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del lavoro autonomo

1. Economie locali e flussi globali negli anni Settanta

Com’è noto alla storiografia, gli anni Settanta inaugurano una fase in cui sembrano «sgretolarsi»680 le fondamenta economiche e politiche su cui aveva riposato l’intero

edificio occidentale dal dopoguerra in avanti. Mentre sulla scena globale si affacciano attori sempre più in grado di sfidare il primato economico di Stati Uniti e Europa681, la

rapida riconfigurazione dei flussi economici che ne deriva condanna a un lungo declino alcune delle aree che erano state al centro dello sviluppo dei trenta gloriosi, aprendo al tempo stesso inedite possibilità di ascesa per sistemi produttivi con specifiche caratteristiche strutturali. Qualcosa di simile accade per l’area bolognese, dove nel corso degli anni Settanta si rafforza il sistema industriale e terziario sviluppatosi nel decennio precedente soprattutto grazie alla sua progressiva integrazione con i mercati globali. Ciò permette al Pci locale non solo di consolidare la propria immagine in termini di consenso, ma anche di prolungare una politica economica in direzione del riequilibrio territoriale e dello sviluppo dei sistemi di welfare, proprio mentre a livello nazionale si esauriscono le spinte in questo senso682.

680 E.J. Hobsbawm, 1997: 471. 681 Cfr. G. Arrighi, 2003 (1994).

I dati sul Pil dell’Emilia-Romagna, infatti, restituiscono l’immagine di una regione che fa da cerniera fra Centro e Nord-Est, distinguendosi in positivo da ambo i lati. Se nel 1871 la regione è ben lontana dall’essere la più avanzata del gruppo – attestandosi al di sotto della Toscana e del Veneto, ma anche dell’Umbria e del Lazio683 – è nel corso

dei successivi decenni, e soprattutto dopo le due guerre mondiali, che l’intera regione compie un balzo in avanti decisivo. È in questa fase, come visto nel primo capitolo, che la regione si inserisce positivamente nella crescita generalizzata del sistema economico nazionale ed è su queste basi che riesce a distinguersi positivamente nella successiva fase di crisi. Giunge così a maturazione un processo di completa trasformazione delle strutture produttive dell’Emilia-Romagna, che si rispecchia nell’andamento del Pil a confronto con le altre regioni italiane.

Rispetto all’Italia centrale, se già negli anni Cinquanta si riscontra una certa polarità delle posizioni di partenza – Umbria e Marche da un lato, Emilia, Toscana e Lazio dall’altro684 – nei decenni successivi, l’Emilia vede crescere il suo Pil pro capite a passo

grosso modo costante fino a raggiungere nel 1981 un divario di oltre 3 mila euro annui (calcolati a prezzi del 2010). Rispetto al Nord-Est, dove la situazione all’indomani della guerra è piuttosto simile, gli anni Sessanta segnano una prima reale distinzione, con l’Emilia sempre più vicina al Trentino Alto Adige mentre il Veneto e il Friuli Venezia Giulia si attestano a livelli decisamente più bassi. Anche in questo caso il distacco diventa evidente negli anni Settanta e continua a crescere fino a registrare uno stacco dell’Emilia del tutto simile a quello visto per le regioni centrali. Ma questo percorso di sviluppo acquista una sua compiuta rilevanza se confrontato all’andamento del Pil delle regioni nordoccidentali. Fino al 1961, infatti, il reddito per abitante in Emilia è abbondantemente al di sotto di quello dei Lombardia, Liguria e Piemonte. La situazione si mostra in movimento già nella rilevazione di dieci anni dopo, ma il divario storico può dirsi colmato alla fine degli anni Settanta. Al superamento del reddito medio piemontese e ligure – da cui nel 1981 l’Emilia si differenzia con quote simili a quelle osservate per la Toscana o il Friuli – corrisponde infatti l’approssimarsi ai livelli della Lombardia, cioè la regione che più a lungo ha detenuto il primato della ricchezza in

683 Espresso in euro 2010, il Pil pro capite dell’Emilia-Romagna è di 1.989, la Toscana è a 2.201, il Veneto a 2.119; l’Umbria a 2.081, il Lazio a 3.066, cfr. Vecchi, 2011: Tab. S15 (p. 428).

684 La collocazione del Lazio, come è stato più volte sottolineato dalla letteratura storico-economica, è assai particolare in questo gruppo, con Roma responsabile per la maggior parte degli andamenti positivi, cui solo in parte corrisponde un tipo di sviluppo paragonabile al resto dell’Italia centrale, cfr. E. Felice, 2015.

Italia, con una differenza ormai del tutto irrisoria nel 1981685.

Le ragioni di una parabola tanto spettacolare – che riceve conferma anche da indici alternativi alla misurazione del reddito686 – vanno ricercare innanzitutto nello sviluppo

dell’industria regionale, come evidenziato da gran parte della letteratura storico- economica687. La spinta all’industrializzazione degli anni Cinquanta, infatti, permette

all’intero sistema di non mancare l’appuntamento con il «boom» economico, così che all’inizio degli anni Settanta la complessa struttura produttiva è in grado di affrontare un quadro di maggiore incertezza macroeconomica. L’area bolognese, come visto nel primo capitolo, ha un posto di rilievo nel contesto industriale regionale almeno dal periodo fra le due guerre. Ma se il suo primato scema con l’industrializzazione delle altre province emiliane, le ragioni del protrarsi della crescita bolognese vanno ricercate nella specifica collocazione del suo apparato produttivo nel contesto nazionale e internazionale. A fronte di una letteratura meno consolidata per questa fase storica688, è

necessario tracciare un quadro di sintesi dello sviluppo economico bolognese negli anni Settanta concentrando l’attenzione su tre aspetti: la presenza di una piccola impresa estremamente vitale, la crescita del settore terziario come importante fattore di competitività, la capacità di alcune specializzazioni produttive locali di guadagnare posizioni rilevanti sui mercati globali.

Per comprendere come il tessuto di piccola impresa nel bolognese sia riuscito a reggere l’impatto con gli anni Settanta, non si può non riferire il quadro provinciale almeno alla struttura industriale nazionale, da sempre ricca di imprese di dimensioni minori689. Nella fase successiva all’età del oro, per di più, è proprio il mondo delle

piccole imprese che sembra più in grado di assicurare una maggiore flessibilità alle produzioni manifatturiere. Al netto delle difficoltà di confrontare i dati sul lungo

685 Con le province emiliane sotto di appena 270 euro annui, cfr. G. Vecchi, 2011: Tab. S15 (p. 428). 686 L’indice di sviluppo umano regionale, dopo una lunga fase al di sotto della media dell’Italia

nordoccidentale – dall’Unità agli anni Sessanta, nonostante l’avvicinamento fra età giolittiana e anni Venti – cresce velocemente fra il «boom» e la fine degli anni Settanta, fino a distinguersi dal resto del paese; cfr. E. Felice, 2015, Appendice statistica online, pp. 15-18. Di nuovo, anche dal punto di vista dei consumi l’Emilia-Romagna si afferma nel decennio come punta avanzata nel panorama italiano, cfr. P. Capuzzo, 2015.

687 Vale la pena ricordare almeno V. Zamagni, 1997: 125-161; V. Capecchi, 1990; P.P. D’Attorre, 1991; P.P. D’Attorre, V. Zamagni (a cura di), 1992. Per completezza va citato anche V. Zamagni, 2004, un saggio di sintesi che ripropone di fatto quanto l’autrice aveva affermato nel 1997.

688 Vale la pena notare, tuttavia, che il periodo successivo agli anni Sessanta sia stato molto meno indagato dal punto di vista storico-economico: a un primo gruppo di studi ormai classici – V. Zamagni, 1986; F. Gobbo, C. Pasini, 1987; V. Capecchi, 1999; F. Gobbo, R. Prodi, 1999 – non è corrisposto un avanzamento della cronologia nelle ricostruzioni più recenti, cfr. G. Pedrocco, 2013. 689 Per un’utile e schematica mappatura cfr. A. Colli, M. Vasta: 1-21, 2010; R. Giannetti, M. Vasta, 2006:

periodo – l’Istat introduce successive modifiche nel modo di rilevare le dimensioni aziendali – è possibile tracciare un quadro piuttosto affidabile per spiegare come l’aumento dell’importanza delle piccole imprese a livello nazionale finisca per favorire quei sistemi locali dove queste imprese era di gran lunga prevalenti690.

Guardando l’occupazione manifatturiera nazionale attraverso la lente delle dimensioni di impresa, l’alta percentuale di piccole e piccolissime industrie appare chiaramente un fatto tutt’altro che nuovo negli anni Settanta691. Già nel 1951, infatti,

quasi un terzo del totale degli occupati si concentra nella piccolissima impresa (classe da 1 a 9 addetti), mentre solo un quarto lavora nella grande industria (oltre i 499). Nel periodo che va dalla ricostruzione al «boom» la tendenza fra le imprese più piccole è di diminuzione fino a un quinto del totale nel 1971, cui corrisponde un movimento simile, sebbene più contenuto, nella percentuale di unità locali. A tale ridimensionamento corrisponde la crescita inversa della piccola impresa propriamente detta (10-19; 20-49) la quale, pur con ritmi diversi fra le due classi, assorbe fino al principio degli anni Settanta una quantità crescente di addetti, oltre a far registrare un incremento sostenuto nella quota di unità locali. Movimenti difficilmente riconducibili a unità sembrano invece caratterizzare l’insieme delle industrie medie, con l’occupazione in leggera diminuzione nel gruppo fra i 100 e 199 dipendenti e in aumento nelle altre classi (50-99; 200-499), a fronte di un incremento complessivo della percentuale degli impianti. Nell’arco di tutto il ventennio, infine, gli occupati nelle grandi imprese (oltre i 500) restano piuttosto stabili attorno a un quarto del totale, pur con una leggera flessione sul principio degli anni Sessanta che pare riflettersi piuttosto specularmente sul peso percentuale delle rispettive unità locali.

Alla fine della ricostruzione, dunque, l’immagine che emerge dai dati nazionali è quella di un’accentuata polarizzazione fra un gruppo molto forte di grandi imprese e un tessuto estremamente eterogeneo e disgregato di piccole aziende (nelle quali ricadono

690 Le espressioni piccola, media e grande impresa sono problematiche, oltre che soggette a mutazioni nel corso dei decenni di cui mi occupo. Oggi è in uso definire le dimensioni d’impresa anche in base al loro fatturato, che è senz’altro una misura più appropriata del semplice numero dei dipendenti. Tuttavia, non disponendo di queste informazioni nei censimenti visti, lo schema da me adottato è così suddiviso: piccolissima (1-9); piccola (10-49); media (50-499); grande (oltre i 500).

691 I dati sull’occupazione sono tratti da S. Brusco, S. Paba (1997: 270) per l’Italia, mentre da A. Rinaldi (1992: 126) per l’Emilia-Romagna. Per quanto riguarda le unità locali organizzate per classi dimensionali e ramo di attività in Italia ho invece adoperato i dati di G. Federico (2006: Tab. 2.8 pp. 32-36), le cui classi differiscono leggermente (meno di 10; 10-50; 51-100 e 101-500; oltre i 500). Si tratta pertanto di stime prodotte a scopi e con criteri diversi, che renderebbero particolarmente elaborato il ricalcolo al fine di un confronto affidabile, motivo per cui le adopero con una certa libertà e senza scendere nei dettagli.

anche le artigianali, circa il 24% della forza lavoro manifatturiera692). In questa prima

fase, inoltre, i due raggruppamenti sembrano procedere su strade nettamente separate, che solo negli anni del «boom» prendono a convergere. La produzione standardizzata di massa e la creazione di un mercato nazionale permettono a una parte delle grandi aziende di occupare spazi di mercato che un tempo erano riservati ai piccoli produttori, mentre alcuni di questi riescono ad avviare processi di crescita. Da un lato, ciò è dovuto alla possibilità, per alcuni settori, di sfruttare importanti economie di scala, ma il processo è sollecitato anche dall’introduzione di prodotti e materiali nuovi. Dall’altro lato, tuttavia, la stessa possibilità di accedere a un mercato di dimensioni compiutamente nazionali e le prime aperture verso gli scambi internazionali permettono l’ingresso anche alle piccole imprese che, in alcuni comparti, mantengono sbocchi di mercato non in concorrenza con la grande impresa.

Il dualismo dimensionale nell’industria manifatturiera italiana, pur in presenza di una tendenza convergente fra grandi e piccole imprese, è dunque un carattere strutturale fino alla fine del «boom» economico693. Gli anni Settanta, infatti, rappresentato un punto di

rottura in questo senso, poiché il sorprendente aumento della percentuale di dipendenti fra le imprese di dimensioni minori interrompe il processo di convergenza e rende evidente un’importante trasformazione in corso. Le piccolissime imprese sotto i 9 addetti, infatti, pur mantenendosi stazionario il numero delle unità locali, tornano a crescere in termini di addetti, mentre si mostra più pronunciata la diminuzione dell’importanza relativa della grande impresa che, per impianti e addetti, scende fin sotto a un quinto del totale. Al contempo per tutte le categorie intermedie si osserva un generale processo di consolidamento, con una leggera flessione nella fascia media (50- 499) e l’irrobustimento di quella piccola (10-49).

Per spiegare questa inversione di tendenza, la letteratura storico-economica ha posto l’attenzione su un insieme di discontinuità – finanziarie, monetarie, strutturali – che investono il sistema capitalistico occidentale nel suo complesso. A partire dagli anni Settanta, infatti, un progressivo affievolirsi dei vantaggi economici della produzione di massa scoraggia i processi di integrazione verticale e provoca una riduzione della «dimensione ottimale delle imprese»694. L’espansione di piccole unità ad alta

specializzazione sembra infatti rispondere meglio alla necessità di incontrare una

692 Cfr. V. Zamagni, 1979: 235.

693 Secondo A. Arrighetti e G. Serravalli (1997) il fenomeno si spiega con il parallelo dualismo istituzionale che tutela e mantiene distinti gli spazi di entrambi.

domanda di crescente diversificazione, sia per i beni di consumo sia per quelli di investimento. D’altro canto, la spinta in avanti dei processi di innovazione tecnologica inizia a diventare un fattore di incertezza per i rendimenti del capitale investito e sembra giocare un ruolo nell’indirizzare gli investimenti futuri verso unità più contenute. Nella stessa direzione, infine, preme la scelta di molte aziende medio-grandi di ricorrere alla subfornitura, sia come parte del programma di ristrutturazione dei processi produttivi e organizzativi, sia come modo per attenuare la capacità organizzativa dei sindacati operai dopo l’impennata di mobilitazione sul finire degli anni Sessanta695.

È dunque questo il contesto in cui le aree a industrializzazione diffusa guadagnano un posto di primo piano nella ridefinizione della geografia dello sviluppo italiano, sebbene anche nella zona centro-nordorientale si possano individuare processi tutt’altro che statici nel medio periodo. Per lo meno, così avviene in Emilia-Romagna dove fino al termine degli anni Sessanta l’occupazione nella grande industria non si discosta dalla media di un decimo del totale, mentre nelle imprese sotto i 50 dipendenti passa da oltre il 60% a poco più della metà. Nello stesso periodo, inoltre, il calo più importante si registra nelle aziende fino a 9 dipendenti (da 43,8% a 27,6%), mentre quelle fra i 10 e i 49 continuano a crescere (da 17,7% a 25%). Al contempo, la quota di dipendenti nella media e grande impresa, già oltre un terzo nel 1951, arriva a sfiorare la metà del totale degli addetti nel 1971. È chiaro dunque che, sebbene la struttura regionale rimanga quella tipica di una zona di piccola impresa, che anche al 1971 mantiene poco più della metà dell’occupazione totale, non sembra azzardato leggere in questi dati la tendenza alla crescita delle dimensioni aziendali, come avviene nel resto del paese. Dieci anni più tardi, tuttavia, questa tendenza sembra cambiare radicalmente di segno. Fra il 1971 e il 1981, infatti, mentre continua a salire l’occupazione nella piccola impresa, torna a crescere leggermente anche la fascia delle imprese sotto i 10 dipendenti, perde peso quella media (da 36,3% a 32,7%), mentre quella grande torna quasi al livello del 1961. Nel giro di un intervallo censuario, quindi, si è annullato in Emilia-Romagna il guadagno in termini di addetti che l’industria medio-grande era riuscita ad accaparrarsi nei decenni precedenti.

Attraverso i censimenti industriali, è possibile ora concentrare lo sguardo sulla situazione bolognese che, a un primo sguardo, sembra in controtendenza rispetto alla situazione nazionale e regionale fra anni Settanta e Ottanta696. Nell’insieme

695 Ibid.

dell’industria manifatturiera – compreso del settore energia, gas e acqua – le dimensioni medie delle unità locali sembrano infatti aumentare, nel corso del decennio, da poco più di 8 a poco più di 9 addetti per unità locale. L’aumento è contenuto, ma quanto basta affinché la notizia venga accolta con entusiasmo dall’Ufficio programmazione del Comune di Bologna. Risale al 1984, infatti, uno studio prodotto da quell’ufficio sul confronto fra i due ultimi censimenti, che prevede anche l’aggiornamento alle nuove classificazioni censuarie del 1981697. In esso, infatti, si afferma che

[l]o sviluppo relativo della unità locali del settore industriale è comunque, in complesso, sensibilmente inferiore a quello degli addetti e questo caratterizza in modo estremamente significativo lo sviluppo industriale bolognese, poiché a livello nazionale e regionale prevale invece la tendenza ad una riduzione della dimensione media aziendale nella direzione di un decentramento produttivo698.

Analizzando nel dettaglio i risultati dei censimenti, tuttavia, si scopre rapidamente come, in realtà, questa interpretazione risenta di un errore prospettico. Un dato incontrovertibile, infatti, è che l’industria bolognese abbia perso il suo primato regionale, cosa che il censimento mette per la prima volta nero su bianco. Gli amministratori bolognesi ne sono certamente preoccupati e intuiscono la necessità che la struttura produttiva provinciale – fortemente imperniata sulla città capoluogo – trovi altre strade di sviluppo.

Sul finire degli anni Settanta, infatti, il sistema industriale di Modena, Reggio Emilia e Parma non ha più nulla da invidiare a quello del capoluogo. Anche in queste province, come era accaduto precedentemente a Bologna, la meccanica e l’alimentare hanno un ruolo di punta e, in alcuni casi, creano spazio a specializzazioni di non poco conto. È di questi anni, intatti, la fioritura in provincia di Modena di ben due distretti industriali – fra quelli più riconducibili alla definizione di Giacomo Becattini – come quello delle piastrelle a Sassuolo e della maglieria a Carpi699. D’altra parte, anche le province più

occidentali mostrano un processo di rapida ascesa, tanto attraverso due celeberrimi consorzi agroindustriali – parmigiano-reggiano e prosciutto – quanto in quella che è

697 Come ho esplicitato in infra, cap. 1, il Censimento dell’industria e del commercio del 1981 introduce non poche novità all’interno dei sistemi di rilevazioni, soprattutto nella maniera in cui vengono aggregati i settori merceologici.

698 Comune di Bologna–Ufficio studi programmazione e servizi statistici, 1984: 33.

699 L. Cigognetti, M. Pezzini, 1992; T. Sorrentino, 1991. È doveroso ricordare che in quegli anni si estende verso Imola anche il distretto ceramico di Faenza (cfr. P.P. D’Attorre, 1991b; V. Zamagni, 1997, ma anche F. Nuti, 1992 e P. Bianchi, G. Gualtieri, 1992). Tuttavia, la posizione del sistema industriale imolese nella provincia di Bologna è piuttosto peculiare e, come non manca di notare lo stesso Ufficio studi del Comune di Bologna nel 1984, sembra in quegli anni accentuare i suoi caratteri di «sistema chiuso» (ivi, p. 34). Infine, anche per le stesse province orientali, pur con caratteristiche ancora differenti, si notano dinamiche particolarmente vitali negli anni Settanta.

stata chiamata la «food valley» di Parma700. Se dal «boom» in avanti, quindi, Bologna

non aveva avuto modo di dubitare del proprio ruolo trainante nell’industrializzazione della regione, nei primi anni Ottanta questo primato non esiste più e lo studio del Comune, quasi a volerne scongiurare gli effetti, tenta di individuare un elemento di distinzione bolognese nell’aumento delle dimensioni medie delle imprese manifatturiere. Il pieno sviluppo di una realtà economica regionale dai tratti storicamente policentrici è in realtà il tratto distintivo di quegli anni e il sistema bolognese sembra avviato a un percorso di integrazione fra industria e servizi, più che verso la crescita dimensionale delle sue imprese.

Quello che sopra ho chiamato errore prospettivo, infatti, diventa chiaro se i dati censuari vengono analizzati in base ai settori di attività. Tenendo per un momento da parte la meccanica, si può focalizzare l’attenzione sui restanti tre rami di attività – industria dell’energia, gas e acqua; estrattiva e chimica; «tradizionale» o leggera701 – e

notare che il calo di unità locali appare trascurabile per le industrie chimiche, ma è quasi un terzo nell’energia e poco più del 10% per l’industria leggera. In queste ultime, per di più, si registra la perdita di quasi un migliaio di addetti (meno del 2% del ramo), mentre per tutte le altre il saldo è positivo, sebbene con incrementi modesti (9% per l’energia, nemmeno 8% per la chimica). È evidente dunque che il calo delle unità locali, combinato all’incremento dell’occupazione, non può che dare l’impressione che siano aumentate le dimensioni d’impresa. Guardando più da vicino la distribuzione per classi dimensionali, tuttavia, si nota la generale scomparsa di impianti nella fascia più bassa (0-9 addetti) a cui corrisponde il rafforzamento delle classi intermedie, con le punte massime registrate per l’energia e la chimica. La situazione appare leggermente diversa nelle industrie «tradizionali», dove gli unici incrementi del numero di unità locali si registrano nella fascia dai 10 ai 19 addetti e, con minore intensità, in quella dai 200 ai 499 (rispettivamente: +52,5% contro +15,8%). Al di sopra di queste soglie, invece, l’intera provincia può contare su una sola azienda nel ramo dell’energia, con poco più di 800 dipendenti, e quattro aziende fra le industrie «tradizionali», con complessivi tre