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"Un'idea strana della disperazione": il teatro di Natalia Ginzburg

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Academic year: 2021

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Indice generale

INTRODUZIONE...2

1. IL CONTESTO CULTURALE...5

1.1 BREVI CENNI BIOGRAFICI...5

1.2 IL TEATRO DEGLI ANNI SESSANTA IN ITALIA...10

2. IL TEATRO...18

2.1 DIFFICOLTÀ NELLA DEFINIZIONE DI GENERE...18

2.2 LE COMMEDIE...26

2.3 PERCORSI...29

2.3.1 Donne...29

2.3.1.1 La ragazza che corre...31

2.3.1.2 La donna che sta ferma...39

2.3.2 Qualcuno che tace...47

2.3.3 La poetica degli oggetti...54

2.3.3.1 Lo sguardo inaridito e immemore che gettiamo alle cose...54

2.3.3.2 Il rapporto con il cibo...58

3. LO STILE TEATRALE...62

3.1 IL LINGUAGGIO...62

3.2 IL DIALOGO...67

3.2.1 Dialogo...70

3.3 L’IRONIA...74

3.3.1 Il nonsense della chiacchiera...74

3.3.2 Una realtà distorta: simbologia animale e grottesco...77

CONCLUSIONI...86

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INTRODUZIONE

Natalia Ginzburg, autrice poliedrica e romanziera di successo, ha rappresentato un punto di riferimento per la letteratura del Novecento. La peculiarità della sua opera si intravede nella capacità di spaziare in più ambiti. In età adolescenziale si nota già una predisposizione all’arte poetica che confluisce, poi, nella pubblicazione dei primi racconti in riviste sparse. Superato lo scoglio dell’inadeguatezza, l’intero arco della sua vita è segnato dalla fame insaziabile di nuove espressioni artistiche che confluiranno in racconti, romanzi, saggi, interventi politici, ruoli attivi nell’industria editoriale e commedie. La capacità di sperimentare è accompagnata da una forte sensibilità al mondo circostante che le consente di guardare al di fuori di se stessa in maniera appartata e vigile, cosciente delle dinamiche esistenziali che si instaurano con gli altri. Il profilo che ne vien fuori è quello di una personalità di punta del Novecento che, dopo aver vissuto in primo piano gli eventi traumatici di una guerra senza morale, si fa carico del ruolo di testimone e vate, portatrice di una visione del mondo inusuale. In penombra, partecipa all’evoluzione della società di cui è parte attiva e, grazie a quel piglio ironico, che è la misura con cui guarda le cose, domina i rapporti interpersonali. Il punto di vista da cui Natalia Ginzburg percepisce gli eventi è femminile. Un “femminile”, tuttavia, che esula dalle posizioni estremiste del contemporaneo “femminismo”. Gli occhi che guardano e raccontano il mondo sono quelli di una donna, ebrea (con tutto quello che ne concerne), che non è mai venuta meno alle responsabilità che tale ruolo impone: moglie, madre ed educatrice dei propri figli diventano, nell’immaginario dell’autrice, contrassegni validi a livello universale. Tutti questi elementi distintivi confluiscono nell’intera opera di Natalia Ginzburg, accompagnati da una malinconia costante che deriva dalla memoria, pozzo inesauribile a cui attingere per raccontare il vero.

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L’approdo al teatro è tardivo rispetto alla narrativa e alle attività politica ed editoriale. La capacità di sperimentare è ravvisabile nella velocità con la quale la Ginzburg si mette in gioco. Dopo aver dichiarato il suo disagio nello scrivere per un pubblico, l’occasione le viene offerta dalla richiesta esplicita da parte dell’attrice Adriana Asti di scrivere una commedia per lei. A proposito di questo, la Ginzburg scrive:

Certo non fu che l’occasione esterna, e in verità io fui spinta a fare una commedia da un’esigenza che riguarda direttamente il mio scrivere, e cioè dal desiderio di uscire dall’autobiografia (difatti negli ultimi tempi non riuscivo a scrivere che in forma apertamente autobiografica, avevo sempre scritto in prima persona, ma negli ultimi tempi questa prima persona rischiava di diventare per me ossessiva). Ma l’occasione esterna fu per me importante e desidero sottolinearla.1

Da tale esigenza nasce Ti ho sposato per allegria. Questa prima commedia, più gioviale rispetto alle altre, dà l’avvio per una promettente carriera teatrale. Nell’arco di tempo che va dal 1965 al 1988 la Ginzburg scrive, infatti, dieci commedie. L’ultimo episodio isolato è del 1991. È utile, ai fini di una maggiore comprensione dell’impegno teatrale dell’autrice, fornire le indicazioni temporali della pubblicazione delle opere: la prima raccolta Ti ho sposato per allegria e

altre commedie2 edita da Einaudi nel 1966 racchiude, in ordine cronologico, Ti ho

sposato per allegria (luglio 1965), L’inserzione (novembre 1965), Fragola e panna (ottobre 1966) e La segretaria (aprile 1967); la seconda raccolta Paese di mare e altre commedie3, edito da Garzanti nel 1971 comprende, in questa

sequenza, Dialogo (maggio 1970), Paese di mare (giugno 1968), La porta

sbagliata (dicembre 1968), La parrucca (gennaio 1971); la terza raccolta, Teatro4,

edita da Einaudi nel 1990 include, sempre in ordine sparso, L’intervista (agosto 1988), La poltrona (aprile 1985) e le quattro commedie pubblicate nella precedente raccolta Paese di mare e altre commedie. Il cormorano (primavera 1991), l’undicesimo testo teatrale, appare per la prima volta nel volume Tutto il

teatro5, a cura di Domenico Scarpa, pubblicato da Einaudi nel 2005.

1 N. GINZBURG, Prefazione in Id., Ti ho sposato per allegria, Einaudi, Torino, 1966, pp. 5-8 2 N. GINZBURG, Ti ho sposato per allegria e altre commedie, Torino, Einaudi, 1968

3 N. GINZBURG, Paese di mare e altre commedie, Milano, Garzanti, 1971

4 N. GINZBURG, Teatro, Torino, Einaudi, 1990

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La malinconia e la tristezza dei romanzi permangono nelle commedie ma in forma attenuata. Quasi una leggerezza tragica che si esaurisce nell’ovvietà del quotidiano e si attenua per una forte ironia che sdrammatizza e smorza le conversazioni veloci e fuggevoli come il tempo che passa. Nell’intera opera della Ginzburg, nei romanzi come nel teatro, è forte il rapporto viscerale che lei intrattiene con il mondo. Un mondo fatto di rapporti, di sentimenti, di persone che, in forme e nomi diversi, costellano l’opera dell’autrice sempre pronta a mantenerne vivo il ricordo:

In tutto quello che abbiamo scritto, siano romanzi o commedie o altro, è nascosto e custodito il tempo che abbiamo passato mentre stavamo scrivendo. Nelle commedie quel tempo è custodito più diffusamente e più intensamente. Le commedie hanno un prima e un dopo. Hanno un lunghi strascichi e intorno vi ruota una folla di luoghi e di gente. Di alcune commedie magari non ce ne importa più molto, ma quello che vi è nascosto e custodito e vi ruota intorno ci è caro per sempre. Case o stanze in cui abbiamo abitato quando le abbiamo scritte o pensate. A volte sono case o stanze in cui non ci è consentito o non vogliamo rientrare. Paesi dove non ritorneremo. Teatri. Grossi fili neri sparsi per terra. Amici che abbiamo smesso di frequentare. Voci che abbiamo devotamente ascoltato e il cui suono si è perso. Visi amati. Il ricordo dei morti.6

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1. IL CONTESTO CULTURALE

1.1 BREVI CENNI BIOGRAFICI

Nel momento in cui si vuole tracciare un profilo biografico di Natalia Ginzburg, non si può prescindere dalla vasta produzione saggistica che l’autrice ha lasciato in eredità alla stirpe di critici e lettori che decidono di non trascurare il volto di una delle professioniste della letteratura più interessanti del nostro Novecento. Natalia Ginzburg, che si distingue per la forte empatia, presta particolare attenzione alle notizie biografiche. Ne è testimonianza la lunga carrellata di ritratti che dipinge in Mai devi domandarmi7, Vita immaginaria8 e

Non possiamo saperlo9. Attraverso le figure di Carlo Levi, Italo Calvino, Sandro

Penna, Landolfi, la Dickinson, Ivy Compton Burnett, e ancora Cesare Pavese, Antonio Delfini, Tonino Guerra, Goffredo Parise, si delineano le caratteristiche principali che la Ginzburg sceglie di perseguire nei suoi scritti. Parole come intelligenza, fantasia, umiltà, adesione al vero, poesia, onestà intellettuale, accompagnano tutte le riflessioni critiche della scrittrice. È la libertà che si respira nella grandezza dei versi di Sandro Penna; la luce bianca di Cristo si è fermato ad

Eboli che proviene dalla chiarezza dell’intelligenza di chi l’ha contemplata; la

limpidezza dello stile di Calvino, che raccontava la realtà attraverso la lente festosa e colorata della sua fantasia; l’onestà che pretende da Giulio Einaudi, colpevole di aver omesso nel romanzo Frammenti di memoria il notevole impatto che Leone Ginzburg e Cesare Pavese hanno avuto nell’avvio dell’attività della casa editrice. Il comune denominatore di quest’intensa attività critica è una parola chiave: memoria.

Memoria, come il titolo della poesia datata 8 novembre 1944, legata alla perdita di

Leone Ginzburg, morto a Roma nel braccio tedesco di Regina Coeli nella notte tra 7 N. GINZBURG, Mai devi domandarmi, Einaudi, Torino, 2002

8 N. GINZBURG, Vita immaginaria, Arnoldo Mondadori Editore, Vicenza, 1974

9 N. GINZBURG, Non possiamo saperlo. Saggi 1973-1990, Domenico Scarpa (a cura di), Einaudi, Torino, 2001

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il 4 e il 5 febbraio 1944. Ma è anche la memoria di episodi che vengono riesumati dal ricordo grazie a elementi rimasti impressi nella fervida immaginazione di Natalia: I baffi bianchi dell’uomo che incontrava nel percorso che la conduceva a scuola, quando, dopo aver concluso le lezioni private, fu iscritta al ginnasio; Le

scarpe rotte che indossava dopo la guerra; il freddo pungente dell’Inverno in Abruzzo, che, nonostante il confino, le evoca il periodo più bello della sua vita.

Attraverso i numerosi bozzetti raccolti, poi, nei volumi citati e nell’ultimo lavoro curato da Domenico Scarpa, Un’assenza10, è possibile ricostruire il profilo di

un’autrice che, dedita alla poesia sin dalla giovinezza, riesce ad elaborare un’interpretazione della realtà che si fonda sull’incontro tra il vissuto personale e quello di una collettività che ha il dovere morale di ricordare. In ogni ritratto che la Ginzburg ha redatto c’è la necessità di consacrare la memoria di poeti e scrittori che hanno reso grande la letteratura del nostro secolo. Con lo stesso intento l’autrice dopo che, per pagine, si è raccontata con passione fino alle pieghe più nascoste della propria esistenza e parlando di sé in prima persona, ha voluto redigere, ad appena un anno prima della sua scomparsa, un resoconto della sua vita confluito in una lucida e completa Autobiografia in terza persona :

Natalia Ginzburg ha nome, per nascita, Natalia Levi. È nata il 14 luglio 1916, a Palermo, da Giuseppe Levi e da Lidia Tanzi, ultima di cinque fratelli. È nata a Palermo perché il padre, in quegli anni, insegnava anatomia umana in quella università. Il padre era triestino, la madre lombarda, i fratelli erano nati a Firenze. La madre era figlia di Carlo Tanzi, avvocato socialista, amico di Turati e di Bissolati. Il padre era di una famiglia triestina di banchieri. Un fratello del padre, Cesare Levi, era studioso di teatro e critico teatrale. Uno zio della madre era un noto psichiatra, Eugenio Tanzi. Un fratello della madre, Silvio Tanzi, era un musicologo, morto suicida in giovane età.

Il padre era ebreo; la madre non lo era. Né l’uno né l’altra erano osservanti, in un senso o nell’altro. Né l’uno né l’altra mettevano mai piede in una chiesa o in un tempio. Usavano dirsi materialisti e atei; il padre con più convinzione; la madre in una forma meno risoluta e più incerta.

Nel ‘19 il padre fu trasferito a Torino, e la famiglia lasciò Palermo. Il padre divenne, più tardi, un biologo e un istologo di gran fama.

Natalia Levi trascorre a Torino l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza. Fa le scuole elementari in casa – il padre aveva l’idea che nelle scuole pubbliche si prendessero malattie – e le scuole medie al liceo Alfieri. Studia poco e male e la bocciano di frequente. È brava in italiano. Scrive poesie che tiene accuratamente nascoste. Sui sedici anni smette di scrivere poesie e tenta di scrivere

10 N. GINZBURG, Un’assenza. Racconti, memorie, cronache 1933-1988, Domenico Scarpa (a cura di), Einaudi, Torino, 2016

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racconti. Li comincia ma non riesce mai a finirli. A diciassette anni, finalmente le riesce di finire un racconto.

Questo racconto che le era riuscito di finire, lo lesse Leone Ginzburg, amico di uno dei suoi fratelli, e lo mandò a Carocci, direttore della rivista «Solaria». Non fu accettato, ma ne fu accettato un secondo. Fra il ‘34 e il ‘37, vennero pubbliceti alcuni suoi racconti, su «Solaria», sul «Lavoro», su «Letteratura». Al «Lavoro» di Genova, l’aveva raccomandata Mario Soldati.

Nel ‘35, dopo una licenza liceale ottenuta a stento, si iscrisse alla facoltà di lettere. Non si è mai laureata.

Nel ‘38, sposa Leone Ginzburg, russo di nascita, studioso di letteratura russa, critico, antifascista noto. È stato in carcere per due anni, dal ‘34 al ‘36, prima a Roma, poi nel penitenziario di Civitavecchia. Egli è uno dei fondatori della casa editrice Einaudi. Vi lavora da quando è tornato dal carcere, con Giulio Einaudi e Cesare Pavese.

Nel ‘40, allo scoppio della guerra, Leone Ginzburg viene mandato al confino, in un paese chiamato Pizzoli, a quindici chilometri circa dall’Aquila. Lei lo segue poco dopo con i due figli Carlo e Andrea. Qui rimangono per tre anni. all’Aquila, nasce la loro terza figlia, Alessandra, nel ‘43.

Nell’inverno del ‘41, lei scrive un breve romanzo dal titolo La strada che va in città. Lo fa avere a Pavese, che accetta di pubblicarlo. Il romanzo esce presso la casa editrice Einaudi nel ‘42. poiché vi sono le leggi razziali, viene pubblicato con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte. Era, Tornimparte, un paese non lontano da Pizzoli, dove si ricevevano e si spedivano i bauli, essendovi una stazione ferroviaria. Il romanzo ebbe una severa stroncatura di Alfonso Gatto, nella rivista «Primato», ed ebbe invece il consenso di Silvio Benco, sul «Piccolo» di Trieste. Più tardi, essa conobbe Alfonso Gatto e strinsero amicizia. Non potè invece mai conoscere Silvio Benco, per il quale provava e prova oggi una profonda gratitudine. Le parole di consenso di Silvio Benco la sostennero nel corso degli anni, quando più dubitava che il suo scrivere avesse un senso.

Dopo il 25 luglio, Leone Ginzburg lasciò il confino, ormai libero; fu prima a Torino, poi a Roma. Nei giorni dell’armistizio, era a Roma, e iniziò l’attività clandestina. Lei era ancora a Pizzoli, con i tre bambini. Il 16 di ottobre, quando a Roma vennero presi e deportati gli ebrei, Leone Ginzburg scrisse alla moglie di lasciare subito quel villaggio d’Abruzzo dove tutti li conoscevano come ebrei e venire a Roma. Negli ultimi giorni d’ottobre, con mezzi di fortuna, essa venne a Roma con i figli e presero alloggio in un appartamentino nei pressi di piazza Bologna. Leone Ginzburg dirigeva il giornale clandestino del partito d’azione, «L’Italia libera». Il 19 di novembre, fu arrestato in una tipografia clandestina in via Basento e portato nelle carceri di Regina Coeli. Aveva una carta d’identità falsa. Dopo dieci giorni lo riconobbero come ebreo e come militante antifascista di lunga data e lo passarono al braccio tedesco. Venne interrogato dalla polizia tedesca e percosso. Morì nell’infermeria di Regina Coeli il 5 febbraio del ‘44.

Natalia Ginzburg, dopo essere stata nascosta con i figli in un convento delle orsoline in via Nomentana, morto il marito si trasferì a Firenze. Fu ospitata per un periodo dalla zia materna, poi da amici nelle colline, poi si rifugiò a Vallombrosa dove la raggiunse la madre. Liberata Firenze, nell’autunno, torna a Roma e alloggia prima in una pensione valdese nei pressi di Santa Maria Maggiore, poi da un’amica, in Prati. Venne assunta come redattrice dalla csa editrice Einaudi.

Nell’ottobre del ‘45, torna a Torino, nella vecchia casa dei genitori in via Pallamaglio (oggi via Morgari). Continua a lavorare nella casa editrice Einaudi, con Massimo Mila, Cesare Pavese, Felice Balbo e un poco più tardi Calvino.

Nel ‘46, esce da Einaudi la sua traduzione dei due primi volumi della Recherche di Proust, con il titolo La strada di Swann.

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Nel ‘49, a Venezia, in un convegno del Pen Club, incontra Gabriele Baldini, studioso di letteratura inglese, critico, musicologo e scrittore. Nel ‘50 si sposano. Soggiornano per qualche mese in Inghilterra, a Cambridge, dove egli studiava al Trinity College, e poi a Torino. Infine si trasferiscono a Roma, avendo egli avuto una cattedra di letteratura inglese alla facoltà di magistero. I bambini continuano gli studi a Roma.

Natalia Ginzburg ha continuato a firmare i suoi libri nello stesso modo, anche dopo il secondo matrimonio, perché ormai con questo nome aveva pubblicato libri, traduzioni e articoli, e cambiare nome di nuovo le sembrava una complicazione.

Nel ‘52, pubblica un romanzo, Tutti i nostri ieri. Nel ‘57, una raccolta di tre racconti, Valentino. Vince con questi il premio Viareggio.

Nel ‘57, a Torino, le era morta la madre, per un improvviso infarto.

Nel ‘59, segue il marito a Londra, dove egli è stato chiamato a dirigere l’Istituto italiano di cultura, e soggiorna qui per due anni. Nel ‘61, pubblica una raccolta di saggi, Le piccole virtù. Nel ‘62, un romanzo, Le voci della sera, scritto a Londra in una casa presso Holland Park. Nel ‘62, è di nuovo a Roma. Torna anche il marito, essendo terminato il suo mandato, e riprende l’insegnamento. Si stabiliscono in una casa nel centro si Roma, che avevano comprato prima di partire per l’Inghilterra.

Nel’63, Natalia Ginzburg pubblica un romanzo autobiografico, Lessico famigliare. Vince il premio Strega. È questo il primo fra i suoi libri che abbia successo di pubblico. I suoi precedenti libri non ne avevano molto, o anzi non ne avevano affatto.

Nel ‘64, muore il padre. Aveva novantatre anni. Era stato un grande scienziato, noto anche all’estero. Fu malato per alcuni mesi, ma continuò fino all’ultimo a conservare rapporti con i suoi allievi, discutendo di argomenti scientifici. Rita Levi Montalcini, che fu sua allieva, ne ricorda nelle sue memorie gli ultimi giorni. Egli aveva letto il romanzo autobiografico Lessico famigliare, dove era ritratto con il resto della famiglia, e si era arrabbiato e anche ne aveva riso. Muore a Torino, nell’ospedale di San Giovanni.

Nel ‘65, Natalia Ginzburg scrive una commedia, Ti ho sposato per allegria,che viene rappresentata dal Teatro Stabile di Torino, e recitata da Adriana Asti. Seguono altre commedie, in quegli anni: L’inserzione; La segretaria; Fragola e panna. L’inserzione vince il premio Marzotto. Viene rappresentata a Londra, al National Theatre, recitata da Joan Plowright, con la regia di Laurence Olivier. Le critiche sono tutte o quasi tutte negative. L’autrice tuttavia considera bello e lusinghiero, per quella sua commedia, avere avuto una simile rappresentazione, recitazione e regia. Ha assistito alla prima, con il marito, e ne hanno conservato entrambi un ricordo felice.

L’inserzione sarà poi rappresentata in Italia, con la regia di Luchino Visconti, e vi reciterà Adriana Asti. Sarà anche poi ripresa a Parigi, con Suzanne Flon.

Nel ‘69, Gabriele Baldini muore a Roma, all’ospedale San Giacomo, per una epatite virale.

Nel ‘70, Natalia Ginzburg pubblica una raccolta di saggi, con il titolo Mai devi domandarmi. Si tratta di alcuni articoli stampati sui giornali nel corso degli anni, e di scritti ancora inediti, di varia natura. Per dieci anni, fra il ‘68 e il ‘78, essa collabora a giornali con una certa regolarità. Poi smette, perché lo scrivere sui giornali con troppa frequenza le riesce a un tratto pesante e le sembra nuocere alla sua scrittua.

Mai devi domandarmi lo pubblica da Garzanti, avendo avuto dei problemi con la sua casa editrice di sempre. Nel ‘73, di nuovo da Garzanti, pubblica una raccolta di commedie dal titolo Paese di mare. Nello stesso anno, un romanzo, Caro Michele, che esce da Mondadori. Nel ‘74 ancora una raccolta di saggi, Vita immaginaria, che esce da Mondadori. Con Einaudi aveva avuto dissensi, ma torna a dare a Einaudi, nel ‘77, due racconti lunghi, Famiglia e Borghesia. Escono in quello

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stesso anno con il titolo Famiglia. Lavora di nuovo nella casa editrice Einaudi, come consulente, a pieno tempo. I libri che in seguito scrive sono di nuovo pubblicati da Einaudi: La famiglia Manzoni nell’83, La città e la casa, romanzo epistolare, nell’ 84. Nell’83, viene eletta come deputato alla camera, nelle liste del Partito comunista. Era stata iscritta al Partito comunista, fra il ‘46 e il ‘52, e a indurla a iscriversi era stato l’amico Felice Balbo. Ma poi non aveva più ripreso la tessera. Non è iscritta al Partito comunista, né a nessun partito, sentendo una sorta d’impossibilità ad appartenere ad un partito. Viene eletta al Parlamento nel gruppo degli indipendenti di sinistra. Ha esitato molto prima di accettare, perché ritiene di non avere per nulla una testa politica. Vorrebbe però essere utile al Partito comunista, come può. Prova una profonda ammirazione per Enrico Berlinguer. Viene eletta, e lascia il lavoro alla casa editrice.

Nell’83, traduce Madame Bovary di Flaubert, che esce nello stesso anno, nella collana ideata da Giulio Einaudi, «Scrittori tradotti d scrittori». Nell’86 traduce, sempre, per Einaudi, Il racconto di Peuw, bambina cambogiana. Ha chiesto lei di tradurlo, essendone stata fortemente colpita .

Nell’88 scrive una commedia, L’intervista, che viene rappresentata al Piccolo Teatro di Milano, recitata da Giulia Lazzarini. l’aveva scritta per Giulia Lazzarini, nello stesso modo come, anni prima, aveva scritto Ti ho sposato per allegria per Adriana Asti.

Sulla fine dell’89, scrive un breve saggio, Serena Cruz o la vera giustizia, che pubblica nel febbraio del ‘90.11

L’autobiografia, seppure in alcuni punti evidenzi rimandi a impressioni personali, procede, fino a questo punto, lucida e formale. Sul finale, tuttavia, la Ginzburg si concede, in un respiro profondamente lirico, una riflessione, l’ultima, che rivela la fragilità di una donna che ha lottato per una vita intera e ne è uscita, di sicuro, vincitrice:

Natalia Ginzburg vive a Roma, sempre nella stessa casa del centro. È tuttora deputato alla camera. Qualche volta, ma in modo discontinuo, scrive sui giornali.

Vive con la figlia Susanna, gravemente inferma dai primi mesi di vita. L’infermità della figlia le impedisce di pensare alla propria morte tranquillamente. Tuttavia ha fiducia nella provvidenza, nell’affetto degli altri figli, negli angeli custodi. Benché in modo caotico, tormentato e discontinuo, crede in Dio.12

L’ultima, lapidaria, affermazione, chiude l’intera raccolta di saggi da cui è tratto il testo con la dichiarazione della necessità di credere in un dio superiore. La poesia che apre il volume, intitolata per l’appunto Non possiamo saperlo, è la manifestazione più alta di

11 N. GINZBURG, Autobiografia in terza persona in Id., N. GINZBURG, Non possiamo saperlo.Saggi 1973-1990, cit. pp. 177-183. Dalle notizie biografiche manca la stesura dell’ultimo lavoro teatrale, Il Cormorano, scritto nella primavera del 1991(e apparso per la prima volta in N. GINZBURG, Tutto il teatro, Domenica Scarpa (a cura di), Einaudi, Torino, 2005) e la notizia della morte, avvenuta nella notte tra il 6 e il 7 ottobre del 1991 a Roma. È da segnalare, inoltre, la presenza di una svista che Domenico Scarpa inserisce nelle Note ai testi: Le voci della sera uscì nel 1961, Le piccole virtù nel 1962.

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tale bisogno che coincide, nella scrittrice, nell’esigenza di un’identità rassicuratrice in bilico tra l’appartenenza e l’esclusione dalla cultura ebraica. Il senso di inadeguatezza e diversità della Ginzburg bambina, influenzata dalla manifesta dichiarazione di ateismo della famiglia, finisce per sfociare, dopo gli eventi traumatici della sua vita, in un’appartenenza alla cultura ebraica che trascende i limiti della religione e si manifesta in pura solidarietà.13 Tale sentimento si traduce in un insieme di valori che rappresentano gli spunti principali delle opere di Natalia Ginzburg: affiora sempre lo sguardo ilare, lucido e anticonvenzionale di una scrittrice che interagisce e sodalizza con il mondo. Così, quando si interroga sulla natura di Dio, non può fare a meno di pensare al ruolo che dovrebbe avere nel rapporto con la divinità:

Non possiamo sapere. Nessuno lo sa.

C’è anche caso che Dio abbia fame e ci tocchi sfamarlo, forse muore di fame, e ha freddo, e trema di febbre, sotto una coperta sudicia, piena di cimici,

e dovremo correre in cerca di latte e legna, e telefonare a un medico, e chissà se subito troveremo un telefono, e il gettone, e il numero.

Nella notte affollata, chissà se avremo abbastanza denaro14. 1.2 IL TEATRO DEGLI ANNI SESSANTA IN ITALIA

Nel maggio del 1965, nel numero 229 della rivista teatrale «Sipario», fu pubblicata un’inchiesta dal titolo Gli scrittori e il teatro. Le domande che furono rivolte agli intellettuali riguardavano la frattura, non di certo nuova nel panorama culturale, esistente in Italia tra gli uomini di lettere e la scena teatrale. Il quesito venne riformulato sulla base di una questione sollevata in passato dalla rivista «Scenario» che, nel 1933, provocò gli intellettuali con la domanda: “Perché i letterati italiani non scrivono per il teatro?” È evidente che il nodo, ancora irrisolto, sia un punto dolente della scena culturale italiana. C’è di più: la questione si protrasse nel tempo fin dai tempi della Commedia dell’arte che 13 Per i rapporti di Natalia Ginzburg con la cultura ebraica cfr. C. NOCENTINI, Ebraismo e Cristianesimo in Natalia Ginzburg in atti del convegno Ebrei migranti: le voci della diaspora (Istanbul, 23 27 giugno 2010)‐ , Raniero Speelman, Monica Jansen e Silvia Gaiga, (a cura di) «Italianistica ultraiectina. Studies in Italian language and culture», vol.7, Utrecht, Igitur Publishing, 2012

14 N. GINZBURG, Non possiamo saperlo in Non possiamo saperlo. Saggi 1971990, cit. pp. 3-4

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nacque in aperto contrasto con il realismo eccessivo della commedia classicista e proponeva, attraverso l’utilizzo delle maschere e dell’improvvisazione, una forma di teatro legata maggiormente agli effetti scenici della rappresentazione. Stando all’analisi condotta da Taviani, alla luce del metodo attuale di fare teatro, «la Commedia dell’arte appare ancora oggi, anacronisticamente, come il teatro degli attori che si opposero al teatro degli autori»15. Da un punto di vista storico, tuttavia, è possibile affermare che, in realtà, ci fu un’ intromissione da parte degli autori nella pratica attoriale vigente. L’esempio lampante è quello di Goldoni che, con la riforma teatrale, ricondusse a metodi razionali e a criteri letterari la commedia. In un processo di assimilazione con il passato, la frattura tra i due ambiti persiste ancora nel ventesimo secolo e assume caratteri più aspri in periodi in cui si avverte sensibilmente il sentore del cambiamento. La spinta innovatrice di inizio secolo porta ad una revisione della drammaturgia italiana, sulla scia di quella europea, ad opera di Pirandello che, con i Sei personaggi in cerca d’autore inaugura un’espressione artistica che rompe i ponti con un passato teatrale fondato sui criteri classici di unità ed armonia. Inoltre la nascita di istituzioni quali la regia e le compagnie sovvenzionate che, durante il regime fascista, diventano strumento di propaganda, tendono ad irrigidire la libera espressione artistica legata al teatro. Il risultato è che alla provocazione della rivista «Sipario» nel 1965 sono tanti gli intellettuali che, riflettendo sulle cause, rispondono contribuendo a sciogliere i nodi di una questione complicata che affonda le proprie radici nel passato.

Risulta utile, ai fini di una comprensione più diretta, leggere per intero le tre domande rivolte agli scrittori:

1) Nei maggiori paesi stranieri esiste un rapporto diretto tra le esperienze letterarie più avanzate e il teatro. Da che cosa dipende secondo lei la frattura che esiste invece in Italia tra gli intellettuali e la scena?

2) Personalmente qual è stata e qual è la sua posizione di autore nei riguardi del teatro?

15 F. TAVIANI, Commedia dell’arte (Influenza della), in A. ATTISANI , Enciclopedia del teatro del ‘900, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 393-400

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3) Va mai a teatro? Ha interesse per qualche autore o qualche personalità del teatro italiano?16

Dalle risposte risulta una totale sfiducia nei confronti del teatro inteso come istituzione che rappresenta sia la società da cui è generato che le convenzioni tradizionali a cui è sottoposto. Alberto Arbasino dichiara di non dedicarsi alla drammaturgia perché «la sola idea che un eventuale copione debba venire esaminato, e possa subire le osservazioni, d’uni dei nostri attori, o d’uno dei nostri registi, bastano a riempir l’animo di un raccapriccio così profondo da indurre a decisioni disperate: non uscir mai dalla narrativa e dalla saggistica»17; Alberto Moravia addita come colpevole la società che non si rispecchia sulla scena e, di conseguenza, non ama sentirsi criticata; Salvatore Quasimodo ritiene che la natura esplicita del teatro, che parla alla società e del pubblico che ne è parte, limita nello stesso tempo una forma di espressione libera dalla censura o da condizionamenti ideologici. Tra gli altri, anche Natalia Ginzburg partecipa attivamente all’inchiesta: concorde con Gabriele Baldini e Pier Paolo Pasolini, ritiene che la causa principale che impedisce la comunicazione tra le due categorie, gli scrittori e gli autori, è la mancanza di un italiano medio che sappia riproporre i toni naturali della conversazione quotidiana.

La vasta partecipazione degli uomini di lettere all’inchiesta conduce la riflessione su due versanti: il fervore degli scrittori porta a pensare, infatti, che la questione fosse già avvertita in maniera molto sensibile; è chiaro, inoltre, come il terreno culturale fosse incline ad un rinnovamento che, negli anni dell’intervista, già operava in Italia. La copertina del numero 229 di «Sipario» rappresenta un segno visibile dell’adesione italiana alle correnti avanguardiste estere: essa ritrae la compagnia newyorchese del Living Theatre in una scena di Mysteries and smaller

pieces, lo spettacolo di Antonin Artaud, teorico del teatro della crudeltà, che

costituisce il manifesto della compagnia.

16 M. RUSCONI, Gli scrittori e il teatro in Sipario 20 (229), maggio 1965, pp. 2-14 17 ibidem

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Sotto la spinta propulsiva delle novità provenienti dall’estero si delinea una tendenza rivoluzionaria nel teatro italiano dei primi anni Sessanta. Il Living Theatre, che a sua volta si rifà alla concezione artaudiana di un teatro mistico che si avvale di musica, gesti, espressioni al fine di toccare i livelli più profondi dell’animo dello spettatore, getta le basi programmatiche di un’idea non convenzionale di teatro: il rifiuto della finzione del palcoscenico, l’abbattimento dei confini tra arte e vita e, quindi, tra attori e pubblico e un linguaggio scenico che si avvale di strumenti gestuali e corporei. L’avanguardia, in Italia, può avvalersi, tra i primi sperimentatori, dei nomi di Eugenio Barba, Carmelo Bene e Leo de Berardinis. Nomi, tra l’altro, che compaiono in una lista ben assortita insieme ad altri intellettuali che, nel 1966, firmarono il manifesto di convocazione per il Convegno sul Nuovo Teatro di Ivrea, pubblicato sul numero 247 della rivista «Sipario». Il gruppo, che si riunì ad Ivrea dal nove al dodici giugno del 1967, si pose come scopo principale quello di combattere l’asfissia del teatro tradizionale, chiuso alle nuove proposte e costretto nella rigidità delle istituzioni. Le proposte del congresso eporediese sono riassumibili nel testo del documento presentato dal gruppo:

La lotta per il teatro è qualcosa di molto più importante di una questione estetica. In una situazione di progressiva involuzione, estesa a molti settori chiave della vita nazionale, in questi anni si è assistito all’inaridimento della vita teatrale, resa ancora più grave e subdola dall’attuale stato di apparente floridezza. Appartenenza pericolosa in quanto nasconde l’invecchiamento e il mancato adeguamento delle strutture; la crescente ingerenza della burocrazia politica e amministrativa nei teatri pubblici; il monopolio dei gruppi di potere; la sordità di fronte al più significativo repertorio internazionale; la complice disattenzione nella quale sono state spente le iniziative sperimentali a cui si è tentato di dare vita nel corso di questi anni. Come conseguenza le realtà italiana e i mutamenti intervenuti nella nostra società così come le nuove tecniche drammatiche e i modi espressivi elaborati in altri paesi non hanno trovato che isolati e sporadici riferimenti nella nostra produzione teatrale. Sono mancati d’altra parte il ricambio e l’aggiornamento delle tecniche di recitazione, l’analisi e l’applicazione di rinnovati materiali di linguaggio, gestici e plastici, mentre lo stesso innegabile affinamento della regia ha finito per risolversi in un estenuato perfezionismo di sterile applicazione, contro ogni possibilità di rinnovamento dei quadri18.

Le categorie prese di mira sono quelle che negli anni a partire dal fascismo si sono configurate come la norma vigente in maniera di teatro. Basti pensare che il 1947, anno della fondazione a New York del gruppo teatrale Living Theatre, in Italia

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coincide con la fondazione del primo teatro stabile, il Piccolo di Milano. Nato come emanazione di un acceso dibattito cominciato negli anni Venti-Trenta, il Piccolo di Milano, su iniziativa di Grassi e Strehler, realizza il concetto, di derivazione gramsciana, di teatro come servizio pubblico, finanziato dagli enti pubblici a cui garantisce costante ed elevata offerta di prodotti artistici e democraticamente accessibile al pubblico più ampio possibile, attento e consapevole. Tale istituzione, che si moltiplica nelle maggiori città italiane negli anni Quaranta e Cinquanta subisce, tuttavia, una drastica revisione in concomitanza con la rivoluzione degli anni Sessanta. Il Manifesto di Ivrea è il documento più emblematico di un atteggiamento aspramente critico nei confronti degli stabili: le accuse che vengono rivolte al cosiddetto teatro ufficiale investono tanto la struttura organizzativa e la funzione istituzionale, quanto la politica culturale e l’indirizzo artistico degli stabili pubblici, che vengono considerati incarnazione di un modello teatrale autoritario e verticistico, inadeguato al mutare dei tempi e incapace di operare il necessario rinnovamento della scena teatrale19. A livello sostanziale, invece, il gruppo eporediese, ponendosi in aperto contrasto con il teatro tradizionale di cui la regia è la più alta manifestazione, riapre quel contrasto autore – attore che aveva acceso la polemica appena due anni prima. Al copione scritto dall’autore si affianca un testo che renda la rappresentazione spettacolare attraverso il concorso di diversi elementi, quell’insieme di parole, azioni, movimenti, effetti, a cui partecipano scenografi, registi, fonici, attori, musici. Inoltre, la sperimentazione elabora il concetto di un teatro, denominato “laboratorio”, che ha come prerogativa quella di rispondere alla necessità di porsi programmaticamente come struttura aperta, sia dal punto di vista del linguaggio che su quello dei mezzi e degli strumenti scenici; a questo si affianca la definizione di “teatro collettivo”, un modo di intervento diretto nel corpo della società che si ponga in maniera problematica con la realtà stessa e non con un atteggiamento moralistico20.

19 Per un maggiore approfondimento sull’argomento cfr. C. MERLI, Il teatro ad iniziativa pubblica in Italia, LED Edizioni Universitarie, Milano, 2007

20 Per la lettura completa del programma cfr. F. BONO, Dossier Ivrea 1967.Il programma e la cronaca in «ateatro», n.108, 27 aprile 2007,

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http://www.ateatro.it/webzine/2007/04/27/dossier-Il fatto che, ad oggi, le informazioni riguardo il congresso d’Ivrea siano poche e sporadiche è sintomatico del fallimentare tentativo di creare un programma sistematico che fornisse le linee guida per il nuovo teatro. Tuttavia il panorama culturale italiano ha risentito fortemente della crisi raggiunta alla fine degli anni Sessanta: la riflessione sui temi toccati dal gruppo sperimentale ha condotto molti intellettuali a mettersi alla prova dando luce a nuove prospettive dal punto di vista teatrale. Pasolini, nel 1968, redige il Manifesto per un nuovo teatro polemizzando con le esperienze avanguardiste che erano emerse dal congresso. Inoltre, tra gli scrittori che si cimentano in prove teatrali è inclusa anche Natalia Ginzburg. La scrittrice, che ammette di aver cominciato per gioco dopo la provocazione dell’inchiesta pubblicata da Sipario, si mostrerà un’appassionata drammaturga con un’intensa attività di scrittura teatrale che continuerà ininterrotta fino al 1988, anno de L’intervista, per concludersi con l’ultimo episodio isolato de Il

cormorano nel 1991.

Dagli scritti personali si evince quanto la Ginzburg sia partecipe, anche se in penombra, delle novità che stravolgono la scena culturale italiana. È significativo il commento dell’autrice sulla tragedia Ferai di Eugenio Barba:

Ferai è una tragedia danese, il cui regista è pugliese e si chiama Barba. Ne avevo

sentito parlare molto. C’era posto ogni sera solo per sessanta persone, perché il regista (Barba) non desidera che questo numero sia superato. La davano nella Galleria d’Arte Moderna. Confesso che amo i veri teatri e non i garage, o le cantine, o le gallerie d’arte. Sarò, forse, reazionaria. Quando siamo entrati nella sala, ho visto un cerchio di sedie, nessun palcoscenico, dei cenci per terra e un grosso uovo d’avorio. Ho pensato «Dio che noia». Sapevo che avrebbero recitato in danese e che quindi non avrei capito nulla. La rozza traccia della trama, che avevo letto sul programma, mi diceva poco. Ma appena sono entrati gli attori, e si sono messi a recitare intorno a quell’uovo, m’è sembrato che stesse accadendo qualcosa di straordinario. Era meraviglioso. Mi sto ancora chiedendo cosa mai fosse così bello. Io non l’ho capito. Non so se il dolore e la bellezza venivano dalla storia, che capivo poco e in modo confuso, o dalle voci degli attori o dai gesti. Eravamo là, sessanta persone, immobili, senza fiato e rapite in un’emozione felice e profonda, in presenza di qualcosa che era insieme dolore, fantasia e pensiero21.

L’atteggiamento della Ginzburg nei confronti delle novità è sempre positivo. Nella pratica letteraria non si limita ad un esercizio puramente stilistico. L’attenzione costante che rivolge alle trasformazioni sociali si evince, anche nel teatro, nel fatto

ivrea-1967-il-programma-e-la-cronaca/

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che non evita di toccare temi scottanti della sua contemporaneità: tra le vicende dei personaggi traspare, così, l’interesse dell’autrice nei confronti di questioni quali l’aborto, il divorzio, la psicanalisi, i disturbi alimentari. Allo stesso modo, a livello strutturale, dà prova di un’acuta riflessione riguardo i presupposti che la neoavanguardia ha postulato. Si assiste, quindi, alla realizzazione di alcuni punti cruciali delle nuove proposte: il rifiuto delle didascalie descrittive in pieno accordo con l’idea di «eliminare la scenografia in senso tradizionale e di considerare lo spazio scenico come la forma temporale e spaziale dell’azione drammatica»22. Infatti la Ginzburg, che si insinua silenziosa nello spirito di innovazione compone, entro le mura antiquate del rassicurante salotto borghese, uno stravolgimento del solito quadretto. Affiorano, sotto la facciata tranquillizzante dell’ambiente domestico, la complessità e le contraddizioni delle relazioni umane. A tal proposito, anche l’oggetto scenico, come postulato dalla neoavanguardia, assume il significato di «“tramite”, la “relazione” tra la gestualità e l’azione drammatica»23. Afferma, invece, di aver bisogno della collaborazione del regista che sa come rendere teatrale un testo. Dichiarazione, questa, che lascia intravedere lo spirito reale della Ginzburg: la creazione letteraria pura si pone al di là della banale classificazione. Un testo, teatrale, narrativo o saggistico, diventa letteratura nel momento in cui riesce a trasmettere «dolore, fantasia e pensiero»24. Pur mostrando un grande interesse per le opere più all’avanguardia, con l’ingenuità di chi si lascia trasportare, la Ginzburg si propone di accettare le sfide letterarie a patto che, al di là di ogni classificazione, si riduca tutto ad una parola, poesia:

Così allora, quando siamo usciti io e quella persona, lui era trionfante e m’ha detto che dunque avevo finalmente capito che il teatro non è parola. […] Gli ho detto che né lui né io sapevamo cosa fosse il teatro. E gli ho detto che benché mi fosse tanto piaciuto Ferai, non vedevo però perché mai una cosa dovesse ucciderne un’altra. Non vedevo perché dovesse essere vietato amare anche un’altra sorta di teatro. Quello che oggi viene definito «inattuale». E anche se amo Ferai vorrei però ugualmente e sempre trovarmi seduta in un piccolo teatro, su una poltrona, in

22 F. BONO, Dossier Ivrea 1967.Il programma e la cronaca cit. «ateatro» 23 Ibidem

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penombra e silenzio, fissare un sipario che si apre e sentir dire le parole indimenticabili: «Deboto xè finío carneval»25.

(18)

2.

IL TEATRO

2.1 DIFFICOLTÀ NELLA DEFINIZIONE DI GENERE

Prima di entrare nel merito della produzione teatrale di Natalia Ginzburg, occorre un’analisi formale mirata alla definizione del genere. Il punto di partenza obbligatorio è il termine con cui vengono identificati i testi teatrali: quello di commedia.

Ad una prima analisi lo stile di scrittura teatrale della Ginzburg sembrerebbe combaciare perfettamente con le caratteristiche del genere commedia. Fedele appassionata del Goldoni, la Ginzburg presta particolare attenzione al realismo psicologico perfezionato da una minuziosa verosimiglianza linguistica che sfocia spesso nella struttura dialettale della lingua dei personaggi. E da Goldoni la Ginzburg sembra aver ripreso, forse in maniera inconsapevole, l’interesse, di origine popolare, per i caratteri. I personaggi delle commedie danno l’impressione di corrispondere a tipi classificabili nell’immagine della ragazza giovane e sprovveduta, nella donna disillusa e nell’uomo vittima dei propri fallimenti. Risulta, inoltre, in maniera evidente, l’equivoco, tratto essenziale dell’intreccio tipico della commedia, ma manca il lieto fine. Seppure questo aspetto sia ricorrente nei testi teatrali della Ginzburg occorre una precisazione: a mancare, infatti, non è specificamente il lieto fine ma qualsiasi conclusione definitiva. Da un punto di vista tecnico la struttura delle commedie è aperta. Non sono riportati gli antefatti delle vicende e manca, oltre alla conclusione, una vera e propria scena iniziale; al contrario, l’incipit in medias res è caratteristico di tutte le commedie. Ne sono un esempio le battute iniziali di Pietro («Il mio cappello dov’è?»26) oppure di Francesco («Allora?»27); inoltre è molto frequente l’espediente telefonico utilizzato ne La segretaria, La parrucca e La porta sbagliata che introduce il lettore immediatamente nell’azione. Ancora, ciò che conferisce alle 26 N. GINZBURG, Ti ho sposato per allegria, in Id., Tutto il teatro, Domenico Scarpa (a cura di), Einaudi, Torino, 2005, p. 9

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commedie della Ginzburg la caratteristica struttura aperta è il susseguirsi autonomo degli episodi che risultano, solo ad un’analisi più approfondita, connessi in maniera causale: in Fragola e panna, ad esempio, si capisce solo in un secondo momento che la disperazione di Barbara per l’amore non corrisposto di Cesare e per la conseguente violenza del marito, la spinge a correre ai ripari in casa di Flaminia, moglie di Cesare. Il collante degli episodi è la tematica principale della commedia che ricorre in maniera ridondante in tutta la trama: la paura dell’abitudine in Paese di mare, il disturbo alimentare di Angelica ne La

porta sbagliata, l’inesorabilità del tempo che passa ne L’intervista. Le commedie,

nell’insieme, esibiscono, ognuna con il proprio contenuto, le diverse facce di uno stesso volto: la disperazione per attese e amori non corrisposti e l’angoscia del silenzio interiore che congela i rapporti interpersonali in un brusio di voci frenetiche che riempiono i vuoti dell’esistenza con chiacchiere abitudinarie e inconsistenti. I dialoghi tra i personaggi sono in realtà racconti in prima persona, sfoghi, fatti sempre con un certo distacco: nello scorrere della conversazione-monologo, si prospetta sempre, come una rivelazione, l’idea del cambiamento che, tuttavia, si manifesta subito illusoria a causa del carattere arrendevole dei personaggi. A questo proposito Barbara Nuciforo Tosolini parla di “moto circolare”:

È un teatro che sostituisce al tradizionale principio della progressione quello dell’accumulo; che precisa e dilata una situazione di partenza senza modificarne sostanzialmente i dati; che svolge le sue dimesse cerimonie in uno spazio neutro, essendo le indicazioni scenografiche prive di riferimenti concreti. Il moto circolare conduce verso il grado zero della tensione psicologica, ed è una riprova dell’impossibilità della tragedia, oggi, mentre il dramma può essere sfiorato solo per vie traverse. L’angoscia è trattenuta da una serpeggiante ironia che permette quel tanto di distacco che è necessario per continuare a elencare parole, immagini, pretesti di discorsi; il tutto rimanendo saldamente ancorati alla dimensione del quotidiano, punto di partenza trito e logoro della vita e ritorno inevitabile.28

In quest’ottica l’unico modo di vivere la vita, per i personaggi, è quello di subirla: i protagonisti condannano continuamente se stessi ad un circolo vizioso che torna sempre uguale. Un caso emblematico è quello de L’intervista, la cui unica didascalia fornisce un’importante indicazione temporale:

28 B. NUCIFORO TOSOLINI, Il teatro di Natalia Ginzburg in Filologia moderna. Sezione Italiana e Romanza, Pacini Editore, Pisa, 1991, pp. 157-177

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Questa commedia si svolge in una casa nella campagna toscana. Inizia nell’anno ’78 e termina ai giorni nostri. 29

Il trascorrere degli anni è dettato, in questa commedia, dalla didascalia e dalla scansione visiva del testo in tre atti. Se mancassero questi elementi il lettore sarebbe condotto fuori strada. La circolarità del testo è evidenziata dalla ripetitività delle scene che, a sua volta, manifesta la fredda monotonia della vita trascorsa passivamente.

A questo proposito occorre esaminare gli incipit dei tre atti:

PRIMO ATTO MARCO: Buongiorno.

ILARIA: Buongiorno. Lei chi è?

MARCO: Sono Marco Rozzi. Sono dell’Ariete. [...]

SECONDO ATTO MARCO: Buongiorno.

ILARIA: Buongiorno. Lei chi è?

MARCO: Chi sono? Sono Marco Rozzi. «…» [...]

TERZO ATTO MARCO: Buongiorno.

ILARIA: Buongiorno. Lei chi è?

MARCO: Sono Marco, Ilaria. Marco Rozzi. «…»30

Anche L’inserzione offre uno spunto interessante che conferma quanto appena detto. L’incipit e il finale sembrano annullare completamente la vicenda che si è dipanata nei tre atti:

ATTO PRIMO

Suona un campanello. Teresa apre. Entra Elena. TERESA: Buongiorno.

ELENA: Buongiorno. Avevo telefonato stamattina. Vengo per l’inserzione sul «Messaggero». Mi chiamo Elena Tesei.

TERESA: Quale inserzione? Ho messo tre inserzioni. ELENA: La stanza.

[…] Scoppia a piangere. Suona un campanello. Teresa si asciuga gli occhi con le mani. Apre. Entra Giovanna.

GIOVANNA: Buongiorno. Ho telefonato qualche ora fa. Vengo per l’inserzione sul giornale. Mi chiamo Giovanna Ricciardi.

TERESA: Quale inserzione? Ho messo tre inserzioni. 29 N. GINZBURG, L’intervista in Id., Tutto il teatro, cit. p. 191

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GIOVANNA: La stanza. 31

Questo primo assaggio dei testi ci fa diffidare dalla piena adesione della drammaturgia della Ginzburg alla definizione di commedia. La sensazione che lascia la lettura di queste opere è quella di una leggerezza tragica. Questa apparente contraddizione nasconde il nucleo vitale della tecnica della scrittrice che, con piglio ironico, riesce a fare in modo che la lettura prosegua snella e veloce, celando, al termine, una strana pesantezza: la rivelazione tragica dell’inerzia in cui i personaggi subiscono le proprie vite. Tuttavia, il tragico della Ginzburg non deve condurre fuori strada. Non si tratta infatti di un’appartenenza al filone della letteratura che, prendendo le mosse da D’Annunzio, propone, nel Novecento, la tragedia classica rivisitata in chiave moderna32. Aprendo una parentesi, la revisione moderna della tragedia si propone di andare oltre il genere e attualizzare, invece, il concetto di tragico. Ne La nascita della tragedia Nietzsche che, nella musica di Wagner, data l’originaria natura sonora della parola, intravede la possibilità di una rinascita del tragico, individua la morte del genere nella separazione tra linguaggio e musica e, quindi, nella contrapposizione tra uomo razionale (apollineo) e uomo intuitivo (dionisiaco). L’uomo intuitivo, maggiormente esposto al dolore, è l’eroe tragico, che vive la sofferenza in modo assoluto. Nell’esaltazione della componente dionisiaca che permette di oltrepassare i limiti razionali e di raggiungere tale assolutezza, può rivivere l’essenza del tragico «che è visto come l’opposizione alla norma, come l’esaltazione dell’eccezione, come il rifiuto dell’ordine»33.

Alla luce di queste riflessioni risulterà utile un confronto con i Sei personaggi in

cerca d’autore e Il dio Kurt. Il dramma di Pirandello si consuma e diventa

tragedia nel momento in cui si attua l’oggetto della rappresentazione: il dramma è reale tanto che la Bambina annega per davvero e il Giovinetto si spara sul serio.

31 N. GINZBURG L’inserzione in Id., Tutto il teatro, cit. pp. 67, 106

32 Per un approfondimento sul tema della rinascita della tragedia nel Novecento cfr. A. GUIDOTTI, Forme del tragico nel teatro italiano del Novecento. Modelli della tradizione e riscritture originali, Edizioni ETS, Pisa, maggio 2016

33 G. BARBERI SQUAROTTI, Le tragedie del Novecento italiano, in Id., Le sorti del tragico, p. 97

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Una volta compiuta, la tragedia non è più rappresentabile. Lo stesso accade ne Il

dio Kurt di Moravia: l’esperimento sociale viene messo in atto e ciò che è

accaduto non può più essere rappresentato. Attraverso l’espediente tecnico del metateatro nei due drammi la realtà diventa assoluta poiché riesce a manifestarsi nella sua crudeltà. In tal senso le opere della Ginzburg esprimono, piuttosto, l’impossibilità della forma tragica, resa ancor più evidente con la riduzione borghese dei sentimenti alle esigenze della verosimiglianza per cui tutto ciò che accade risulta una mera e logica conseguenza del travaglio psicologico34. Tuttavia la situazione si complica nel momento in cui si riflette sul binomio tragedia – impossibilità della tragedia. Il ricorso a Nietzsche può, ancora una volta, risultare utile. Ne La nascita della tragedia scrisse che «La tragedia antica […] non si curava affatto dell’agire […] bensì del patire[…]. L’azione intervenne soltanto quando sorse il dialogo»35. L’intervento della parola resa indipendente dalla musica avrebbe provocato la morte della tragedia. Se Pirandello e Moravia, entro i limiti consentiti dal tragico, rendono possibile l’azione tramite l’espediente del

teatro dialettico36, nei testi della Ginzburg si assiste davvero all’annullamento dell’agire fisico. Lo sviluppo dell’azione è affidato alla parola: quel che rende impossibile lo slittamento nel genere tragico è, innanzitutto, il persistente atteggiamento ironico dell’autrice finalizzato a sdrammatizzare; inoltre l’utilizzo inconsueto di un linguaggio prolisso che funge da riempimento ai vuoti esistenziali. Tutto ciò annulla la possibilità di un’eventuale tragedia. Nel finale di

Fragola e panna, nonostante la fuga di Barbara faccia pensare ad un epilogo

catastrofico, la Ginzburg lascia volontariamente in sospeso la vicenda e, invece, fa pronunciare a Cesare queste parole:

CESARE: Voi non avete capito niente, non è mica una tragedia questa, è una barzelletta. La vita è molto avara di tragedie, e ci regala invece una fioritura di barzellette.37

34 Ivi, p. 98

35 Citazione riportata in C. GENTILI, G. GARELLI, Introduzione in Id., Il tragico, Bologna, Il Mulino 2010, pp. 1-77, in part. p.14 ripresa da F. NIETZSCHE, Il dramma musicale greco, tr. it. di G. Colli, OFN, vol. III/II, p. 18.

36 Moravia definisce così il metateatro in A. MORAVIA, La chiacchiera a teatro (1967), in Id., Teatro, vol. II, pp. 868-885, in part. p. 883.

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C’è autoreferenzialità in questi versi: con i suoi dialoghi l’autrice va oltre la scarna e realistica rappresentazione della realtà per indagare sulla centralità dei rapporti umani in un’epoca che lei vive con il distacco lucido di chi ha sulle spalle il fardello della propria, traumatica, esperienza di vita. Il peso del passato e l’insoddisfazione nel presente, che i personaggi condividono con quelli cecoviani, rappresentano gli strascichi di una società risorta dalle ceneri di una guerra disumana che, però, si ostina a celare la memoria delle rovine disastrose che porta con sé.

È possibile giungere a queste considerazioni dopo aver riflettuto sull’intera opera di Natalia Ginzburg e, soprattutto, su quell’autobiografia in pillole costituita dalla grande mole di pensieri sparsi e, poi, pubblicati in diversi volumi.

A questo proposito è interessante cosa scrive l’autrice nel saggio Il teatro è parola contenuto in Mai devi domandarmi:

Una persona mi dice: Goldoni è teatro borghese. Rispondo che mi sembra una stupidaggine senza nome. Mi dice: tu di teatro non capisci niente. La tua concezione di teatro è reazionaria, conservatrice, borghese. Gli rispondo che non ho nessuna concezione del teatro. E gli rispondo però che l’aggettivo «borghese» lo detesto.[…] Mi dice che comunque il teatro vivo, il teatro attuale, non è più il teatro borghese perché la borghesia è carica di senso di colpa e quindi tace. Gli rispondo che non solo la borghesia, ma l’intero universo è carico di senso di colpa, e quindi tace o si esprime a fatica. […] Gli dico: termini come «borghese», «nuovo», «vecchio», «attuale», «inattuale», riferiti a Goldoni, sono destituiti di senso. […] Goldoni era un poeta. Un poeta non destina mai la sua opera a una società; lo sappia o non lo sappia, egli la destina all’uomo. Nelle commedie di Goldoni si riflettono sì le strutture della società in cui viveva, ma l’essenza della sua opera non è in questo riflesso effimero e transitorio.[…] Hanno detto che il teatro è crudeltà. Che senza crudeltà non c’è teatro. Che il pubblico dev’essere offeso, straziato, lacerato, sanguinare e dilaniarsi nel profondo. Confesso che non capisco. Penso che qualche volta ci si senta feriti e qualche volta no. Penso che il teatro non possa essere una cosa diversa dalla poesia. La poesia qualche volta ci strazia e qualche volta no. 38

Il saggio, condensato in questi concetti, risulta la chiave per comprendere il terreno sul quale si muove la Ginzburg drammaturga. Già il titolo fornisce indicazioni chiare di poetica: il teatro è parola. Titolo che riconduce direttamente al dibattito letterario avviato da Pier Paolo Pasolini nel 1968 con Il Manifesto per

un nuovo teatro.39.

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Pasolini intendeva condurre la sua polemica nei confronti dei recenti sviluppi della drammaturgia: il Teatro della Chiacchiera e il Teatro del Gesto e dell’Urlo. Tale polemica anti-borghese era finalizzata a restituire alla parola, veicolo di significato, la pregnanza originaria escludendo da questo processo il pubblico abituato ad assistere a rappresentazioni teatrali per divertirsi o per scandalizzarsi. I destinatari del nuovo teatro, sarebbero, invece, i «gruppi avanzati della borghesia, ossia le poche migliaia di intellettuali di ogni paese il cui interesse culturale sia magari ingenuo, provinciale, ma reale».40

L’intenzione reale di Natalia Ginzburg è altra rispetto a questa: fedele alla sua pratica di evasione da qualsiasi regola fissa, il teatro della Ginzburg è rivolto al mondo. Allo stesso modo delle commedie di Goldoni, anche la sua opera è ben inserita in un contesto sociale evidente, rappresentato dall’Italia borghese del dopoguerra proiettata verso il benessere dello sviluppo economico. Come tale, l’ambientazione non potrebbe essere diversa. Ma l’affermazione «non solo la borghesia, ma l’intero universo è carico di senso di colpa, e quindi tace o si esprime a fatica» è una rivelazione: nei salotti italiani contemporanei, all’epoca in cui li descrive l’autrice, è rappresentata un’intera generazione sofferente che guarda al futuro in maniera ambiziosa senza, tuttavia, riuscire a scrollarsi di dosso il peso del passato. In quest’universo confuso calza a pennello la chiacchiera. Qui si apre un’ulteriore parentesi: la chiacchiera contro cui si scaglia Pasolini è il discorso irreale e privo di senso della borghesia, anch’essa svuotata di qualsiasi ambizione. Per la Ginzburg si tratta di altro: la chiacchiera è l’unico strumento che i personaggi hanno a disposizione per sentirsi vivi. I suoi personaggi devono chiacchierare per manifestare al mondo la loro presenza. Ciò che si nasconde dietro questo modus vivendi è una grande solitudine e un immenso silenzio. Silenzio e senso di colpa: due parole significative, da tener sempre presenti nel momento in cui ci avviciniamo alle opere di Natalia Ginzburg. La scrittrice,

39 P. P. PASOLINI, Il Manifesto per un nuovo teatro, in «Nuovi Argomenti», nuova serie, n.9, marzo 1968, pp. 6-22

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infatti, con una lucidità schiacciante, definisce entrambi «i vizi più strani e più grandi della nostra epoca»:

Per pagine e pagine, i nostri personaggi si scambiano delle osservazioni insignificanti, ma cariche d’una desolata tristezza: «Hai freddo?» «No, non ho freddo». «Vuoi un po’ di tè?» «Grazie, no». «Sei stanco?» «Non so. Sì, forse sono un po’ stanco». I nostri personaggi parlano così. Parlano così per ingannare il silenzio. Parlano così perché non sanno più come parlare. A poco a poco vengono fuori anche le cose più importanti, le confessioni terribili: «Lo hai ucciso?» «Sì, l’ho ucciso». Strappate dolorosamente al silenzio, vengono fuori le poche, sterili parole della nostra epoca, come segnali di naufraghi, fuochi accesi tra colline lontanissime, flebili e disperati richiami che inghiotte lo spazio. 41

Dunque la chiacchiera a teatro42 per Natalia Ginzburg non è uno strumento di evasione donato al pubblico all’unico scopo di divertirsi, bensì è portatrice di una grande verità che resta nascosta sotto la patina ironica della parola apparentemente evasiva. L’unica tipologia di teatro resta, per la Ginzburg, quella affidata alla parola. Una parola diversa da quella tragica, una parola musicale, incalzante, che svela, senza annoiare, l’equilibrio effimero e precario delle vite rappresentate. È il caso di parlare di “chiacchiera simbolica” azzardando, ancora una volta, un confronto con Cechov. Moravia nota come i personaggi di Cechov utilizzino la chiacchiera per scongiurare il presentimento di una catastrofe incombente, quella della rivoluzione socialista che avrebbe eliminato, in via definitiva, la borghesia. Nell’epoca moderna il pericolo della catastrofe conseguente al Fascismo è già stato allontanato ma permangono «le condizioni che l’avrebbero giustificata»:

Il presentimento della catastrofe in una simile situazione diventa attesa senza nome, coscienza colpevole e infelice, ansia metafisica, alienazione senza trascendenza. 43

Sorge spontanea una domanda: perché i testi teatrali della Ginzburg, carichi di una stanchezza metafisica, paradossalmente risultano piacevoli e lasciano spazio a qualche risata?

La Ginzburg dichiara che una prerogativa che impone a se stessa nel redigere un copione è quella di non annoiare44. Altrove, però, dichiara di «sentirsi schiacciato 41 N. GINZBURG, Silenzio tratto da Le piccole virtù, in Id., Opere, vol.1, I Meridiani, Mondadori, Milano 2013, p. 855

42 espressione che riporta il titolo del saggio di Moravia: A. MORAVIA, La chiacchiera a teatro (1967), in Id., Teatro cit. pp. 868-885

43 A. MORAVIA, Teatro, cit., p.875

44 prerogativa dichiarata in un’intervista rilasciata a MANLIO CANCOGNI, L’ho sposato per obbligo. Conversazione con Natalia Ginzburg, in «La Fiera letteraria» XLIII, n. 25, 20 giugno

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dall’idea di scrivere soltanto per decifrare se stesso» e ancora che «il vero gli porta ai piedi memorie che lo fanno soffrire. Si è abituato, sì, a scrivere oppresso da un cumulo di rovine; però ha paura che, toccando tante memorie, gli si brucino le mani e gli occhi».45

L’unico modo per raccontare il vero senza soffrire e senza annoiare è il ricorso ad un distacco emotivo che può essere reso tale solo grazie ad una riflessione approfondita. È la riflessione tipica dell’arte umoristica, qualità che Pirandello ha rivendicato come forma di libertà d’espressione. Fondando la propria arte sulla dissonanza e sulla contraddizione di sentimenti opposti, la Ginzburg riesce a dare vita a quel sentimento particolare, nutrito di riflessione, che Pirandello ha definito

sentimento del contrario.

2.2 LE COMMEDIE

Il teatro, nella produzione artistica di Natalia Ginzburg, si configura come una tappa abbastanza recente. La stesura dei testi teatrali comincia nel 1965, anno della prima commedia intitolata Ti ho sposato per allegria. Prima di tale data la Ginzburg, infatti, si è occupata innanzitutto di narrativa compiendo un percorso creativo che va dalla forma del racconto fino ad arrivare alla forma più composita del romanzo. È del 1963 la pubblicazione del meraviglioso romanzo autobiografico Lessico famigliare.

Dalle letture personali dell’autrice è possibile ricostruire il percorso che ha portato alla stesura del primo testo teatrale. In un articolo del 1968 pubblicato su «La fiera letteraria»46, alla domanda, rivolta agli scrittori, dell’inchiesta promossa da «Sipario» «Perché non scrivete per il teatro?», la Ginzburg rispose, «perché mi ripugna». Motivazione confermata più volte, in vari interventi.

Si potrebbe affermare, quasi certamente, che alla Ginzburg non piaceva andare a teatro, si annoiava.47 Ma occorre capire quale sia la sua concezione di teatro: alla

1968, pp. 5-7

45 Riporto il maschile come nel testo originale: N. GINZBURG, Ritratto di scrittore in Id., Mai devi domandarmi, Einaudi, Torino, 2014, p. 208

46 MANLIO CANCOGNI, L’ho sposato per obbligo, cit. pp. 5-7 47 Cfr. N. GINZBURG, Lui e io in Id., Le piccole virtù, cit., pp. 821-832

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scrittrice, dotata di una grande vena poetica che vien fuori soprattutto nella narrativa, piace raccontare il vero. Le verità profonde dell’animo umano possono essere ricondotte alla realtà oggettiva epurata da tutti gli artifici che impediscono loro di emergere. Così, nell’arte, la Ginzburg è contraria a tutto ciò che possa allontanarla dalla poesia. Di un testo teatrale dice di odiare le didascalie, elemento puramente tecnico, così come dichiara di non capirne «la macchina e i simboli». Quello che, invece, dichiara di amare a teatro

non è profondamente diverso da quello che amo e cerco nei romanzi o nei versi che leggo o che ricordo in solitudine. A teatro amo star seduta, immobile, guardare e ascoltare. Penso che la poesia e il teatro richiedano le stesse cose. Penso che richiedano un’assoluta immobilità, un pieno abbandono, una piena attenzione, un profondo silenzio.48

Fedele alla sua vocazione letteraria, la Ginzburg ritiene che non ci siano differenze tra le varie pratiche di scrittura. Il metodo che adotta per il teatro è quello consueto della forma che le è più familiare, il racconto:

per me, il procedimento teatrale non è molto diverso, nella sostanza da quello narrativo. Parto da un personaggio, che è quasi sempre una donna, da una situazione. E la vicenda cresce, sviluppando quello che c’è dentro questi dati iniziali.49

Coerentemente con questa linea di pensiero, per la Ginzburg un testo diventa davvero teatrale quando il regista ci mette dentro «quello che gli manca»50 perché lui sa come fare in modo che le sue parole arrivino allo spettatore.

Dunque, appurato che un testo, per essere teatrale, necessita della collaborazione tra scrittore e regista, la Ginzburg si pone sempre al di qua della pratica strettamente teatrale. Infatti dichiara di essersi avvicinata al teatro perché quasi costretta. Più che di costrizione, si dovrebbe parlare, invece, di obbligo morale nei confronti del proprio mestiere. Infatti, l’incontro con il teatro, scaturito dalle lamentele degli attori «arrabbiatissimi»51 con gli scrittori perché carenti di iniziative in questo campo, evidenzia una particolare sensibilità dell’autrice attenta agli sviluppi culturali della propria epoca. Dalla richiesta specifica di un testo teatrale da parte dell’attrice Adriana Asti, nasce Ti ho sposato per allegria. 48 N. GINZBURG, Il teatro è parola in Id., Mai devi domandarmi, cit., p.138

49 MANLIO CANCOGNI, L’ho sposato per obbligo, cit. pp. 5-7 50 ibidem

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Inoltre la pubblicazione di Lessico famigliare, noto romanzo (Premio Strega 1963), segna uno spartiacque. Sin da piccola la Ginzburg desiderava scrivere un romanzo della sua famiglia, con le frasi e i modi di dire che la caratterizzavano. Il risultato che ne vien fuori è un romanzo di «pura memoria»52: non una semplice autobiografia, ma uno spaccato sociale e letterario dell’Italia tra le due guerre attraversato dagli aneddoti della famiglia Levi. Attingendo alla «nuda, scoperta e dichiarata memoria»53, la Ginzburg ci regala pagine di pura poesia, scritte in uno stato di assoluta libertà e vicine alle profonde verità del cuore.

Dal punto di vista letterario, l’incontro con il teatro è giustificato dall’impossibilità di proseguire sulla via del romanzo, dato il disagio che, dopo

Lessico famigliare, l’autrice incontra nell’utilizzo della prima persona. Dopo aver

messo completamente a nudo se stessa, l’abbandono all’invenzione letteraria è stato possibile solo in forma diversa: dialogica per il teatro ed epistolare nel romanzo, edito nel 1973, Caro Michele.

La sollecitazione culturale e la ritrosia ad usare la prima persona hanno reso la produzione artistica di Natalia Ginzburg multiforme e, ancora, libera dall’impedimento di raccontare necessariamente la propria verità:

Ho cominciato a scrivere teatro, in quegli anni lì. Sempre per questa storia della prima persona; perché lì, a teatro, nelle commedie, si può usare la prima persona anche se non siamo noi stessi. Questo mi dava un senso di liberazione, perché sennò…la prima persona, dopo Lessico famigliare, io non sentivo più di adoperarla, e allora siccome la terza persona non la so usare, e la seconda persona mi fa orrore, e allora…(ride). Credo che un romanzo con «io» non lo saprei scrivere.54

In conformità con quanto dichiarato le commedie procedono per situazioni narrative: è come se l’autrice scrivesse racconti in forma dialogica. I personaggi, infatti, si raccontano continuamente. Parlano di sé e delle loro storie passate creando una fitta rete di connessioni interpersonali che si rivelano infeconde. La realtà dei fatti che ne viene fuori è fatta di rapporti labili e inconsistenti:

52 Nota a Lessico famigliare, in N. GINZBURG, Opere, cit. p. 1133 53 Ibidem

54 N. GINZBURG, Il mestiere di scrivere in Id., È difficile parlare di sé. Conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi [maggio 1990], C. Garboli e L. Ginzburg, (a cura di), Einaudi, Torino, 1999, p. 143

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