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2. IL TEATRO

2.3 PERCORSI

2.3.2 Qualcuno che tace

Nella nota autobiografica che apre il volume sul teatro, la Ginzburg scrive: Nelle mie commedie, in tutte, ci sono come qui dei personaggi di cui si parla molto e che non compaiono mai. Tacciono, essendo assenti. Così finalmente c’è qualcuno che tace.110

Il personaggio in questione può essere definito a pieno titolo diegetico: fa parte del motore dell’intreccio, anzi, il più delle volte, ne costituisce parte centrale.

106 N. GINZBURG, La paura in Id., Un’assenza, cit. p. 181 107 N. GINZBURG, Paese di mare in Id., Tutto il teatro, cit. p. 313 108 Ibidem

109 N. GINZBURG, Paese di mare in Id., Tutto il teatro, cit. p. 315 110 N. GINZBURG, Nota in Id., Tutto il teatro, cit. p. XI

L’unica differenza sta nel fatto che, mentre gli altri attori si presentano al pubblico raccontando di sé, l’assente, per forza di cosa, ha bisogno di essere introdotto in scena e raccontato. Solo in alcuni casi l’introduzione di un personaggio non presente fisicamente costituisce un trucco narrativo finalizzato a chiarire, nella vicenda, il punto di vista di chi parla. È il caso di tutte quelle figure che si ritrovano al di là della cornetta: spesso, infatti, il testo teatrale è arricchito da monologhi mascherati da conversazioni telefoniche intrattenute, il più delle volte, con le madri. La figura della madre, fatta eccezione per Ti ho sposato per allegria, risulta alquanto estranea alla vita dei personaggi e viene chiamata in causa esclusivamente per informazioni di servizio e prestiti di denaro.

I personaggi assenti rappresentano, spesso, la parte forte nella relazione amorosa; chi ne parla, infatti, assume sempre l’atteggiamento nostalgico di chi soffre per l’insoddisfazione di un sentimento non corrisposto: è il caso di Edoardo (La

segretaria), Cencio (La porta sbagliata), Michele (Dialogo). In altri casi, invece,

si parla dell’assente come colui da cui si può trarre qualche beneficio come nel caso di Gianni Tiraboschi (L’intervista) che non concederà mai l’intervista a Marco, o Alvise (Paese di mare) che non soddisferà mai la richiesta di Marco (protagonista omonimo) di trovargli un lavoro in nome della vecchia amicizia. È singolare come, pur non essendo presenti fisicamente sulla scena, questi personaggi siano in effetti ingombranti. L’intenzione dichiarata ironicamente dalla Ginzburg si traduce in: «così finalmente c’è qualcuno che tace»; è vero, altresì, che l’assenza di questi personaggi mette in moto la vicenda facendo parlare di sé e alimentando l’interminabile chiacchiericcio. Tuttavia, esiste un confine molto labile tra il vuoto provocato dalla mancanza di qualcuno e l’assenza di rapporti veri che conducono al vuoto interiore, al vizio del silenzio111. Nel saggio scritto a Torino nel 1951 e intitolato, per l’appunto, Silenzio, la Ginzburg affronta la questione da un punto di vista morale: annoverato tra «i vizi più strani e più gravi della nostra epoca», l’autrice dichiara «l’infelicità che coglie quando è il momento di far parlare i personaggi tra loro»112. Tale disagio è avvertito da «quelli di noi 111 Cfr. nota 36

che oggi hanno provato a scrivere romanzi»: considerando la data di stesura del saggio (1951), quel noi è significativo di una collettività, protagonista di uno dei secoli più tremendi della storia che, dopo la guerra, ha avvertito la necessità di rifondare, sulla base di un nuovo linguaggio, il proprio mestiere.

Nella vita quotidiana, quella ritratta nelle commedie, il rischio di restare vittima del silenzio è reale e la conseguenza pericolosa si ritorce sulla comunicazione, la base dei rapporti personali:

Di solito questo vizio del silenzio che avvelena la nostra epoca, lo si esprime con un luogo comune: «Si è perduto il gusto della conversazione». È l’espressione futile, mondana, di una cosa vera e tragica. Dicendo «il gusto della conversazione» noi non diciamo niente che ci aiuti a vivere: ma la possibilità di un libero e normale rapporto fra gli uomini, questo sì ci manca, e ci manca al punto che alcuni di noi si sono ammazzati per la coscienza di questa privazione. Il silenzio miete le sue vittime ogni giorno. Il silenzio è una malattia mortale.113

Un esempio lampante del fallimento del rapporto, in questo caso coniugale, è rappresentato da Massimo de La parrucca. L’unico segnale che attesta la presenza di Massimo è il fischiettio che la moglie sente dalla stanza accanto:

(Va davanti a uno specchio e comincia a truccarsi. Nella stanza accanto si sente fischiettare).114 Massimo è un pittore di un discreto successo, «un successo di stima»115, come lo definisce la moglie ma, come la maggior parte dei personaggi maschili della Ginzburg, è insoddisfatto. Tenta di arricchirsi con i suoi quadri mediocri e sfoga su di lei il suo insuccesso:

Siamo qui e Massimo ha i nervi, un diavolo per capello, e ne ha tanti di capelli. Ha una chioma. Prima mi ha tirato uno schiaffo e m’ha fatto uscire il sangue dal naso. Ho ancora il naso pieno di cotone. Ho la camicia da notte sporca di sangue. No, mamma, è vero, non invento niente. Io? Cosa gli avevo fatto io? niente. Avevo solo detto che non li trovo tanto belli i suoi quadri. Sono tutti uguali. Fa sempre dei praticelli fioriti con sopra un occhio immenso. Ti dico la verità, io sono stufa di vedere sempre quell’occhio. Me lo sogno anche di notte. È un occhio spalancato, con le ciglia lunghe voltate in su. È immenso, è giallo, sembra un uovo al burro.116

Il personaggio di Massimo è la perfetta incarnazione di un silenzio vizioso: incapace di guardare nel suo animo e ossessionato dalla sua insoddisfazione, si

113 Ivi, p. 858

114 N. GINZBURG, La parrucca in Id., Tutto il teatro, cit. p. 369 115 Ivi, p. 372

estranea dalla vita coniugale facendo precipitare anche la moglie nel turbine dell’infelicità. In quest’ottica l’occhio dei quadri potrebbe rappresentare la coscienza interiore di Massimo che, allontanata dal corpo, diventa lo sguardo imperioso di chi, afflitto dai sensi di colpa, tace:

Fra i vizi della nostra epoca, è noto che c’è il senso della colpa: se ne parla e se ne scrive molto. Tutti ne soffriamo. Ci sentiamo coinvolti in una faccenda di giorno in giorno più sudicia. Si è detto anche del senso di panico: anche di questo, tutti ne soffriamo. Il senso di panico nasce dal senso di colpa. E chi si sente spaventato e colpevole, tace.[…] Si verifica dunque questo fatto strano: che gli uomini si trovino strettamente legati l’uno al destino dell’altro, così che il crollo di uno solo travolge migliaia d’altri esseri, e nello stesso tempo tutti soffocati dal silenzio, incapaci di scambiarsi qualche libera parola.117

Legata indissolubilmente al marito, la protagonista è, ancora una volta, il profilo della disperazione: la sua vita risente della presenza ingombrante di Massimo, ben visibile sul corpo della donna che non smette di sanguinare e talmente forte da diventare, come un cane che si morde la coda, un’ossessione. Dal punto di vista femminile l’occhio dei quadri è l’emblema di tale ossessione e l’assenza di Massimo si traduce in un silenzio ottuso, un vuoto sentimentale che la donna tenta di colmare concedendosi ad un altro uomo. E proprio quando, con estremo coraggio, lei confessa una gravidanza adultera, ogni sforzo risulta vano. L’assenza di Massimo si tramuta in perfidia del destino. Nel momento catartico la situazione che sembrava precipitare in un epilogo tragico, con un abbassamento ironico, si risolve in uno scherzo del destino: Massimo si è spostato dalla stanza da bagno a quella da pranzo per fare colazione. La situazione non cambia se non per la donna:

Pronto, signorina? Per caso ha visto mio marito? ah sí? è lí in stanza da pranzo? cosa fa? mangia il caffelatte? Gli dica di tornare subito di sopra. Gli dica che io sto male. Mi sento male. Gli dica che smetta subito di mangiare e venga di sopra perché io qua divento scema, sto male e ho freddo e sono stufa e poi sono disperata e se non sale subito piglio un paio di forbici e gli faccio a pezzi tutti questi suoi stupidissimi quadri!118

Al polo opposto rispetto a Massimo si pone, invece, Raniero de La porta

sbagliata. Questo personaggio è presente sulla scena per l’intera durata della

commedia. Parla poco; più che altro ascolta. In effetti veste molto bene i panni dello psicanalista nonostante tra i personaggi venga spesso nominato il dottor 117 N. GINZBURG, Silenzio tratto da Le piccole virtù, in Id., Opere, cit. pp. 856-858

“Vlad”. I personaggi della Ginzburg spesso ricorrono all’ausilio di un analista con la convinzione che sia il metodo migliore per guarire dalle proprie angosce; tuttavia non sono mai pienamente convinti della validità del metodo al punto da screditarlo: in Ti ho sposato per allegria Giuliana lamenta il costo elevato delle sedute «solo per parlare»119. La notizia che Massimo ne La parrucca legga La

psicologia dell’inconscio fornita dalla moglie lascia dubitare sulla sua conoscenza

del testo: infatti aggiunge «credo di Freud»120. Anche nel suo racconto, La mia

psicanalisi121, alla Ginzburg, come a Giuliana, «dava un’enorme noia pensare che

doveva dargli dei soldi»122 per parlare; inoltre l’autrice trovava disagevole l’unilateralità del rapporto che si riscontra anche in quello tra Raniero e gli altri personaggi. Questi ultimi si mostrano molto incuriositi dal nuovo arrivato che parla molto poco di sé. In realtà è proprio Raniero che costruisce una barriera quando afferma: «Sto bene con voi. Non ci tengo molto a destare curiosità. Preferisco che mi vediate come un muro o un tavolo. Una cosa che c’è da sempre».123 Ben lontano dal porsi come un analista, Raniero offre ai personaggi la possibilità di specchiarsi in lui come nella propria coscienza. La similitudine del tavolo è significativa e non è nuova nella commedia. Giorgio, amico dei coniugi Angelica e Stefano, propone la stessa immagine per descrivere il rapporto della coppia:

ANGELICA: Stefano l’ho sposato

GIORGIO: l’hai sposato ma adesso lo adoperi per tavolino. Gli rovesci tutto quello che ti pare, prendi e togli, strappi e scuoti, e non ti sogni mai di guardare se lui sopporta il peso o no.124

La combinazione delle due battute non è di certo casuale: è come se Raniero, riprendendo l’immagine del tavolo, proponesse ai personaggi di confessare a se

119 N. GINZBURG, Ti ho sposato per allegria in Id., Tutto il teatro, p. 55 120 N. GINZBURG, La parrucca in Id., Tutto il teatro, p. 371

121 N. GINZBURG, La mia psicanalisi in Id., Mai devi domandarmi, cit. pp. 39-45 - Il riferimento alla psicanalisi è, ancora una volta, riconducibile ad un dato biografico. La Ginzburg scrisse, infatti, di aver fatto ricorso alla psicanalisi nel periodo del dopoguerra a Roma

122 Ivi, p. 41

123 N. GINZBURG, La porta sbagliata in Id., Tutto il teatro, cit. p. 36 124 Ivi, p. 335

stessi i tormenti, di guardare in faccia le angosce e assumersi la responsabilità della propria disperazione.

Raniero incarna perfettamente la coscienza morale dell’intera opera teatrale della Ginzburg: il suo sguardo distaccato e silenzioso crea, tuttavia, una sorta di soggezione nei personaggi che, però, immersi nell’ottusità della vita quotidiana, non ne traggono alcun beneficio reale. Eppure, a turno, riconoscono un vantaggio nella compagnia di Raniero. Giorgio ne parla come di un analista:

GIORGIO: Raniero è un tipo chiuso. Potremmo stare per cinque anni seduti così a discorrere su queste poltrone, senza avere da lui nemmeno un gocciolo della sua vita. Noi intanto magari gli rovesceremmo addosso la nostra vita a litri. Perché a guardarlo vien voglia di raccontargli un mondo di cose. Saresti un buon analista, Raniero. Il tuo è un silenzio che invita alla confessione. Penso che un analista dovrebbe essere come te, attentissimo e silenzioso. Il dottor Vlad è troppo frivolo e chiacchierone.125

E ancora:

STEFANO: […] La faccia di Raniero mi dà conforto. È una faccia che conosco appena, ieri non sapevo che esistesse, eppure la guardo e ne traggo un senso di tranquillità. 126

[…]

GIORGIO: […] Porterà attorno il suo silenzio come una corona da morto.

TECLA: Sì, sta sempre zitto, però non è che sia malinconico. Non mi fa pensare alle tombe, né a niente di malinconico. Mica tutti i silenzi sono uguali. Il suo è un silenzio vivo, intenso, che ascolta, e che fa compagnia.127

I personaggi, pur rendendosi conto della positività della presenza di Raniero, rinnegano la necessità di ammettere i propri vizi. Il ritratto che viene fuori è quello di un’umanità così meschina da «difendersi con l’egoismo dalla disperazione»:

Siamo anche troppo avvezzi a chiamare malattie i vizi della nostra anima, e a subirli, a lasciarcene governare, o a blandirli con sciroppi dolci, a curarli come fossero malattie.128

Queste parole, di una autenticità sconcertante e scritte con una pacata rassegnazione, sono riprese nella commedia da Angelica che, inconsapevolmente, ammette una tragica verità:

ANGELICA: Dimentichi che sono malata. Non puoi darmi le tue impressioni. Non puoi dirmi tutto quello che ti salta in mente. Devi usare prudenza con me.

125 Ivi, p. 361 126 Ivi, p. 342 127 Ivi, p. 345

GIORGIO: Non giocare troppo sul fatto che sei malata, Angelica. Siamo tutti malati in qualche modo. […] L’essenziale è non fissarsi su quel punto che duole. L’essenziale è vivere e lasciar vivere gli altri.

ANGELICA: Non farmi la morale. Io sono più malata degli altri. Non riesco né a vivere, né a lasciar vivere.129

Con Raniero la Ginzburg offre la possibilità di esaminare il vizio del silenzio da un altro punto di vista, quello morale:

Il silenzio dev’essere contemplato, e giudicato in sede morale. Non ci è dato scegliere se essere felici o infelici. Ma bisogna scegliere di non essere diabolicamente infelici. […] Perché il silenzio, come l’accidia e come la lussuria, è un peccato. Il fatto che sia un peccato comune a tutti i nostri simili nella nostra epoca, che sia il frutto amaro della nostra epoca malsana, non ci esime dal dovere di riconoscerne la natura, di chiamarlo col suo vero nome.130

La figura di Raniero ricorda quella descritta dalla stessa autrice nel saggio La

critica131. Raniero incarna la coscienza lucida e profondamente tenera di chi ha a

cuore le sorti del proprio vicino, come un critico per un artista e un padre per il proprio figlio:

Soffriamo per l’assenza della critica, allo stesso modo come soffriamo per l’assenza, nella nostra vita adulta, d’un padre.

Ma se è estinta o quasi estinta la stirpe dei critici, è perché è estinta o si sta estinguendo la stirpe dei padri. Da tempo orfani, noi generiamo degli orfani, essendo stati incapaci di diventare noi stessi dei padri: e così inutilmente andiamo cercando in mezzo a noi quello di cui abbiamo una sete profonda, un’intelligenza inesorabile, chiara e altera, che ci esamini con distanza e distacco, che ci osservi dall’alto d’una finestra, che non scenda a mescolarsi con noi nella polvere dei nostri cortili; un’intelligenza che pensa a noi e non a se stessa, misurata, implacabile e limpida nei confronti delle nostre opere, limpida nel conoscerci e rivelarci quello che siamo, inesorabile nel trovare e definire i nostri vizi ed errori.132

In un processo di totale assimilazione tra vita e arte, la Ginzburg ci regala, attraverso Raniero, un respiro profondo di liricità e, se vogliamo, di utopia. Tutti nutrono una grande speranza di risollevare i propri animi afflitti grazie alla presenza di Raniero che trasmette fiducia e tranquillità. Ma alla fine non cambia nulla. Il paradosso descritto da questa commedia è quello stesso che la Ginzburg accetta, con una rassegnata sconfitta, come condizione inesorabile dovuta a un difetto dell’animo umano: l’abitudine di ignorare i propri vizi per ozio e indifferenza. Per gli stessi motivi l’essere umano descritto dalla Ginzburg rifiuta la 129 N. GINZBURG, La porta sbagliata in Id., Tutto il teatro, cit. p. 360

130 N. GINZBURG, Silenzio tratto da Le piccole virtù, in Id., Opere, cit. p. 859 131 N. GINZBURG, La critica in Id., Mai devi domandarmi, cit. pp. 73-78 132 ibidem

critica intelligente, lucida e distaccata che nell’immaginario dell’autrice è incarnata dal padre. Non è un caso se, nelle commedie, la figura totalmente assente è quella paterna. In questa logica «qualcuno che tace» è la coscienza «inesorabile, chiara e altera» del padre:

Penso tuttavia che se non abbiamo un padre, è perché, come ho detto non lo meritiamo. Incapaci di isolare e leggere in noi stessi i nostri errori, di chiamarli duramente col loro nome, disposti sempre a censurarli e ignorarli, a fingere con noi stessi che non esistano, tolleranti verso i vizi e gli errori dei nostri consanguinei e amici di una tolleranza che non è generata da pietà o comprensione, ma è fatta di ozio, di indifferenza e soprattutto di confusione, usiamo lamentarci dell’assenza della critica come bambini che sono stati messi a dormire nel buio. 133

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