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2. IL TEATRO

2.3 PERCORSI

2.3.3 La poetica degli oggetti

2.3.3.2 Il rapporto con il cibo

Il rapporto tra il teatro e il cibo non è una recente acquisizione della drammaturgia moderna. Basti pensare a due personalità di punta della storia del teatro per capire come, in epoche lontanissime tra loro, il connubio cibo – teatro ha rivestito una grande importanza nell’affresco realistico della società contemporanea che il testo teatrale vuole via via rappresentare. Questa osservazione fa riferimento alla grande tradizione drammaturgica di Carlo Goldoni e Eduardo de Filippo, autori, tra l’altro, molto stimati dalla Ginzburg. In entrambi i casi la tradizione culinaria nostrana presenta una società ben definita e diversificata al suo interno e connota i tratti caratteristici dei personaggi. Ne La

locandiera piatti tipici e tavole imbandite concorrono allo scopo della

protagonista di sedurre il Cavaliere; ne L’uomo prudente, Colombina, travestita da dama, si proclama regina della cucina, sovvertendo temporaneamente le leggi sociali; la maschera di Arlecchino, continuamente affamata e alla ricerca di cibo, ricorda quella napoletana, Pulcinella, anch’essa raffigurata nell’immaginario tradizionale con spaghetti e vino, simboli dell’insaziabile ghiottoneria di un servo scaltro e impertinente.

Anche in de Filippo l’utilizzo della tradizione culinaria napoletana è parte integrante del testo teatrale proprio per l’importanza vitale che viene riconosciuta al cibo nell’intenzione di voler dare un’impronta realistica alla rappresentazione. Tra tutte, la commedia che rappresenta al meglio il connubio tra cibo e teatro, è, probabilmente, Uomo e galantuomo: qui la buatta, pentolone che diventa, all’occorrenza, recipiente dei più svariati oggetti, è proprio il simbolo della primaria necessità fisica dell’uomo di sfamarsi e delle indigenti condizioni in cui versa la compagnia teatrale costretta ad arrangiarsi al meglio per svolgere il suo lavoro.

Anche nel caso di Natalia Ginzburg l’interesse nei confronti delle abitudini culinarie dei personaggi va nella direzione di dare, ancora una volta, un’impronta realistica alla rappresentazione. Anche qui, come in Goldoni e de Filippo, il cibo assume un ruolo di caratterizzazione dei personaggi e dell’ambiente sociale. Quello che manca rispetto agli archetipi è, invece, una simbolizzazione del cibo volta a marcare un attaccamento alle tradizioni e alle proprie origini.

I piatti che mettono in tavola le donne della Ginzburg sono piuttosto semplici e usuali: patate bollite, uova, riso al burro, pollo lesso, carciofi. L’ unica eccezione è rappresentata da Vittoria, donna di casa di Giuliana che, in Ti ho sposato per

allegria, prepara melanzane alla parmigiana, polli ruspanti ripieni, infusi alla

cicoria, «panzarelle» con la ricotta. Questa eccezione è la spia di un mutamento sociale che la Ginzburg registra anche attraverso le abitudini culinarie: Vittoria, sorella di otto fratelli, si presenta a Giuliana raccontandole di aver lasciato la scuola alla quarta elementare per andare a lavorare in campagna. Il confronto tra Vittoria e Giuliana è anche il confronto tra gli ultimi retaggi di una società rurale in cui l’economia familiare si concentra sul lavoro dei campi e una società votata al benessere economico. Nella famiglia borghese descritta dalla Ginzburg l’interesse familiare è subordinato alla realizzazione personale. Ne consegue la solitudine dei personaggi chiaramente visibile soprattutto nella mancanza del simbolo per eccellenza dell’unione familiare: il pasto comunitario. Manca, nelle commedie, la cura nella preparazione dei pasti che invece ritroviamo, ad esempio, in de Filippo, che in Sabato, domenica e lunedì fa declamare a Rosa una perfetta ricetta del ragù. A questa mancanza si lega una totale assenza delle regole dell’ospitalità: a partire da Giuliana che non sa nemmeno apparecchiare una tavola e da Stella e Ilaria che, ne L’intervista, propongono a Marco di restare per pranzo pur sapendo di non avere niente in casa e accettando di mangiare le «caciottine» che l’ospite aveva comprato per sé.

Il rifiuto delle regole della buona ospitalità che la società delega alla donna di casa è la spia di un ulteriore atteggiamento comune alle donne della Ginzburg. Esse, infatti, rifiutano lo stereotipo di buona donna di casa, madre e moglie per

rivendicare la propria indipendenza. Questo aspetto è riscontrabile anche nel rapporto che intrattengono con i propri figli: Barbara, in Fragola e panna, abbandona il bambino di un anno per correre dietro all’amante Cesare; Angelica de La porta sbagliata soffre al pensiero di stare lontana dalla sua bambina ma sta troppo male per tenerla con sé; i figli della protagonista de La parrucca preferiscono la compagnia della donna di servizio piuttosto che quella della madre.

Si avverte, in questo atteggiamento, una critica sottile alle rivendicazioni femminili che l’onda del femminismo ha sollevato. È come se, in filigrana, si potesse leggere la disapprovazione che la Ginzburg, come è stato già accennato, nutre nei confronti delle pretese del femminismo. In Vita immaginaria chiarisce, infatti, cosa non approva del movimento nel saggio del 1973 intitolato La

condizione femminile:

Secondo il femminismo, la condizione femminile è una condizione umiliante. Umilianti e grotteschi sono, per il femminismo, tutti gli oggetti che riguardano le attività casalinghe, e umilianti e grottesche tutte quelle che sono le attività delle donne nella vita famigliare. Umiliante è, per il femminismo, anche generare figli e allattarli, così come è umiliante accudire alle case, umilianti è per le donne dedicarsi agli altri e non a se stesse. Questo è avere una visione del mondo astratta e deformata. In una simile visione del mondo, è definito grottesco e umiliante tutto quello che costituisce l’esistenza famigliare. Chi dovrebbe invece delle donne generare figli, e accudire e tener pulite le case dove essi crescono, nell’idea femminista non è affatto chiaro.141

L’ironia con cui la Ginzburg descrive l’incompetenza domestica dei personaggi femminili nasconde, in fondo, una critica aspra: ciò che destabilizza i rapporti naturali tra l’uomo e la donna è, in realtà, la confusione dei ruoli che genera dispersione all’interno dello stesso nucleo familiare e, ancor più grave, la perdita del padre. Il personaggio maschile descritto dalla Ginzburg nelle commedie è fragile, instabile, privato dell’autorità che, in famiglia, spetterebbe naturalmente a lui. Il giudizio severo dell’autrice trapela dalla battuta di Titina che, ne La

segretaria, infastidita dalla presenza di Silvana, esclama: «Una volta, c’erano le

famiglie. [...] Ogni famiglia era una specie di guscio chiuso».142 Lo stesso concetto sarà sentitamente ripreso nel 1975 durante l’intervista condotta da Sandra 141 N. GINZBURG, La condizione femminile in Id., Vita immaginaria, cit., p. 185

Bonsanti intitolata, appunto, C’era una volta la famiglia. Assumendo tale posizione la Ginzburg propone come prerogativa impellente, contro le proposte femministe, il ritorno nel mondo della virilità143 come simbolo della ricostituzione

dei ruoli familiari.

Una prerogativa messa a tacere dall’atteggiamento infantile delle donne che coinvolgono, nella propria incapacità, gli uomini che le affiancano.

Stefano de La porta sbagliata si annulla totalmente per il benessere della moglie Angelica che soffre di anoressia. La protagonista è sposata con Stefano ma non lo ama perché ancora legata sentimentalmente all’ex marito Cencio. Un atteggiamento analogo è quello riscontrabile in Barbara, protagonista di Fragola e

panna, che sostituisce la propria insoddisfazione sentimentale mangiando una

quantità smisurata di gelati al gusto di fragola e panna. Nelle commedie in questione il cibo assume dei connotati del tutto opposti rispetto alla funzione sociale e realistica descritte in precedenza. Diventa infatti lo strumento comunicativo per eccellenza: Angelica e Barbara esprimono il proprio disagio attraverso un disturbo alimentare, fomentato dall’insensibilità delle figure maschili, poco inclini all’introspezione psicologica.144

143 SANDRA BONSANTI, C’era una volta la famiglia, in «Epoca», XXVI, n. 1313, 6 dicembre 1975, pp. 83-86

144 cfr. F. CALAMITA, Linguaggi dell’esperienza femminile. Disturbi alimentari, donne e scrittura dall’unità al miracolo economico, Padova, Il Poligrafo, 2015

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