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3. LO STILE TEATRALE

3.1 IL LINGUAGGIO

Oltre all’analisi tematica, merita particolare attenzione lo studio, a prima vista distratto, che la Ginzburg ha dedicato allo stile da seguire nel redigere i copioni.

Per giustificare la definizione di distratto occorre una visione completa dei commenti autoreferenziali che la scrittrice ha registrato riguardo i personali avanzamenti nel mestiere di scrittore. Infatti, nei suoi scritti, preferisce dare un’immagine di sé come di una persona pigra, non amante della musica né del teatro, ma cosciente del fatto che la scrittura, nient’altro, sia il suo mestiere. Come tale l’unica prospettiva da raggiungere è la rappresentazione della poesia del mondo in rapporto alle complicazioni che sorgono nel momento in cui ci si scontra con l’effettiva natura umana. Le storie della Ginzburg si risolvono così in un concentrato di nostalgia e memoria e l’ansia e la paura che la verità della vita porta a galla connota i personaggi che si perdono nella ricerca della felicità. Amante del vero, la Ginzburg orienta la sua ricerca in questa direzione seppure «nel momento che vuole raccontare il vero, si perde a contemplarne la violenza e l’immensità».145

La passione per il suo mestiere nasce, dunque, dalla consapevolezza che la bellezza della vita sta proprio nella convivenza delle contraddizioni:

la bellezza poetica è un insieme di crudeltà, di superbia, di ironia, di tenerezza carnale, di fantasia e di memoria, di chiarezza e d’oscurità e se non riusciamo a ottenere tutto questo insieme, il nostro risultato è povero, precario e scarsamente vitale.146

Questo rappresenta il traguardo ultimo della ricerca stilistica della Ginzburg. Ripercorrendo all’indietro le tappe di questo percorso ci si ritrova faccia a faccia con una giovanissima Natalia che, alla tenera età di diciassette anni, già rifletteva

145 N. GINZBURG, Ritratto di scrittore in Id., Mai devi domandarmi, cit. p. 209 146 N. GINZBURG, Il mio mestiere in Id., Le piccole virtù, Opere, cit. p. 852

sulla propria capacità di rappresentare il vero, ben consapevole del fatto che la scrittura fosse la sua vocazione. Si evince un’ insicurezza, legata all’età adolescenziale, che tocca diversi punti: lo status sociale, la sua appartenenza al sesso femminile, la paura di scrivere per caso. L’inadeguatezza è il sentimento principale che la Ginzburg avverte nell’accostarsi ai primi tentativi di scrittura: avrebbe preferito far parte di un altro ambiente sociale che non fosse la borghesia perché troppo sterile dal punto di vista dell’invenzione poetica; desiderava a tutti i costi scrivere come un uomo per paura di essere “attaccaticcia e sentimentale”,147

prerogativa decisamente femminile; avrebbe voluto poter descrivere paesaggi lontani da quelli a lei consueti perché l’ombra di Cechov, suo nume, era determinante per «imparare il modo di condurre e articolare una storia, il modo di maneggiare e illuminare la realtà»148.

È evidente, anche nelle riflessioni giovanili, il costante riferimento ai modelli letterari prediletti e lo studio minuzioso volto a trascrivere sulla pagina il rapporto fisiologico che la Ginzburg vuole intrattenere con il mondo. Questa costante si riflette anche e soprattutto nel linguaggio che si caratterizza per un’estrema precisione realistica e un andamento semplice e colloquiale.

La tendenza al realismo resta tale anche nella scrittura teatrale. Si può affermare con certezza che la Ginzburg non è rimasta estranea al fermento culturale che, negli anni Sessanta del Novecento, si è sviluppato in Italia. Tale fermento che, come è stato già discusso, ha interessato una revisione del sistema teatrale tradizionale, non ha tralasciato la questione linguistica. Occorre precisare che il dibattito sulla lingua italiana è stato sempre un punto fisso nella cultura del nostro paese e tuttora non è fermo. Tuttavia, in coincidenza con l’esordio teatrale della Ginzburg, un articolo pubblicato da Pasolini il 26 dicembre 1964 su «Rinascita» ha destato parecchio scalpore tra le fila degli intellettuali e linguisti che operavano in quel periodo. Con il suddetto articolo, intitolato Nuove questioni linguistiche149,

Pasolini intendeva condividere la recente conclusione del suo studio mirato ad 147 N. GINZBURG, Nota in Id., Opere, cit. p. 1121

148 Ivi p. 1118

149Per il dibattito scaturito dalla pubblicazione dell’articolo di Pier Paolo Pasolini cfr. O. PERLANGÉLI, La nuova questione della lingua, Paideia Editrice, Brescia, 1971

individuare la nuova lingua nazionale. Fedele alla logica marxista, secondo Pasolini, la nascita di un italiano medio fruibile dall’intera popolazione coinciderebbe con la nascente tecnocrazia del Nord Italia che, secondo le strutture neocapitaliste, avrebbe influenzato la lingua italiana caratterizzata, finora, da un’entità dualista: italiano letterario e insieme di varietà regionali e dialetti che vanno sotto l’etichetta di koinè. Le reazioni, contrarie alla provocazione di Pasolini, ne registrano piuttosto l’inattendibilità. Sta di fatto, però, che l’alto numero di intellettuali che hanno partecipato alla difesa della lingua nazionale è la spia del fatto che la questione fosse avvertita con una certa urgenza.

Seppure non ci sia alcuna riflessione diretta della Ginzburg, è chiaro che la questione non le fosse del tutto indifferente. Nella già citata intervista con Manlio Cancogni, datata 1968, che riprende quella del 1965 pubblicata da «Sipario» nell’ambito dell’inchiesta Gli scrittori e il teatro, alla domanda «In Italia non c’è teatro. Da che cosa dipenderà?»150, la Ginzburg risponde:

Ginzburg – Penso che sia per il linguaggio. Noi italiani siamo poco familiari con il linguaggio parlato. E invece per il teatro è necessario. Dopo l’invito dell’Asti mi provai con una commedia. Fu una falsa partenza. Però mi resi conto che il linguaggio dopotutto non era l’ostacolo che immaginavo. Veniva abbastanza naturalmente, senza sforzo.151

La dichiarazione sulla naturalezza del linguaggio parlato è frutto di uno studio personale che viene da lontano. Nella classificazione che Pasolini ha fatto degli scrittori del Novecento, la Ginzburg rientrerebbe tra quelli che lui chiama della

nostalgia:

(nostalgia linguistica, s’intende): Cassola, Bassani, ne sono i più tipici. Essi mescolano allo stile sublimis, fondamentale alla loro ispirazione elegiaca e civile, una lingua parlata come lingua dei padri (naturalmente borghesi) che, visti nella luce della memoria si nobilitano, diventano oggetto di récherche: e con essi si nobilita la loro lingua parlata, quell’italiano medio, che dopo averli respinti da sé – per una violenta protesta storica e ideologica, mettiamo l’antifascismo – li richiama col fascino di un luogo promesso e perduto, una normalità poetica in quanto struggentemente ontologica.152

150 N. GINZBURG nell’intervista diretta da M. CANCOGNI, L’ho sposato per obbligo. Conversazione con Natalia Ginzburg, in «La Fiera letteraria» XLIII, n. 25, 20 giugno 1968, pp. 5- 7

151 ibidem

La definizione risulta alquanto pertinente se non fosse per qualche riserva. La citazione di Cassola e Bassani fa pensare al periodo neorealista, agli anni immediatamente successivi alla guerra in cui si avvertiva, da parte degli scrittori, liberi dall’oppressione fascista, un’ansia di ritornare alla scrittura. In questo senso la Ginzburg resta una voce fuori dal coro: l’ispirazione “elegiaca e civile” della Ginzburg non va tanto nella direzione di elogiare la lotta di liberazione antifascista quanto, reduce dalla condizione miserevole a cui l’ha sottoposta la ferocia della guerra, indirizza la propria riflessione in un rivolgimento interiore e in un sentimentalismo che la avvicina piuttosto alle origini dell’amore, a quel nodo di emozioni che appartengono solo alla famiglia e che, attraverso la memoria della lingua dei padri, si nobilitano. Il lessico famigliare di Natalia Ginzburg è un lessico fatto di sentimenti, di parole lapidarie che restano intatte nel tempo per fare da guida ad un’intera società nel ritrovare la via dei buoni sentimenti. La famiglia descritta e vissuta nuovamente attraverso il racconto nel grande capolavoro della Ginzburg rappresenta, in nuce, l’entità primigenia a cui la società deve riferirsi sempre. Dunque, non nella nascente tecnocrazia del Nord, né in una classe sociale ben definita come può essere la borghesia, ma è all’interno del nucleo familiare che bisogna rivolgere la propria attenzione per ritrovare la validità della parola portatrice di un significato che mescola al suo interno l’intimità del focolare domestico con la pregnanza storica che ogni individuo rappresenta. Natalia Ginzburg si è espressa più volte sul valore delle parole e il confronto tra due passi di Lessico famigliare vale come dimostrazione di quanto appena detto:

Noi siamo cinque fratelli.[…] Quando c’incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. Ci basta dire: «Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna» o «De cosa spussa l’acido solfidrico», per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole.[…] Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assiro-babilonesi, la testimonianza di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare153

[...]

Era necessario tornare a scegliere le parole, a scrutarle per sentire se erano false o vere, se avevano o no vere radici in noi, o se avevano soltanto le effimere radici della comune illusione. Era dunque necessario, se uno scriveva, tornare ad assumere il proprio mestiere che aveva, nella generale ubriachezza, dimenticato. 154

Dopo il periodo di digiuno fascista, le parole assunsero un carattere illusorio perché rappresentavano una società che si presentava, apparentemente, di nuovo a portata di mano. Gli scrittori avevano smarrito l’essenza del proprio mestiere. In una proporzione matematica l’indifferenza dei fratelli starebbe alla solitudine degli scrittori, che possono trovare la chiave della propria vocazione solo in se stessi come il latino, il vocabolario dei giorni andati, sta nella responsabilità che lo scrittore ha nei confronti del proprio mestiere.

Il bisogno impellente di raccontare la verità si manifesta primario nella scrittrice che rivendica continuamente il proprio dovere. Il mestiere di scrivere impone agli addetti l’insegnamento della verità attuabile soltanto attraverso l’impiego di un linguaggio diretto e pulito. “L’ispirazione elegiaca e civile” di cui parlava Pasolini si concretizza con la Ginzburg in un impegno volto a smantellare il linguaggio ufficiale dalle strutture innaturali che la società ha costruito in modo artificioso in politica, nel giornalismo e anche nella letteratura. L’intellettuale è un vate e, come tale, ha l’obbligo morale di scegliere con onestà le parole dal proprio dizionario.155 Nell’articolo pubblicato su «L’Unità» nel maggio del 1989 la Ginzburg fornisce il suo punto di vista riguardo la questione linguistica in maniera esplicita creando un filo diretto, seppure a distanza di anni, con la polemica avviata da Pasolini:

Ci troviamo[…] circondati di parole che non sono nate dal nostro vivo pensiero, ma sono state fabbricate artificialmente con motivazioni ipocrite, per opera di una società che ne fa sfoggio e crede con esse di aver mutato e risanato il mondo.[…] Il linguaggio delle parole-cadaveri ha contribuito a creare una distanza incolmabile tra il vivo pensiero della gente e la società pubblica. Toccherebbe agli intellettuali sgomberare il suolo di tutte queste parole-cadaveri, seppellirle e fare in modo che sui giornali e nella vita pubblica riappaiano le parole della realtà.156

154 Ivi, p. 1066

155 P. PUPPA, Natalia Ginzburg: una lingua per il teatro, «Italian Studies», vol. LII, 1997, pp.151-164

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