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2. IL TEATRO

2.3 PERCORSI

2.3.1 Donne

2.3.1.1 La ragazza che corre

È interessante soffermarsi brevemente sul prototipo della ragazza che corre: Delia, la protagonista de La strada che va in città. Delia è una ragazza carica di vitalità che, per una gravidanza inaspettata, viene forzata a vivere, nascosta, da una zia in campagna e, alla nascita del bambino, a sposare l’uomo che non ama. Nel frattempo subisce una grave perdita perché il ragazzo che lei amava, muore. Delia incarna tutte le caratteristiche che contraddistinguono alcune delle donne che popolano le commedie della Ginzburg. Entusiasta, si aggira per il mondo in cerca della propria realizzazione; ma troppo ingenua per comprendere i rischi che corre; sola, nel suo mondo fatto di idee e troppo piccola per decidere della propria vita. D’altra parte Delia assume tratti definiti nella fantasia della Ginzburg che riconosce pienamente nella sua memoria:

La strada era, dunque, la strada che ho detto. La città era insieme Aquila e Torino. Il paese era quello, amato e detestato, che abitavo ormai da più di un anno e che ormai conoscevo nei remoti vicoli e sentieri. La ragazza che dice «io» era una ragazza che incontravo sempre su quei sentieri. La casa era la sua casa e la madre era sua madre. Ma in parte era anche una mia antica compagna di scuola, che non rivedevo da anni. E in parte era anche, in qualche modo oscuro e confuso, me stessa. E da allora, sempre, quando usai la prima persona, m’accorsi che io stessa, non chiamata, non richiesta, m’infilavo nel mio scrivere.61

La creazione del personaggio di Delia è riconducibile ad un preciso periodo della vita di Natalia Ginzburg: il confino a Pizzoli trascorso con il marito Leone Ginzburg. Un periodo che, tutto sommato, lei definisce felice fino al triste epilogo della fuga e della morte in carcere del marito, avvenuta nel 1944. Un periodo fecondo dal punto di vista artistico perché in Abruzzo Natalia esordisce con il suo primo romanzo pubblicato nel 1942 con lo pseudonimo Alessandra Tornimparte. Un romanzo che la lega indissolubilmente al suo primo marito, che volle fortemente la pubblicazione del libro. Un romanzo che le rivela, in qualche modo, la presenza ingombrante dell’io e della sua memoria nell’arte narrativa.

Ecco, ancora una volta, la scelta di separare l’io narrativo da quello personale nel teatro viene giustificata: è evidente che all’esperienza di Lessico famigliare la

Ginzburg giunga dopo varie prove sperimentali in cui il carico della memoria si fa sempre più pesante fino ad esplodere nel suo romanzo più incisivo.

Dopo Lessico famigliare, la ragazza che corre, quella un po’ randagia, ricompare sulla pagina in forma diversa e affidata ad altre personalità. La prima è sicuramente Giuliana, la protagonista di Ti ho sposato per allegria.

La commedia è, come dichiara la Ginzburg, la più allegra tra tutte. L’unione tra Giuliana e Pietro è felice, benché i due si conoscano da poco. Il personaggio di Giuliana è così carico di energie positive che riesce a farsi sposare da Pietro, avvocato benestante, per un motivo che potrebbe non apparire reale: per allegria. Giuliana è entrata nella vita di Pietro come un lampo a ciel sereno portando colore nel suo grigiore quotidiano.

La bellezza di questo personaggio femminile sta, tuttavia, nella sua inconsapevolezza: nel raccontare la propria storia vien fuori un profilo disperato. Di umili origini, questa ragazza scappa via dal suo paese per cercare fortuna a Roma come attrice o ballerina ma, non riuscendo nel suo intento, si lega ad un uomo, Manolo, che riesce a darle l’illusione di una stabilità. In realtà viene travolta dal mondo di Manolo, scrittore fallito con la sindrome da artista incompreso, carico di angoscia ed inquietudine. Subisce un aborto e decide di reagire. L’unico modo di amare per Giuliana era quello che le aveva insegnato Manolo: struggendosi di malinconia. Ma il ruolo da afflitta non è quello che le si addice: Giuliana ha voglia di vivere e cerca incessantemente la vita.

Quest’aspetto si riconosce proprio nella sua incoerenza: progetta di buttarsi nel fiume ma pensa all’impermeabile da regalare all’amica; decide di non ammazzarsi più per un incontro accidentale con uno pseudo Lamberto Genova a cui deve dei soldi, ma con cui spera di andare a pranzo; si strugge dalla malinconia per amore di Manolo, ma quando lui la lascia si sente «sollevata, liberata, leggera, perché in tutti quei mesi mi era cresciuta dentro un’angoscia terribile»62.

Così fragile e incoerente, la positività di Giuliana si avverte nelle parole dolci e accorate di Pietro:

PIETRO: Non essere scema. Eri sola, è vero, senza soldi, senza lavoro, e ti disperavi, ma a me non facevi pietà. Io non ho mai sentito, guardandoti, nessuna pietà. Ho sempre sentito, guardandoti, una grande allegria. 63

Natalia Ginzburg, a proposito di questa commedia, scrive: «In questo testo non accade nulla, e non significa nulla». A livello d’azione, infatti, non c’è un gran movimento. La gran parte dell’azione è narrata e solo alla fine del primo atto capiamo che Giuliana racconta di sé a Vittoria, la donna di servizio, dal letto. Il movimento, nel teatro della Ginzburg, è assicurato dal continuo scambio di battute, dal dialogo repentino che si sofferma sui punti salienti della narrazione creando un gioco di ombre e luci. Giuliana stessa dice a Pietro: «Come parliamo sempre a vanvera noi! Come parliamo saltando di palo in frasca!»64; ma, in questa chiacchiera, il personaggio cresce e si fa conoscere. Condivide il proprio bagaglio di esperienze, cade, si rialza più forte e contribuisce, con la sua vitalità, a dispensare energie positive. A guardarla bene, Giuliana non è così ingenua, la vita l’ha formata. Questo è evidente quando, parlando delle disgrazie della madre di Pietro, dimostra una maturità maggiore della signora stessa:

GIULIANA: Tutte queste non sono vere disgrazie. È invecchiata come invecchiano tutti. Tuo padre è morto quando era già vecchio. Non sono vere disgrazie, se uno pensa alla vita disgraziata che ha avuto mia madre. 65

Nonostante la premura, quasi nascosta, nei confronti della propria madre, Giuliana sa che è necessario staccarsi dal nido e vivere la propria vita. Giuliana riconosce l’importanza delle proprie radici:

GIULIANA: Com’è strano! Queste madri che se ne stanno là, acquattate in fondo alla nostra vita, nelle radici della nostra vita, nel buio, così importanti, così determinanti per noi! Uno se ne dimentica, mentre vive, o se ne infischia, anzi crede di infischiarsene, però non se ne infischia mai del tutto. Quella tua madre così svaporata, eppure determinante! Non sembra proprio che possa determinare niente, e invece ti ha determinato, a te! 66

ma è matura abbastanza per fare delle scelte contando sulle proprie forze:

63 Ivi, p. 36 64 Ivi, p.61 65 Ivi, p.31 66 Ivi, p.60

GIULIANA: Però a un certo punto è anche giusto mandarle un poco a farsi benedire, no? Volergli bene, magari, però mandarle un poco a farsi benedire. È vero? 67

Ti ho sposato per allegria è l’unica commedia della Ginzburg che si può definire

allegra: le altre dieci sono accomunate da un velo di tristezza che accompagna i personaggi, sospesi tra il desiderio di qualcosa che migliori le proprie vite e la totale passività. Il distacco tra la prima opera teatrale e le altre potrebbe essere giustificato dall’entusiasmo che si prova quando si intraprende una strada nuova. D’altronde la Ginzburg dichiara che, al momento della stesura, mostrava sentimenti contrari. E anche lei non nasconde di essere meravigliata di questa strana allegria:

Ma forse veniva fuori allegra per quel grande e ilare stupore che uno fa quando prova una cosa che aveva comandato a se stesso di non fare mai. O forse veniva fuori allegra perché la scrivevo in fretta, senza piegarmi a respirare malinconie, o fermandomi a respirarle solo per brevi istanti. La scrivevo in fretta e per noia. Sapevo bene che non bisogna mai scrivere per noia: la noia è quasi sempre infeconda. Alla noia non si deve mai ubbidire. Però via via che scrivevo la noia spariva. 68

Nelle riflessioni precedenti la stesura dei testi teatrali, la Ginzburg riflette sull’influenza che la «personale felicità o infelicità, la nostra condizione

terrestre»69 esercita su quello che si scrive. Nel saggio in questione che risale al 1949, giunge alla conclusione che la fantasia agisce maggiormente in una condizione di serenità, mentre quando si è infelici prende piede la memoria. Nelle riflessioni più recenti, la Ginzburg in seguito rettifica quanto detto:

Devo dire che andando avanti nella vita ho capito che però…dopo, quando si diventa più adulti, ha meno importanza lo stato d’animo rispetto alla scrittura, nel senso che si hanno a un certo punto della vita tante perdite che un sottofondo di infelicità profonda c’è sempre. E perciò influisce meno… [...] Uno impara a scrivere in qualunque stato d’animo, e si sente un po’ più… non dico lontano dalla sua vita, ma un poco più pronto, disposto a dominarla70.

Nell’immediato dopoguerra le ferite, ancora troppo fresche, non rendevano possibile quella lucidità necessaria a vivere in maniera distaccata i sentimenti. Questo aspetto si riversa nello stile dei racconti, scritti dopo La strada che va in

67 Ivi, p.62

68 N. GINZBURG, Nota in Id., Tutto il teatro, cit. p. VI

69 N. GINZBURG, Il mio mestiere tratto da Le piccole virtù in Id., Opere, cit. p. 851 70 N. GINZBURG, È difficile parlare di sé, cit. p.109

città, e si caratterizza per un’istintività che non ritroveremo nella produzione

successiva. Non a caso, la riflessione sull’influenza della dialettica di sentimenti opposti su quello che si scrive, è riferita alla differenza tra il primo racconto e quello successivo, È stato così, scritto nel 1948.

È interessante leggere ciò che l’autrice scrive a proposito di questi due racconti: Scrivendo La strada che va in città volevo che ogni frase fosse come una scudisciata o uno schiaffo. Invece quando scrissi È stato così mi sentivo infelice e non avevo né la voglia né la forza di schiaffeggiare o di scudisciare. Si penserà che avessi voglia di sparare, dato che questo racconto comincia con un colpo di pistola: ma no. Ero del tutto senza forze, e infelice. [...] Quando lo scrissi avevo la mente confusa e annaspavo nel buio, e difatti ciò che è ancora vivo nel racconto è proprio, in quella donna, il buio, il confondere e l’annaspare71.

Nelle commedie la scrittura, seppure molto dinamica, si snoda tra le battute dei dialoghi in maniera più riflessiva e, se vogliamo, più lenta. La riflessione nasce proprio dalla consapevolezza sì, della tragicità della vita, ma accompagnata da un’attitudine degli uomini e, in particolare delle donne, ad abituarsi: «Uno si abitua a tutto!»72 recitano due donne in Paese di mare. «Il vero guaio delle donne», afferma la Ginzburg, è quello di «cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla»73.

Qualcuna riesce a tornare a galla, o almeno ci prova. Sono “le donne che corrono” i personaggi positivi di queste commedie e si riconoscono da una descrizione molto simile che trapela tra le battute: dopo Giuliana, Barbara in Fragola e panna, una ragazza che scappa di casa, lasciando figlio e marito, per un uomo che la considera una seccatura e Silvana in La segretaria, una ragazza che cerca rifugio in una strana famiglia senza legami, sempre a causa di un amore proibito. Entrambe sono disperate e cercano una via d’uscita. La loro descrizione si rassomiglia: Barbara

È una ragazza piena di risorse. Matta com’è, pure non perde mai di vista la sostanza delle cose. Nelle sue mattane, conserva sempre un fondo di sano buon senso.74 71 N. GINZBURG, Nota a Lessico Famigliare, in Id., Opere, cit., pp. 1128-1129 72 N. GINZBURG, Paese di mare in Id., Tutto il teatro, cit., pp. 298, 301

73 N. GINZBURG, Discorso sulle donne, in Id., Un’assenza. Racconti, memorie, cronache 1933- 1988, cit. pp. 151-156, in part. p. 151

Silvana,

Una ragazzetta stramba, sbandata, scappata di casa. Una di queste ragazzette che girano oggi. Senza cuore, senza sentimenti, senza affetti. Una di queste ragazzette randagie.75

[...]

È una ragazza che ha bisogno d’affetto. Un affetto semplice, tranquillo, sicuro. I sentimenti di Edoardo erano troppo complicati per lei. È soltanto una ragazzina. Una povera lucertolina inseguita, un povero topo. Ha bisogno di qualcuno che la protegga. 76

Per Teresa de L’inserzione è diverso: questa donna è stata una ragazza piena di vitalità, che è cascata nel pozzo a causa di una storia d’amore tormentata e di un matrimonio finito.

La sua descrizione, riferita al passato, è simile a quella delle altre che abbiamo già letto: «una ragazza matta, scombinata e confusa»77. La differenza con le altre sta nel fatto che questo personaggio viene colto in un momento negativo: sta affogando e l’unica soluzione che le resta è la speranza che qualcuno risponda all’inserzione per combattere lo stato di assoluta solitudine in cui si è ritrovata a vivere. Il vero problema di Teresa è stato quello di cercare la causa dei suoi problemi al di fuori di se stessa: incolpa l’ex marito Lorenzo delle sue disgrazie quando, tra i due, è l’unico ad essere sincero. Il loro matrimonio è l’esatto opposto di quello tra Giuliana e Pietro: se la coppia felice si è sposata per allegria, questa unione scaturisce esclusivamente dalla pietà di Lorenzo nei confronti di Teresa:

LORENZO:[…] I sentimenti che avevo per lei erano complessi, indecifrabili. Per decifrarli, mi ci è voluto del tempo. Mi sono unito a lei perché ne avevo pietà. Soffriva di incubi, di paure, di angosce. Mi sono unito a lei per una polemica con mia madre. Per unirmi a una ragazza povera, sola, sbandata, che veniva da un mondo tanto diverso dal nostro, da quello della mia famiglia.78

La pietà è il sentimento che Pietro oppone all’allegria e la polemica con la madre avviata da Lorenzo è la stessa che Pietro ha voluto evitare:

MADRE DI PIETRO: Anch’io sono stata duramente provata dalla vita. [...] E ora mio figlio ha voluto darmi ancora questo grande dolore. Ha fatto un matrimonio che io disapprovo. [...] Sa perché mio figlio l’ha voluto? Sa perché ha voluto unirsi a lei? GIULIANA: No?

75 N. GINZBURG, La segretaria, in Id., Tutto il teatro, cit., p.153 76 Ivi, p. 176

77 N. GINZBURG, L’inserzione in Id., Tutto il teatro, cit., p.92 78 Ivi, pp. 92-93

MADRE DI PIETRO: Per darmi un dolore.

PIETRO: Il riso a quest’ora sarà stracotto. Andiamo a tavola!79

È possibile istituire un parallelo tra la commedia in questione, L’inserzione, e il romanzo È stato così. Il colpo di pistola è l’elemento evidente che unisce i due testi. E molto simile è anche il pretesto che ha spinto le due protagoniste a compiere tale atto: sono entrambe provate da un amore disperato e geloso. La differenza sta nel fatto che la protagonista senza nome del romanzo che racconta reagisce ad un matrimonio senza amore e, dopo aver aperto gli occhi alla verità del tradimento, spara al marito un colpo in mezzo agli occhi. Nella tragicità dell’evento, il personaggio femminile del romanzo dichiara la sua libertà ricorrendo ad un atto assoluto. Teresa, invece, ancora una volta, chiude gli occhi davanti alla verità: sebbene sia consapevole dell’innocenza di Elena, futura moglie di Lorenzo, le spara un colpo di pistola uccidendola. Quel colpo, destinato probabilmente a Lorenzo, nella mente di Teresa segue un’altra traiettoria e colpisce Elena, l’unica a non avere responsabilità.

Teresa ne esce completamente sconfitta a causa dell’ostinazione che la rende schiava di un amore sbagliato:

TERESA: È vero. Lo amo sempre. Lo amerò sempre. È la mia disgrazia. Se mi facesse un cenno, dalla parte opposta della terra, correrei da lui. Correrei da lui a quattro zampe. Me lo ripiglierei sempre, anche vecchio, digiuno, randagio, anche pieno di cimici, di sifilide, con le pezze ai calzoni. È vero. Stare con lui per me era un inferno, ma darei la vita, la vita, ti dico, per tornare indietro al tempo che eravamo insieme. 80

Teresa, quella ragazza «povera, sola, sbandata», legandosi a Lorenzo ha perduto ogni speranza di felicità e stabilità che desidera ogni ragazza di questa categoria. Se potessimo immaginare il prosieguo di ogni commedia come di una storia reale, per ognuna di queste ragazze potremmo disegnare un futuro roseo oppure disperato. Il destino di questi personaggi è in via di sviluppo e Teresa è solo uno dei modi in cui poter configurare la vita futura di ciascuna di loro.

La Ginzburg, nei confronti di queste ragazze, mostra una particolare attitudine alla comprensione e un occhio di riguardo nel definirne il carattere taciturno come di 79 N. GINZBURG, Ti ho sposato per allegria in Id., Tutto il teatro, cit., pp.45-46

chi sa cosa significa trovarsi nel bivio della crescita personale: una crescita che per Natalia Ginzburg è stata improvvisa e obbligata.

Dopo la morte di Leone Ginzburg la scrittrice si ritrova, per la prima volta, a vivere in completa solitudine il proprio dolore sullo sfondo di una Roma che tenta di ripartire dalle macerie della guerra. Il suo lavoro presso la casa editrice Einaudi comincia da qui, in un momento in cui si ritrova costretta a vivere sola, lontana dall’affetto dei figli.

In una nota autobiografica Natalia Ginzburg si ritrae con un’amica81, in una particolare situazione: con «le scarpe rotte». Le scarpe rotte sono il simbolo di un futuro incerto, poco visibile e a stento calpestabile:

Nel periodo tedesco ero sola qui a Roma, e non avevo che un solo paio di scarpe. Se le avessi date al calzolaio avrei dovuto stare due o tre giorni a letto, e questo non mi era possibile. Così continuai a portarle, e per giunta pioveva, le sentivo sfasciarsi lentamente, farsi molli ed informi, e sentivo il freddo del selciato sotto le piante dei piedi82.

Anche “la ragazzina”, mai chiamata per nome, de La porta sbagliata porta ai piedi scarpe rotte:

TECLA: Guardate le sue scarpe. Sono fradicie. Sono anche rotte. Bisogna farle asciugare sulla stufa. Datemi dei giornali. Le riempio di giornali, sennò diventano dure come baccalà.

GIORGIO: Com’è che ha le scarpe così rotte? sarà senza soldi? TECLA: Forse è senza soldi, forse è solo distratta. Non si ricorda di portare le scarpe dal calzolaio quando occorre83.

L’impossibilità di portare le scarpe dal calzolaio nasce sì da una necessità fisica, quella di non poter restare senza scarpe ai piedi, ma la verità nascosta è più profonda. Il ricorso alla simbologia è ricorrente nella Ginzburg, specie se l’identificazione con i propri personaggi si carica di un’intensità emotiva. Nel racconto le scarpe rappresentano la strada da percorrere e l’importanza, per i giovani, della necessità di un’educazione salda. Analizzando la sua esperienza

81 l’amica in questione è Angela Zucconi che, in un volume di memorie, racconta che, nell’autunno 1945, abitò con Natalia Ginzburg in un appartamento in via Cola da Rienzo, «al quinto piano in quei mesi senza ascensore» - cfr. D. SCARPA, Notizie sui testi in N. GINZBURG, Un’assenza, cit. p. 334

82 N. GINZBURG, Le scarpe rotte in Id., Un’assenza, cit. p. 131

passata, la Ginzburg madre dei propri figli ma, allo stesso modo, dei suoi personaggi, che ha a cuore, alla domanda «che scarpe avranno da uomini? Quale via sceglieranno per i propri passi?»84, preferisce dare questa risposta:

[…] Guarderò l’orologio e terrò conto del tempo, vigile ed attenta ad ogni cosa, e baderò che i miei figli abbiano i piedi sempre asciutti e caldi, perché so che così dev’essere se appena è possibile, almeno nell’infanzia. Forse anzi per imparare poi a

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