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2. IL TEATRO

2.3 PERCORSI

2.3.1 Donne

2.3.1.2 La donna che sta ferma

Nell’intervista già citata86 la Ginzburg afferma di descrivere, tra le altre donne, quella «che sta ferma, che passivamente aspetta la vita».

Si tratta di un’accettazione passiva che conduce, pian piano, alla disperazione. Questo stato di angoscia esistenziale nasce spesso dall’insoddisfazione di un rapporto d’amore non ricambiato. Più che trattarsi di una condizione inesorabile, questo tipo di sentimento scaturisce da un’incapacità di relazionarsi pacificamente con l’esistenza, che, a sua volta, dipende da una scelta: infatti, davanti alla scelta di continuare a crogiolarsi nella noia oppure di dare una sferzata alla propria vita, queste donne decidono per la prima. Così facendo sanciscono la propria rovina coltivando rapporti effimeri e costruendo alternative immaginarie in cui poter supporre di essere felici.

Flaminia, personaggio centrale di Fragola e panna, accetta un compromesso assurdo con il marito Cesare: continua a viverci insieme nonostante i continui tradimenti che lui fa alla luce del sole e giustifica definendo il rapporto con la moglie solo un’amicizia. La situazione sembra precipitare quando fa la sua comparsa Barbara, ultima amante di Cesare. Flaminia cede mettendo a nudo, pubblicamente, lo stato di mortificazione in cui vive:

FLAMINIA: […] io non sono né nobile, né buona. Non ho cuore. Mi sento il cuore secco, piccolo piccolo, una piccola prugna secca. E non è neanche vero che non sono gelosa di lei. Sono ferocemente gelosa di lei. Ma non per amor tuo. Sono 84 N. GINZBURG, Le scarpe rotte in Id., Un’assenza, cit. p.132

85 Ivi, p. 133

86 SANDRA BONSANTI, C’era una volta la famiglia, in «Epoca», XXVI, n. 1313, 6 dicembre 1975, pp.83-86

gelosa nel modo più vile. È una gelosia fatta di invidia, di vergogna, di mortificazione. Sono gelosa di lei, perché è giovane, e io non sono più tanto giovane. Perché lei ha un bambino, e io non ne ho. Perché lei ha un marito geloso, che vuole ammazzarla, e io invece ho un marito che se ne infischia di me. Perché lei è innamorata di te, chissà cosa vede in te, e io invece so quello che sei. Sei niente. Un uomo da niente. E io non ti amo più. Non ti voglio più nemmeno un po’ di bene. Non sei più per me un marito, e non sei nemmeno più un amico o un fratello. 87

Di pretesti per reagire ce ne sono tanti ma nemmeno dopo aver ammesso di non amare più Cesare, Flaminia riesce a modificare il proprio stato. Accetta sì, passivamente, le conseguenze di una scelta fatta in modo sconsiderato, ma con una lucidità terrificante ammette anche la sua impotenza di fronte alla prospettiva di cambiare direzione. La sensazione che dà la lettura di questo testo è quella di un’ansia che cresce fino a toccare l’apice con lo sfogo di Flaminia. Dopo questo exploit, ci si aspetterebbe un cambio di rotta; al contrario, l’energia vitale di Flaminia raggiunge l’acme e, nello stesso tempo, si consuma in quest’ammissione, se vogliamo, di colpa. Come in una crisi, Flaminia ha sputato fuori le verità del suo animo per ritornare, poi, alla dura realtà:

FLAMINIA: Avete un’idea strana della disperazione voialtri. Quando uno è disperato, magari non fa mica delle cose tanto diverse dal solito. Magari fa quello che ha fatto tutta la vita.88

L’amara constatazione acquista valore grazie all’utilizzo della forma rafforzata del pronome voi: in quel voialtri si erge, isolata, la figura di Flaminia. La donna, in modo cosciente e ragionevole, conosce la disperazione e cerca di spiegarla e di contrastarla con l’intelletto. Tuttavia, lo sforzo razionale di combattere il disagio, si rivela presto fallimentare. L’epilogo sarà una climax discendente in cui gli ultimi sprazzi di vita di Flaminia si ridimensionano per scadere poi nell’amara e brutale accettazione dell’abitudine come regola vigente. Quel tentativo di distinguersi si annulla automaticamente e il pronome voialtri perde valore nello sconforto che diventa terrore di smarrirsi al solo pensiero di dover cambiare:

FLAMINIA: E dove vado? io non so dove andare.

CESARE: Tu sei stanca, Flaminia. Sei stanca di nervi. E anch’io sono molto stanco. Potremmo prenderci un po’ di riposo. Fare una crociera. Sai, quando uno vuole veramente riposarsi, fa una crociera. È una cosa che giova alla salute. Si torna indietro freschi, disintossicati.

87 N. GINZBURG, Fragola e panna in Id., Tutto il teatro, cit. p. 131 88 Ivi, p. 133

[...]

FLAMINIA: E dove vado io? io no so dove andare.

CESARE: Flaminia! non farmi perdere la pazienza! rispondimi! Ti ho chiesto una cosa! Sembra che dai i numeri!

[...]

FLAMINIA: E dove vado? io non so dove andare.

LETIZIA: Flaminia. Cara Flaminia. Poverina. Non ti avvilire così. Guarda che faccia che hai. E sei tutta fredda, un pezzo di ghiaccio. Ma se non è successo niente. È tutto come è stato sempre. In questa nostra vita, è molto raro che succeda qualcosa di nuovo.

FLAMINIA: Sì. È rarissimo. E anche quando succede qualcosa di nuovo, la vita non cambia. Rimane com’è. Schifosa.89

L’affermazione io non so dove andare suona come una presa di coscienza da parte di Flaminia: la prospettiva di cambiamento si è palesata ai suoi occhi nella scelta di Barbara di lasciare il marito e in quella di Tosca, la donna delle pulizie, di lasciare il lavoro. Nella ripresa, in diversi tempi, della stessa battuta «E dove vado io? io non so dove andare» si nota la necessità di voltare pagina che Flaminia avverte impellente. Tuttavia resta immobile e, come dietro a uno schermo, guarda la sua vita passare convincendosi che «non cambia. Rimane com’è. Schifosa». In questo processo di straniamento tra i voialtri che additava con sufficienza sono inclusi anche coloro che, senza nessuna garanzia di successo, si illudono di poter aggirare la disperazione.

Ne La segretaria, Sofia vive una situazione simile: innamorata da sempre di un editore fallito, Edoardo, continua a lavorare per lui scrivendo traduzioni, senza remunerazione. L’intera vicenda si svolge intorno alla figura di Edoardo: oltre a Sofia, anche Silvana, la ragazza piombata in questa casa con la scusa di fare da segretaria a Nino, è innamorata di lui. Quello di segretaria è una copertura messa in atto da Nino ed Edoardo per proteggere Silvana dallo scandalo che avrebbe provocato la scoperta della relazione adultera tra la ragazza ed Edoardo. In questa confusione un nucleo familiare c’è: i coniugi Nino e Titina che danno, però, solo la parvenza di stabilità. Nino, infatti, è interessato più ai suoi cavalli che alla famiglia e Titina ne risente. Edoardo è un perfetto esempio di negatività ravvisabile sia nella descrizione fisica:

NINO: [...] piccolo, con quei lunghi capelli grigi riccioluti, col bavero del paltò consumato, la sua cravattina a farfalla. Quando parla ti agita le mani sotto il mento, 89 Ivi, pp. 133-134-135

sotto il naso, quelle mani fini, bianche, sempre un po’ sudicie perché non si lava mai. 90

che morale:

ENRICO: [...] Ma io lo credo invece una persona profondamente infelice. Credo che né la moglie, né la ragazza contino niente per lui. Credo che lui sia uno che si studia di fare la sua vita a pezzettini, la sua vita, la sua intelligenza, i suoi affetti. Giorno per giorno, lui li pesta, li straccia, li butta via. Ne fa strame91.

La sua negatività è così influente che la riflessione di Silvana sulla vita, in seguito alla notizia del suicidio di Edoardo, sembra riprendere i toni della descrizione del personaggio:

SILVANA: La vita è una cosa tanto brutta. Miserabile. Sudicia. Viene proprio voglia di morire92.

Nella scena così popolata, Sofia trascorre la sua vita alla scrivania: la sua figura è ritratta immobile , al telefono con l’amica Luisa, unico strumento che la lega al resto del mondo, e la macchina da scrivere, che la tiene legata ad Edoardo. Sofia vive in un mondo immaginario, forse l’unico nel quale riesce a provare una strana serenità: si nutre dell’affetto che prova nei confronti di Edoardo e della speranza di essere ricambiata.

Ciò che lega il profilo disperato di Sofia a Flaminia è la lucidità con cui, ragionando sulla propria vita, ammette la verità dei fatti. E ancora una volta l’accettazione passiva ha la meglio su un tentativo di svolta. Anche Sofia si interroga continuamente e cerca la verità, ma si smarrisce non appena comincia a concepire un’alternativa di vita migliore:

SOFIA: E allora? allora cosa faccio? Dove vado, Enrico? Forse quello che a me fa tanto orrore sono le cose reali. Forse io sono di quelle persone che odiano la realtà. Tu pensi che io sono così?

ENRICO: È possibile.

SOFIA: È possibile! è possibile, dici? Mi dici una cosa così spaventosa, come fosse niente? Sei un mio amico, hai affetto per me, siamo stati anche amanti, e mi dici una cosa tanto spaventosa?

ENRICO: Perché non devo dirti la verità? Non è la verità che vuoi? SOFIA: Dove vado, Enrico, dove posso andare?

ENRICO: Non lo so.

90 N. GINZBURG, La segretaria in Id., Tutto il teatro, cit. p. 165 91 Ivi, p. 166

SOFIA: Parlare con te è proprio come parlare col muro93.

E la considerazione finale è ancora una volta di una crudeltà agghiacciante: SOFIA: [...] La gente butta via la vita come se fosse un secchio d’acqua sporca. Mica solo Edoardo. Tutti, Luisa. Come se fosse un secchio d’acqua sporca. Siamo dei cani con la vita. La vita è cagna con noi e noi siamo dei cani con la vita. Mi sai dire perché, Luisa? Rispondimi. Accidenti, rispondimi. Parlare con te è come parlare col muro94.

Proseguendo in questa direzione merita particolare interesse la commedia

L’intervista, scritta nel 1988. Ciò che desta la curiosità del lettore è la struttura:

divisa in tre atti, la vicenda si protrae in un arco di tempo che dura undici anni. Questo periodo è scandito dall’incontro tra Marco, giornalista, e Ilaria. L’intervista che Marco vuole condurre è in realtà, come la definisce l’autrice, «un’intervista fantasma»95. Il destinatario sarebbe un uomo politico, Gianni Tiraboschi, compagno di Ilaria. La definizione intervista fantasma vuole focalizzare l’attenzione sull’intento reale della commedia: l’autrice, infatti, chiarisce che l’intenzione principale era quella che

«apparisse in qualche modo l’Italia di oggi, dove tutto si dissipa e muore e ciò che resta è il desiderio confuso di mettere in salvo qualcosa che è stato bello e nobile, qualcosa che è degno di sopravvivere alla dissipazione e alla distruzione» 96

In qualche modo il tentativo di salvare qualcosa c’è in tutte le commedie. Negli esempi precedenti Sofia e Flaminia cercano di tenersi strette i rapporti che, almeno idealmente, hanno costruito con i propri uomini. Qui, invece, l’unica cosa che sfugge alla forza distruttiva del tempo è il rapporto spontaneo e involontario tra Marco e Ilaria, nato dal pretesto di un’intervista. L’elemento forte in questo caso è Ilaria: immobile, è l’unico punto fisso in un universo in continuo movimento. Gianni Tiraboschi invecchia e si ammala; Stella, sorella dell’uomo, ha una relazione con Marco, conosciuto durante la prima visita di quest’ultimo a casa di Ilaria; la loro relazione poco duratura farà sì che i due intrattengano relazioni separate e Marco si sposi con Lucianella Calabrò, ex amante di Gianni

93 Ivi, p. 159 94 Ivi, p. 185

95 Testo firmato da Natalia Ginzburg per il programma di sala del Piccolo Teatro di Milano, in D. SCARPA, Apparato critico in N. GINZBURG, Tutto il teatro, cit. p.408

Tiraboschi, per poi restare vedovo. L’unica a dare l’impressione di non risentire del tempo che passa è Ilaria.

Il trascorrere degli anni, però, si avverte nelle visite puntuali di Marco, nella fatiscenza degli arredi domestici, nel racconto delle vite altrui. Il logorio del tempo che passa inesorabile sulla vita come se nessuno se ne accorgesse diventa cosa viva nella pagina. Senza ricorrere a didascalie descrittive, l’atmosfera tetra della stanza in cui avvengono gli incontri assume, infatti, un aspetto simbolico se rapportata alla sensazione di decadenza che pervade l’intera commedia:

MARCO: […] Strano, sono furioso perché non c’è Gianni, ma ritrovarmi in questa stanza mi fa piacere. Chissà perché mi fa tanto piacere. Non è mica una bella stanza. Le fodere delle poltrone sono in uno stato pietoso. Ci sono macchie di umido sulle pareti. Le tende sono strappate. Cosa ci vuole a ricucirle? Mia madre le avrebbe già ricucite97.

[…]

MARCO: C’è poco di cambiato, in questa stanza. Le tende hanno sempre l’orlo scucito, come tanti anni fa. Il fuoco nel camino è fiacco. Pure fa piuttosto freddo oggi, e c’è umido, anche se è primavera. La prima volta sono venuto d’estate, la seconda volta d’inverno, e adesso è primavera. La quarta volta verrò d’autunno. Quella macchia sul muro è diventata più gialla e più grande. Evidentemente piove dal tetto. Non hai soldi per fare aggiustare il tetto? Le poltrone hanno le molle sfondate. Il tappeto e le fodere sono logore. Io posso farti un prestito, se ne hai bisogno. 98

Contro lo scorrere inesorabile del tempo Ilaria si rifugia in questa stanza come in una capsula del tempo e diverse indicazioni fanno capire che vi trascorre la maggior parte delle sue giornate:

MARCO: […] Ho telefonato qui diverse volte, ma non rispondeva nessuno.

ILARIA: Io non lo sento il telefono. Suona di sotto e non lo sento da questa stanza.99 […]

MARCO: […] Com’è che la scritta «cani mordaci» non c’è più? ILARIA: Non so. Credo che il vento l’ha portata via.100

L’alternarsi delle quattro stagioni è un’ulteriore determinazione temporale che definisce il trascorrere del tempo. Senza contare poi, a proposito di simboli, la ricorrenza del numero quattro in simmetria con i periodi che scandiscono l’anno:

MARCO: Oggi è di scena il numero quattro. Viene fuori continuamente. Quattro sono le patate. Quattro le caciottine. Quattro quei bambini di Melbourne.

97 N. GINZBURG, L’intervista in Id., Tutto il teatro, cit. p. 211 98 Ivi, p. 222

99 Ivi, p. 207 100 Ivi, p. 211

STELLA: Quali bambini? ILARIA: Noi però siamo tre.

MARCO: No, siamo quattro. C’è con noi Gianni Tiraboschi. Gianni. È lontano, a Modena o a Milano o non so dove, ma io sento la sua presenza. Questa è la sua casa. Questa è la poltrona dove certo si siede sempre. Lui è qui101.

L’unica ad opporre resistenza è Ilaria. Il suo atteggiamento è controverso: è come se si aggrappasse a quello che ha costruito per non patire, poi, la disperazione di averlo perso. È lei stessa che lo ammette quando dice: «Le convivenze sono difficili. Ma sono molto difficili anche le separazioni»102. Il personaggio di Ilaria ricorda, a tratti, quello di Winnie che, in Giorni felici di Beckett, sepolta in un alto cumulo di sabbia, si aggrappa agli oggetti della sua quotidianità che tira fuori da una grossa borsa nera, per tenere in vita o poter rivivere, per qualche istante, un altro giorno felice.

Ilaria, nella sua immobilità, cerca insistentemente di tenere in piedi qualcosa per cui ne valga la pena: la passione per un lavoro, i rapporti casuali ma veri, il pretesto per cui tutto ciò sia reso possibile. Ilaria si batte fino in fondo perché l’intervista possa essere portata a termine e proprio quando non vi è più alcun senso, costringe Marco a farla:

ILARIA: [...] Non lo sapevi che le cose succedono sempre quando non le vogliamo più? Tu ora devi comportarti come se il tempo non fosse passato. Come se tu fossi quello che eri, un giornalista, e come se lui fosse quello che era «…» Così la gente lo ricorderà, Gianni Tiraboschi. Il famoso Gianni Tiraboschi. Uno dei meglio uomini che abbia avuto l’Italia103.

Comportarsi come se il tempo non fosse passato significa nutrire l’illusione che qualcosa si possa salvare: ed è l’unica cosa della commedia a restare in piedi. La Ginzburg stessa descrive L’intervista come una storia di sconfitti:

Il personaggio di Ilaria (Giulia Lazzarini) è nella commedia la figura che si rifiuta di accettare la distruzione. È un essere che sa conoscere la forza del dolore, del sacrificio e della dedizione. Il giornalista, Marco (Alessandro Haber) è un essere ingenuo, maldestro, con ambizioni ingenue, destinate a venir deluse sul nascere, ma è un essere dotato di pietà e all’ultimo anche capace di conoscenza adulta, sincera e veritiera della vita. Le figure che non compaiono mai sulla scena ma sono evocate di continuo – un uomo politico, le sue donne e le loro vicende – sono figure di sconfitti. L’intervista è una storia di sconfitti. Li salva e manda luce quello che

101 Ivi, p. 204

102 N. GINZBURG, L’intervista in Id., Tutto il teatro, cit. p. 199 103 Ivi, p. 229

ciascuno ha cercato di fare, anche se non può in alcun modo chiamarsi una vittoria. 104

Questo percorso conduce l’attenzione sul personaggio conclusivo della carriera artistica di Natalia Ginzburg: Fiorella, protagonista de Il cormorano, commedia scritta nel 1991, a pochi mesi dalla scomparsa della scrittrice.

Il titolo della commedia riprende un fatto di cronaca databile al 25 gennaio 1991: durante la guerra del Golfo sarebbe stato fotografato, a largo dell’Arabia Saudita, un cormorano vittima di una macchia di petrolio fuoriuscita dalla raffineria locale durante i combattimenti di quei giorni. Il cormorano diventò, in quegli anni, il simbolo della guerra che, in modo brutale, blocca l’evoluzione sociale e ambientale e congela i rapporti umani.

Nella commedia in questione, Natalia Ginzburg estende il simbolo inibitore del cormorano alla vita quotidiana. Fiorella, in un processo di identificazione, assume come connotati fisici e sociali gli stessi che segnano negativamente, veri e propri simboli, le sue condizioni: è senza lavoro, ha le mestruazioni e una vescica sul calcagno, è «impiastricciata»105, bloccata, stanca, vittima di una mentalità superficiale che logora i rapporti umani. Come ne L’intervista, anche in quest’ultima commedia è ravvisabile una critica sociale nei confronti di un mondo in cui nulla sopravvive e tutto si distrugge. In tre pagine la critica diventa feroce e concisa ma, come la protagonista, lucida e distaccata. Coerente fino in fondo, la Ginzburg, anche al termine della sua carriera, continua, sulla scia della memoria, a descrivere un vuoto. È il vuoto che scaturisce da un unico, inconfondibile, sentimento, la paura:

Lo smettere d’avere paura può significare, semplicemente, che la paura ci ha abbandonati; e che abbiamo in noi, al posto della paura, il vuoto. [...] Abbiamo, nel cuore, dolore, un ricordo straziante di quel tempo che eravamo così strettamente abbracciati alla vita, da temere di perderla; ma quel tempo ci sembra lontanissimo, noi siamo diventati altra cosa, siamo attoniti, prosciugati, spenti, vuoti di tutto se non di dolore; e il tempo della paura ci sembrava un tempo privilegiato, felice, la paura era bella, pulsava, tumultuava, rombava nel nostro sangue, nel nostro corpo che oggi è desolato, gelato e randagio, che si rannicchia contro un muro e non vuole nulla. 106

104 Testo firmato da NG per il programma di sala del Piccolo Teatro di Milano, in D. SCARPA, Apparato critico in N. GINZBURG, Teatro, cit. pp. 408-409

Figli di una generazione spaventata, nei personaggi della Ginzburg si riflette lo smarrimento di chi ha imparato a vivere nel terrore e ha insegnato la vita nell’unico modo che sembra possibile: attraverso la sofferenza. Ma quest’educazione alla vita va in direzione opposta rispetto alla situazione di benessere economico e sociale nella quale si ritrova a vivere la generazione descritta nelle commedie della Ginzburg. Il sentimento d’inadeguatezza che si riscontra nei caratteri smarriti e indifferenti potrebbe nascere proprio da una sorta di senso di colpa generazionale che, sentendosi il peso della sofferenza dei padri, riconosce in questa il proprio riscatto: «Tutti cerchiamo dei pretesti per soffrire»107, ammette Debora di Paese di mare, e ancora: «Anch’io li cerco. Li trovo, perché si trovano sempre. È l’unica cosa al mondo che si trova subito»108. Data la sofferenza come condizione inevitabile, la chiusura della commedia Paese

di mare risolve, in uno slancio lirico, le contraddizioni, definendo, una volta per

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