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per il governo dello sviluppo

3. La programmazione economica e i timori comunist

Nell’aprile del 1963 l’amministrazione comunale di Bologna presenta in Consiglio un piano pluriennale per lo sviluppo della città e del comprensorio383 che, sulla scorta di

un’approfondita analisi economica e demografica dell’ultimo decennio, stabilisce criteri e ambiti di intervento per il resto del decennio. Il Comune, a parere della Giunta, è chiamato infatti a intervenire, in modo del tutto nuovo, sui «bisogni della città»384 e al

piano è assegnato il preciso compito di soddisfarli, tenendo conto di un comprensorio – la dilatazione spaziale è ormai pienamente acquisita – in rapida trasformazione. Il documento arriva al termine di una vera e propria mobilitazione di competenze che comunisti e socialisti, dopo quasi un ventennio di governo locale in città e in provincia, hanno stimolato al fine di compiere un salto di qualità nella propria attività amministrativa. Il rinnovamento, su cui si è visto insistere i comunisti bolognesi in quegli anni, procede in due direzioni parallele che sono, da un lato, l’analisi dei cambiamenti strutturali dovuti all’industrializzazione e, dall’altro, un ripensamento critico del ruolo dell’ente locale, specie in relazione alle sue possibilità di indirizzare lo sviluppo economico. Tuttavia, sarebbe un errore prospettico ritenere che un processo di questa portata sia limitato al solo ambito locale che, per quanto ricco di spinte innovatrici, si colloca in un più ampio dibattito politico-economico nazionale. Un dibattito che, in quegli anni, è in procinto di produrre una delle più importanti discontinuità della storia repubblicana, carica di conseguenze per una giunta “rossa” com’è quella bolognese: l’ingresso dei socialisti nell’area di governo.

Una posizione preminente, infatti, è riservata in quel torno di tempo alla politica economica del governo, che cerca innanzitutto di ridefinire su basi nuove il rapporto fra sviluppo economico e scelte politiche. È qui, infatti, che si colloca la matrice da cui scaturisce la riabilitazione di interventi della mano pubblica in economica che segna, nel bene e nel male, l’intera stagione. La coalizione fra Dc e Psi si caratterizza, infatti, come un «vasto progetto» di governo dell’economia e un tentativo di incanalare la crescita dirompente di quegli anni sui binari di «uno sviluppo razionale, fondato sulla giustizia

383 Piano poliennale, 1963. 384 Ivi, p. 10.

o, per lo meno, sul massimo di giustizia possibile»385. L’analisi che sostiene e rende

percorribile questa opzione parte dalla constatazione che il «boom» ha avuto in Italia un carattere in larga parte caotico che, a fronte di una situazione legislativa carente e di un’amministrazione burocratica permeabile alle pressioni particolaristiche, ha finito per favorire squilibri e distorsioni. In un breve torno di tempo fra anni Cinquanta e Sessanta, sempre più voci si uniscono nel sostenere che la crescita dell’economia nazionale, anziché appianare le disuguaglianze fra capacità produttive, redditi e settori nelle diverse aree del paese, ne ha approfondito i presupposti, aggravando la condizioni di chi già partiva da posizioni svantaggiate. Di qui, la necessità di rimettere al centro il piano, come strumento per riordinare la caoticità, che diventa presto un patrimonio trasversale a tutti i partiti politici dell’arco costituzionale. Non a caso, sarà proprio sulla politica economica che le tradizioni cattolica e socialista avrebbero trovato un terreno di convergenza e, su queste basi, avrebbero inaugurato un percorso di stampo riformista, dopo quasi quindici anni di centrismo.

Il programma della giunta bolognese, pur non risparmiando critiche dirette verso la politica del governo, si inserisce coerentemente nella stagione della programmazione, che caratterizza la novità italiana degli anni Sessanta. Tuttavia, lungi dall’essere un puro adattamento agli indirizzi governativi, lo strumento del piano rappresenta per il Pci anche il più ardito tentativo di rinnovare e rilanciare la propria strategia politica, ponendosi con forza quale partito di governo, non più (solamente) locale. La mia ipotesi è che, con questo tentativo, si apre per il Pci una fase apicale la cui chiusura coincide con il consumarsi della sua più «profonda crisi programmatica»386, in corrispondenza

della fine dell’esperienza di collaborazione governativa e del definitivo fallimento della programmazione (1976-1978). Nel periodo così individuato, infatti, la proposta comunista – almeno relativamente al problema del governo dello sviluppo – sembra insistere su un tracciato i cui contenuti sono già completamente inscritti nella riflessione da cui origina il piano del 1963. Al contempo, dinanzi all’emergere di nuovi attori locali, che si candidano a svolgere un ruolo attivo nella politica economica dell’area, il Pci tenta di ricollocarsi al vertice di un processo complesso di mediazione politica e ricerca di equilibrio; tentativo incarnato nel riformismo di Guido Fanti.

Sullo sfondo della trasformazione detta e, a partire dalle ipotesi appena accennate, il capitolo si articolerà pertanto come segue. Il primo paragrafo fornisce una concisa

385 Così nelle parole di uno dei protagonisti, Giovanni Pieraccini, riportate in D. Manetti, 2008: 117-118. 386 L. Paggi, M. D’Angelillo, 1986: 164.

rassegna degli studi sulla programmazione economica nella fase del centro-sinistra, sottolineando i guadagni euristici di alcune acquisizioni storiografiche recenti. Il secondo traccia le linee generali del contesto nel quale si produce questa discontinuità politica. Il terzo ne analizza quindi le ricadute sulla cultura politica comunista, proponendo una lettura basata sull’intreccio fra documentazione nazionale e bolognese, a cui la storiografia ha dedicato scarsa attenzione in passato. Il quarto si dedica, quindi, alla discussione approfondita della proposta riformista che emerge in risposta al centro- sinistra attraverso l’analisi dell’elaborazione politica del Pci bolognese nella prima metà degli anni Sessanta. All’ultimo paragrafo, infine, è affidato il compito di trarre le conclusioni.