanno svolto al-cune interpretazioni antiche e moderne di particolare rilievo (1.3).

Gli aspetti specifici della mia interpretazione vengono enunciati invece a partire dal capitolo successivo, nel cui primo paragrafo (2.1 La tradizione adonia come scontro di paradigmi) è esplicitata la tesi di fondo del mio lavoro. Anni di studio di questo mito nelle sue più varie attestazioni mi hanno infatti convinto che, nell’apparente caos di testi antichi e moderni di culture e lingue diverse, si possa comunque riconoscere una direttrice profonda in termini di scontro di paradigmi: a contrapporsi sono una matrice ‘orientale’ del mito, segnata dalla verticalità del rap-porto fra la Grande Dea col suo paredro-oggetto, e una versione ‘sentimentale’, che ha il suo archetipo nelle Metamorfosi di Ovidio e che si fonda sulla riduzione della componente ‘matriarcale’ in favore di un maggiore ‘naturalismo’ psicologico della rappresentazione – vale a dire di una maggiore congruenza della rappresentazione con una visione del mondo presupposta o proposta come naturale. In termini di sto-ria della cultura la possibilità di individuare un fronte di conflitto è un dato di grande rilievo, perché permette di intuire, dietro alle inevitabili trasformazioni dei miti, al-cune delle motivazioni funzionali che le determinano. Nel caso specifico del mito di Venere e Adone, è la tensione che sussiste tra i suoi due diversi profili a permettere di leggere nella versione ‘sentimentale’ i connotati di un adattamento normalizzante rispetto alla versione ‘orientale’: secondo i parametri della mia analisi, infatti, l’Adone ‘sentimentale’ di Ovidio e dei suoi eredi ha il vantaggio non piccolo di for-nire una versione del mito più compatibile con il punto di vista maschile, in un’episteme, come quella dell’Occidente classico e postclassico, segnata con

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co-stanza (nella Roma di Ovidio e poi più volte nell’Europa moderna) dalla necessità di ribadire i fondamenti del proprio assetto patriarcale.

Di questa tesi generale i capitoli di questo saggio articolano i principali momenti, ricavando le prove per argomentarli da testi sia antichi che moderni, volutamente af-fiancati e giustapposti con l’enfasi non tanto sulle loro specificità storico-culturali quanto su affinità simboliche e di struttura. Il primo livello dell’argomentazione consiste nel mettere in evidenza come il rapporto di coppia tra Afrodite/Venere e Adone sia ripetutamente connotato, nel corso della tradizione, come una relazione madre/figlio; nel capitolo secondo si mostra appunto come questa ambiguità conno-tativa sia documentabile in testi sia antichi (2.2) che moderni (2.3). La dinamica del rapporto che Adone intrattiene con questa madre-amante è approfondita nel capitolo terzo, dove il discorso si allarga a un’esplorazione panoramica della prevalenza femminile (erotica e materna) e delle sue demonizzazioni culturali (3.1 e 3.2). In questa prospettiva la fisionomia di Adone trova posto come caso particolare di una struttura archetipica molto più ampia, che si può ricondurre agli archetipi junghiani della mater e del puer e che qui abbiamo esplorato circoscrivendo il discorso alla si-tuazione narrativa dell’‘eroe nel giardino’ (3.3) – una struttura grazie alla quale è possibile mettere a fuoco, in primo luogo, alcuni dei parametri cruciali per la defini-zione culturale della maschilità (3.4 e 3.5).

Il quarto e ultimo capitolo illustra infine in che modo la dinamica di amore e po-tere messa in luce nel rapporto ‘ideale’ tra Venere e Adone abbia finito per essere riscritta, nel corso della tradizione, nei termini (in apparenza irrelati) di un discorso prevalentemente teorico sul bello. Questa deriva è tale solo in superficie; di fatto, l’insistenza sulla ‘bellezza’ di Adone, che finisce negli ultimi secoli per essere sem-pre più spesso assimilata alla bellezza di un’opera d’arte, si può leggere come una strategia indiretta di dicibilità, che permette, attraverso il segno ‘bellezza’, di signi-ficare l’impossibile culturale di un corpo maschile connotato in prevalenza come oggetto passivo di desiderio (4.1). La bellezza del corpo di Adone come straordina-rio oggetto d’arte è l’ultimo livello della inevitabile reificazione cui esso va incontro per effetto dello sguardo e del desiderio dominatore della dea. Un’analisi contrastiva dei miti di Adone e di Pigmalione illustra le specificità di genere dell’eros reificante

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(4.2), mentre un ultimo paragrafo esplora l’accezione ulteriore della statua bellissi-ma come segno di un’idealità estetica inautentica e isterilita.

Come si intuisce, alcuni sviluppi del mito, anche importanti (come il nesso tra sentimento amoroso e memoria culturale riconoscibile nelle attestazioni del com-pianto funebre della dea su Adone morto), risultano marginali rispetto alla mia im-postazione del discorso. Di essi farò qui parola, perciò, solo per brevi accenni, riser-vandomi di tornare sul tema in altra sede – troppo più importante mi sembra garanti-re qui l’unità tematica rispetto al principale fuoco di integaranti-resse (gli aspetti ‘matriarca-li’ del mito), che impone di esplorare prioritariamente la fisionomia del rapporto amoroso del ragazzo con la dea.

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1 ADONE: MITO, RITO, TRADIZIONE

1.1 LE FONTI ANTICHE

Visto di lontano, il mito di Adone è uno dei più insipidi e poveri di eventi dell’intero repertorio antico (come ammette lo stesso Giovan Battista Marino, «la favola è alquanto povera d’azioni»).5 In realtà, è soprattutto l’attrito della tradizione

che ha finito per trasformarlo in una semplice storia d’amore, banale come la trama di Love Story di Erich Segal: lui e lei si amano felicemente, finché un destino avver-so li separa (il fatto che in Segal non sia il marito ricco ma la moglie povera a morire è solo segno del fatto che la trama di Love Story è conforme a standard di normaliz-zazione culturale ben più radicali di quelli in opera nella tradizione adonia – ma di questo oltre). Se si avvicina la lente, si scopre, al contrario, un sorprendente prolife-rare di dettagli disparati, che rende ardua l’impresa di organizzarli in una sintesi non troppo sovraccarica. Proviamoci comunque: le prime attestazioni greche del mito (in frammenti o testimonianze di Esiodo, Paniassi, Antimaco) insistono nel collocarlo fuori dalla Grecia, in Oriente (Fenicia, Assiria, talora con la tappa intermedia della Cilicia).6 Solo a partire dal tardo V secolo a.C. (Platone comico) è attestata la

collo-cazione cipriota poi canonica; non a caso Cipro è il principale luogo di incontro fra il mondo semitico e la civiltà greca, e la prevalenza di Afrodite tra i culti dell’isola avalla le ipotesi di continuità culturale che autorizzano a cercare nelle civiltà medio-rientali antenati o corrispondenti locali di Adone. Il nome stesso dell’eroe, del resto, depone in favore della continuità, anche se non chiarisce da solo le forme della tra-smissione (secondo Ribichini 1984, ad esempio, Adone non è un adattamento di modelli preesistenti ma un costrutto culturale che dà forma mitica a una serie di

pre-5 Citazione da una lettera in Torre 2009, p. 13.

6 Le fonti antiche sul mito di Adone sono raccolte in Roscher 1884, Dümmler 1893; un

elen-co, con qualche lacuna, in Atallah 1966, pp. 337-341. Le fonti sui possibili paralleli orientali di Adone sono invece raccolte e discusse in Baudissin 1911, Eissfeldt 1970 e, con importanti inte-grazioni, in Burkert 1979, pp. 169 sgg.

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giudizi greci sull’uomo micrasiatico). Peraltro Adone si chiama così solo nei culti libanesi, mentre nella più antica civiltà assiro-babilonese il giovane paredro mortale della grande dea Ištar ha nome Tammuz (al centro di una celebrazione ricordata an-che nel Libro di Ezechiele), a sua volta erede del sumero Dumuzi, amante della dea Inanna.7

Nelle più antiche versioni greche del mito (la più articolata è in Paniassi, proba-bilmente dal poema Ioniká, e ci è nota solo come riassunto in un compendio mitolo-gico di età imperiale, la Biblioteca erroneamente attribuita nei manoscritti al gram-matico Apollodoro di Atene, 3.14.4) si insiste sulla nascita di Adone dalla principes-sa Smirna, che lo concepisce col proprio padre Teante (Fenice in Esiodo, Cinira nel-la maggior parte delnel-la tradizione) a causa di un innamoramento irresistibile spiegato di solito come punizione di Afrodite (ma in Antonino Liberale, Metamorfosi 34 il dato della punizione è assente). Smirna partorisce Adone mentre cerca di sfuggire al padre, che dopo aver scoperto il misfatto la insegue per castigarla. Su preghiera di Smirna, gli dei la trasformano nell’albero della mirra, e la nascita del bambino dal

7 Atallah 1966, p. 17 dubita del parallelismo Adone-Dumuzi in quanto privo di continuità

onomastica e non sostenuto da sufficienti analogie nella vicenda. In realtà una lettura del poema sumero mostra come i percorsi di Inanna e di Afrodite siano funzionalmente molto simili, o si possano analizzare come espressioni diverse di identici fattori. Per fare solo un esempio, si pen-si alla componente ctonia del mito di Dumuzi narrata nel poema sumero La discesa di Inanna

agli inferi (attestata a partire dal XXIII sec. a.C. circa): la dea Inanna decide di far visita a sua

sorella Ereškigala, regina degli inferi (un evidente parallelismo della coppia Afrodite/Persefone, ovvero della doppia natura originaria di Afrodite), ma le sue intenzioni sospette sono neutraliz-zate dai custodi dell’oltretomba, che le fanno deporre un attributo del suo potere a ciascuna del-le porte che la dea deve attraversare. Giunta presso la sorella, Inanna è ormai inerme e costretta a restare negli inferi per sempre, a meno di non cedere a Ereškigala qualcuno che prenda il suo posto. Ed ecco che alla dea, fra i tanti suoi adepti o fedeli, viene in mente di spedire dalla sorella infernale proprio il suo amante Dumuzi, con il pretesto di non averlo trovato abbastanza afflitto per la sua assenza. Nonostante le riserve di Atallah, a me sembra che la cessione di Dumuzi a Ereškigala anticipi chiaramente, svelandone forse anche molti impliciti altrimenti incomprensi-bili, l’alternanza Afrodite-Persefone nella versione greca del mito. Vd. anche Burkert 1979, pp. 176-181.

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tronco spaccato (in alcune fonti è addirittura la spada del padre a fendere la corteccia nel momento del parto-metamorfosi) assimila ipso facto il neonato al ‘frutto’ di quell’albero, una delle resine aromatiche simbolicamente e praticamente più impor-tanti delle antiche culture mediterranee.

La vita di Adone si articola in due episodi principali, attestati da tradizioni per lo più separate: il primo è presupposto o evocato da molte fonti in accenni cursori,8 e

viene narrato nel modo più completo a noi noto nel già citato manuale dello pseudo-Apollodoro (3.14.4 [183-185]): Ησίοδος δὲ αὐτὸν Φοίνικος καὶ ’Αλϕεσιβοίας λέγει, Πανύασσις δέ ϕησι Θείαντος βασιλέως ’Ασσυρίων, ὃς ἔσχε θυγατέρα Σµύρναν. αὕτη κατὰ µῆνιν ’Αϕροδίτης (οὐ γὰρ αὐτὴν ἐτίµα) ἴσχει τοῦ πατρὸς ἔρωτα, καὶ συνεργὸν λαβοῦσα τὴν τροϕὸν ἀγνοοῦντι τῷ πατρὶ νύκτας δώδεκα συνευνάσθη. ὁ δὲ ὡς ᾔσθετο, σπασάµενος <τὸ> ξίϕος ἐδίωκεν αὐτήν· ἡ δὲ περικαταλαµβανοµένη θεοῖς ηὔξατο ἀϕανὴς γενέσθαι. θεοὶ δὲ κατοικτείραντες αὐτὴν εἰς δένδρον µετήλλαξαν, ὃ καλοῦσι σµύρναν. δεκαµηνιαίῳ δὲ ὕστερον χρόνῳ τοῦ δένδρου ῥαγέντος γεννηθῆναι τὸν λεγόµενον ῎Αδωνιν, ὃν ’Αϕροδίτη διὰ κάλλος ἔτι νήπιον κρύϕα θεῶν εἰς λάρνακα κρύψασα Περσεϕόνῃ παρίστατο. ἐκείνη δὲ ὡς ἐθεάσατο, οὐκ ἀπεδίδου. κρίσεως δὲ ἐπὶ Διὸς γενοµένης εἰς τρεῖς µοίρας διῃρέθη ὁ ἐνιαυτός, καὶ µίαν µὲν παρ’ ἑαυτῷ µένειν τὸν ῎Αδωνιν, µίαν δὲ παρὰ Περσεϕόνῃ προσέταξε, τὴν δὲ ἑτέραν παρ’ ’Αϕροδίτῃ· ὁ δὲ ῎Αδωνις ταύτῃ προσένειµε καὶ τὴν ἰδίαν µοῖραν. ὕστερον δὲ θηρεύων ῎Αδωνις ὑπὸ συὸς πληγεὶς ἀπέθανε.

Esiodo dice che Adone era figlio di Fenice e di Alfesibea, Paniassi lo dice figlio di Teante re degli Assiri. Teante aveva una figlia, Smirna. Afrodite, irata perché la fanciulla non la onorava, fece sì che si innamorasse del padre ed essa, con la complicità della

nutri-8 Probo nel suo commento a Virgilio, Bucoliche 10.18 (che è tra le principali fonti sulle

per-dute versioni arcaiche e classiche del mito in opere di Esiodo, Paniassi e Antimaco); Luciano,

Dialoghi degli dei 11.1; ma anche fonti iconografiche, come ad esempio lo specchio etrusco di

Orbetello oggi al Louvre (inv. 1728; una riproduzione grafica in Atallah 1966, p. 291), che raf-figura il momento dell’arbitrato di Zeus tra Venere e Proserpina di fronte a una cassa chiusa. Un passo di Aristide Marciano di Atene, apologeta cristiano del II secolo (Apol. 11.3), allude alla discesa all’Ade di Afrodite, che cerca di recuperare Adone da Persefone che lo trattiene. Nella versione siriaca parallela del testo greco che ci è pervenuto, al nome di Adone corrisponde quel-lo di Tammuz.

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ce, per dodici notti andò a letto con lui, ignaro della sua identità. Quando se ne accorse, Teante prese la spada e si diede a inseguirla. Mentre stava per essere afferrata, Smirna pregò gli dei di renderla invisibile e gli dei ne ebbero pietà e la trasformarono nell’albero che si chiama ‘mirra’. Dopo nove mesi l’albero si aprì e diede alla luce Adone, che Afro-dite, a causa della sua bellezza, di nascosto dagli dei chiuse, ancora bambino, in una cassa che affidò a Persefone. Quando lo vide, Persefone non volle più restituirlo. Allora Zeus decise che l’anno fosse diviso in tre parti e stabilì che Adone ne trascorresse una per con-to suo, un’altra presso Persefone, la terza con Afrodite. Adone però dedicò anche la pro-pria parte di anno ad Afrodite. Più tardi, durante, una caccia, Adone fu ferito da un cin-ghiale e morì. (trad. M. G. Ciani, leggermente adattata)

Il secondo episodio saliente della vita di Adone si lega al primo con una concate-nazione non del tutto perspicua, come mostra la brusca transizione del mitografo («Più tardi»), che rivela la presumibile sutura tra fonti diverse (che per di più sem-brano conformi a due logiche diversissime del mito: da una parte Adone è ancora fi-gura cosmica, con un tempo ciclico e senza accadimenti; dall’altra è una persona umana che vive una storia d’amore dalla triste fine; sul tema si veda oltre, 1.1.2). In questo secondo ‘quadro’ Adone, ancora adolescente, amoreggia felice con Afrodite finché durante una caccia un cinghiale, presentato talora come esecutore di un piano di vendetta di altri dèi (Ares o Efesto gelosi, Apollo o Artemide adirati, addirittura le Muse), non lo azzanna all’inguine uccidendolo. Sul corpo del ragazzo ha luogo allo-ra la lamentazione rituale, che assume connotati di particolare stallo-razio e sensualità dal momento che a guidarla è la stessa dea innamorata. Un carme anonimo tardoan-tico incluso e conservato nel corpus Theocriteum (30, Sul corpo morto di Adone) ar-ricchisce questo momento del mito con una leziosa scenetta, in cui la dea fa cattura-re il cinghiale dagli amorini e gli chiede conto dell’uccisione del ragazzo. Il cinghia-le confessa di essersi innamorato di Adone e di averlo voluto «baciare» (φιλᾶσαι, v. 31 – un ‘bacio’ all’inguine, ovviamente), dimentico della possibilità di ferirlo con le «amorose zanne» (ἐρωτικοὺς ὀδόντας, v. 36): una confusione tanto infelice negli e-siti quanto poeticamente fortunata, se ancora secoli dopo Kleist potrà attualizzarne gli impliciti nella protagonista del Penthesilea, che ama e sbrana Achille: «So war es ein Versehen. Küsse, Bisse,/ Das reimt sich, und wer recht von Herzen liebt,/ Kann schon das eine für das andre greifen» («Dunque è stata una svista. ‘Bacio’ e ‘morso’

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fanno rima, e chi davvero ama dal profondo del cuore può ben confondere l’uno con l’altro», I, 2981-2983). Questa verità è intuita anche da Afrodite, che infatti finisce per ‘assolvere’ il cinghiale. Questo carme illustra l’uso tardoantico di rielaborare li-beramente, in chiave erotica, momenti particolari del repertorio mitico (un esempio in tal senso è l’Amore torturato di Ausonio, dove si menziona la morte in croce di Adone per una vendetta di Persefone). Dal punto di vista dei moderni, tuttavia, la durata più che millenaria della poesia classica viene tendenzialmente appiattita in una sintesi attenta molto più alla logica narrativa che alla compatibilità connotativa degli elementi combinati. Nella fortuna adonia, infatti, il carme Sul corpo morto di Adone viene spesso ripreso (in una linea che culmina nel poema di Marino) come necessario e ‘autentico’ epilogo narrativo della vicenda, invece che come idiosincra-tico e aberrante divertissement – quando l’amore del cinghiale per Adone non viene addirittura espanso e intrecciato in pregnante parallelo all’amore della dea, come av-viene in particolare, ben prima di Shakespeare, nell’epillio L’Adone di Giovanni Tarcagnota (1550, s. 26.1-4): «Ella [l’accesa bestia] li ficca quelli aguzzi denti/ Nel sommo de la coscia, e’l pone a terra;/ Perché così scemar crede i tormenti,/ Che li fanno nel cor sì cruda guerra».

1.1.1 I ‘GIARDINI DI ADONE’

Lo spazio che le fonti letterarie assegnano alla lamentazione corrisponde alla grande rilevanza che assume l’aspetto rituale nel caso di Adone: già la più antica at-testazione testuale, il fr. 140a V. di Saffo, si presenta come il segno della convergen-za fra produzione letteraria e occasione rituale (i due versi sono riconducibili a un lamento funebre intonato alternatim da un coro femminile e da una solista): «Dea di Cipro, il tenero Adone muore: cosa dobbiamo fare?» «Battetevi il petto, fanciulle, e strappatevi i chitoni!». Non il mito di Adone, ma il rito è infatti al centro di molte te-stimonianze di età classica, che permettono di ricostruire lo svolgimento della festa con una certa precisione, malgrado l’ampia rosa di varianti diatopiche e diacroniche (Winkler 1989). Nell’Atene del V-IV secolo a.C. l’evento non aveva carattere uffi-ciale, ma privato, e non comportava pertanto l’interruzione delle funzioni pubbliche (come si evince da Aristofane, Lisistrata, vv. 387-398). Durante il primo giorno ve-nivano celebrati gli amori di Adone e della dea in piccole adunanze domestiche a

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prevalente partecipazione femminile, mentre il giorno successivo era dedicato alle lamentazioni e al corteo funebre di Adone, svolti intorno a piccoli simulacri dell’eroe (Plutarco, Nicia 13.11; Alcibiade 18).

Un ruolo di rilievo nella celebrazione della festa spettava ai cosiddetti ‘giardini di Adone’, vasetti con sementi lasciate germogliare in casa per qualche giorno, che, se-condo le fonti ateniesi di epoca classica, venivano portati sui tetti delle case e poi, dopo il corteo conclusivo, gettati in mare o nelle fonti.9 È oggi opinione diffusa che i

giardini di Adone fossero in ultima analisi un simbolo di impermanenza, un monito contro la cattiva agricoltura, in quanto, a partire da Platone (Fedro 276b), essi ven-gono screditati come correlato di vacuità appariscente e inaffidabile (una vacuità si-gnificativamente associata alla bellezza in Gregorio di Nazianzo, Carmina moralia 888). Questa lettura di Platone non ha solo un’eco in numerose attestazioni antiche, ma viene ripresa e approfondita anche in tempi recentissimi, ad esempio nell’interpretazione di Marcel Detienne (Detienne 1972). In realtà, per quanto ri-guarda questo particolare aspetto della tradizione adonia, vorrei cogliere l’occasione per dissipare ora quello che mi sembra un equivoco millenario: la lettura che Platone dà di questo aspetto del rituale adonio va presa infatti a mio giudizio non come una testimonianza diretta del significato originario che il mito aveva nella Grecia classi-ca, ma come un esempio istruttivo delle evoluzioni semantiche che facili moralizza-zioni (le piantine veloci ma effimere come bello ma effimero è Adone), soprattutto se espresse da voci autorevoli, possono determinare nell’intero corso di una tradi-zione. Quella di Platone non è altro, secondo me, che un’esegesi secondaria, total-mente funzionale al discorso del personaggio di Socrate nel Fedro. Essa però è stata interpretata, nei successivi sviluppi della tradizione, come un carattere originario, come un tratto di significato intrinseco al significante ‘Adone’, finché non è stata re-cepita in tal senso anche dagli studiosi moderni. Quando Platone allude ai giardini di Adone, il topic del discorso non riguarda il mito o la festa di Adone e Afrodite, ma

9 Cfr. Platone, Fedro 276b; Teofrasto, Le cause delle piante 1.12.2; Menandro, La donna di

Samo 45; scolio a Teocrito 15.112-113. Una raccolta delle testimonianze iconografiche in

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