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per il governo dello sviluppo

3. Pci e centro-sinistra fra periferia e centro

Per quanto rapida e orientata a mettere in risalto le novità politico-economiche del centro-sinistra, la ricostruzione fornita sopra permette ora di guardare più da vicino all’evoluzione della realtà bolognese sulla scorta di questi avvenimenti. Come emerge dalla breve rassegna storiografica fornita in apertura, nelle ricostruzioni recenti il ruolo e la posizione assunti dalla cultura politica comunista, in un momento così denso di cambiamenti per la storia repubblicana, non hanno goduto di indagini particolarmente approfondite. Di certo, la letteratura sterminata sul partito di Togliatti non ha mancato di coprire anche questo periodo, ma è solo da qualche anno che una monografia ha inteso sopperire alla mancanza offrendo una ricostruzione del dibattito interno, delle prese di posizione e, infine, della strategia adottata dal Pci a partire dalle prime avvisaglie del centro-sinistra fino alla chiusura della quarta legislatura (1963-68)490. L’opera, ricca di

documentazione, si basa in misura preponderante sulle fonti prodotte dai massimi organi dirigenti nazionali del partito e privilegia il dibattito ai vertici dello stesso, rivolgendo la propria attenzione a quanto avviene a livello nazionale anche quando fa ricorso ad archivi diversi da quello del Pci491. Ciò permette sicuramente di godere di una visione

d’insieme – probabilmente indispensabile dinanzi a una ben individuata lacuna storiografica – e di comprendere, non solo l’evoluzione della linea politica, ma anche le sfumature attraverso cui si compone un dibattito interno decisamente plurale, che l’autore si spinge a considerare frazionistico492. Tuttavia, questa lente sconta il limite di

rappresentare la difficile costruzione di una risposta comunista al centro-sinistra esclusivamente in chiave di movimenti di vertice, cosa che induce a ridurre l’intero

quando si passa al linguaggio, più perentorio, dell’esposizione del progetto urbanistico, cfr. Ivi, pp. 246-255. A questo riguardo v. anche le posizioni, di nuovo estremamente realiste, di Campos Venuti del 1967 discusse in P. Bonora, 1984: 246-247.

490 M. Marzillo, 2012; di questa lacuna dà conto l’autore nell’Introduzione (ivi: 9-13) a cui si rimanda anche per i riferimenti bibliografici che non utilizzo in questa parte del lavoro. Fra ciò che non viene citato lì cfr., invece, almeno F. De Felice, 1995.

491 A questo orizzonte nazionale rimane legato anche Franco De Felice (ibid.).

492 Di «frazioni» parla Massimiliano Marzillo analizzando il dibattito in preparazione della Conferenza operaia nazionale di Genova (28-30 maggio 1965), in cui «divenne chiarissima l’enorme distanza che separava le due analisi economico-politiche» (ivi: 190) di Giorgio Amendola e Pietro Ingrao. Il giudizio fa eco a quello a suo tempo espresso da De Felice il quale, tuttavia, parla di «spinte divaricanti», «frattura non più ricomposta», come d’altronde di «pericoli di frattura» parlava lo stesso Togliatti alla Direzione del partito il 19 aprile 1962 (F. De Felice, 1995: 867, 871, 868; corsivo mio). Quelli di De Felice sono termini filologicamente più corretti, giacché la “frazione” non si sarebbe costituita come tale.

processo a un tatticismo, eco lontana di quel tradizionale giudizio sulla «doppiezza» comunista che, per quanto impeccabile dal punto di vista documentario, sembra lasciare sullo sfondo una dialettica interessante fra centro e periferia, all’interno del partito.

È un fatto che il Pci, dovendo adeguare la sua linea politica all’evolvere delle novità degli anni Sessanta, oscilli a più riprese fra un atteggiamento possibilista – che inizialmente accarezza la possibilità di un superamento della conventio ad excludendum – e una posizione interlocutoria in cui si ritiene possa inserirsi positivamente l’azione di pungolo dei comunisti per poi passare – a partire dal 1963 fino alla crisi del primo governo Moro – a dichiarare il fallimento/esaurimento493 dell’esperimento e ribadire la

propria proposta alternativa. Ricomposte le divaricazioni interne grazie all’opera mediatrice di Togliatti, è dunque su queste basi che viene rilanciata con forza la ricerca di nuove maggioranze democratiche e la convergenza fra azione politica comunista e aspirazioni di un movimento popolare, che ora mira a conferire pieno riconoscimento alle stesse masse cattoliche. Una lettura di questo genere, pur evidenziando le relazioni fra analisi della realtà ed elaborazione teorica, che in quegli anni subisce un processo di accelerazione proprio per via del dibattito interno agli organi dirigenti, lascia tuttavia ai margini la circolarità esistente fra un piano di analisi ed elaborazione e un piano di azione politica e attività amministrativa locale.

Per comprendere le motivazioni che collocano il Pci al centro494 del nodo politico-

storiografico del centro-sinistra, occorre focalizzare l’attenzione, a mio avviso, su due distinti timori, avvertiti chiaramente nel Pci, e adoperarli al fine di aprire una riflessione sulla dialettica fra organi dirigenti nazionali e centri di potere locali. Si tratta certo di un obbiettivo che in questa sede dovrò limitare al solo caso bolognese, ma da cui è forse possibile avanzare una proposta aperta ad essere verificata sul terreno di ulteriori ricerche. Il primo timore – noto alla discussione storiografica, oltreché esplicitato nel dibattito politico del tempo – è quello che il Pci, a dispetto del suo peso organizzativo ed elettorale, venga relegato ai margini della scena politica e infine isolato dalla possibilità di accedere al governo del paese. È un timore che, sulle prime, sembra riaccendere toni da Guerra fredda495, ma che presto lascia il passo a considerazioni più

493 Sulla non neutralità di questo trasferimento semantico insiste F. De Felice, 1995: 869.

494 Riprendo qui l’interpretazione, già richiamata, di S. Lanaro (1992: 426), in parte già ripresa da F. De Felice (1995: 792).

495 In un intervento – su cui dovrò tornare – concentrato sulla politica di piano e la svolta «intervenzionista» nella fase di «capitalismo monopolistico di Stato», Luciano Barca dice: «Ma questa azione non riapre continuamente la via alla discriminazione, all’arbitrio verso la classe operaia che storicamente afferma una sua concezione del mondo autonoma dal sistema dello sfruttamento e

realistiche e apre alla possibilità di formulare una risposta propriamente politica. Tuttavia, la strategia che ne emerge mi sembra piuttosto animata da un secondo e ben più pesante timore, che è sullo sfondo dell’analisi del gruppo dirigente comunista e che, di fatto, getta un’ipoteca sull’attività condotta nelle città dove il Pci si trova in posizione di governare. È il timore che il centro-sinistra possa “falciare l’erba sotto i piedi”496 al

Pci, in termini di iniziativa politica, ma anche di adesioni. Così concepito, il centro- sinistra mette in scacco la stessa credibilità del partito, se alla svolta politica esso avesse risposto con una linea – che è di Ingrao, di parte del mondo sindacale, dalla sinistra socialista497 – di decisa opposizione all’alleanza. Ma è anche il timore che venga

danneggiata la possibilità di rivendicare, sull’arena politica nazionale, un allargamento progressivo di quella alleanza in nome delle positive esperienze locali, al cui vertice è l’Emilia-Romagna – una posizione più vicina alle posizioni di Amendola e all’ala del «rinnovamento» fantiano – che svolge una «funzione nazionale» che Togliatti presenta come prefigurazione di quanto si potrebbe realizzare nel paese, se l’alternanza al governo fosse effettiva498.

Di questi timori si fa lucido interprete Palmiro Togliatti nell’ultimo scorcio della sua attività politica a capo del partito. In un intervento su «Rinascita» dell’estate del 1962499

dal titolo Comunismo e riformismo il segretario del partito prende le mosse dal resoconto di una riunione di dirigenti democristiani, dove qualcuno pare abbia esclamato che «[i]l comunismo si combatte col riformismo», esortando di conseguenza il suo partito a procedere speditamente verso un programma di riforme che, solo, può sconfiggere l’opposizione:

Quello che farebbe comodo ai democristiani sarebbe un Partito comunista che combattesse il riformismo con pure contrapposizioni verbali, con vuote invettive e

opposta?» o ancora: «“Controllare”, “regolamentare” sono i verbi più cari agli studiosi e agli uomini politici impegnati nello sforzo di risolvere questo dilemma, così come “impedire”, “negare” erano i verbi cari ai loro precedessori. Ora non si nega, si delimita», Id, Problemi del capitalismo di Stato e

della pianificazione, in Istituto Gramsci, 1962, vol. II: 81-82.

496 L’espressione viene usata da Ardigò nel delineare quello che mi sembra un vero programma di attacco alla base comunista: la modernità e le recenti trasformazioni economiche, come spiega nel primo convegno di S. Pellegrino, hanno prodotto un «moltiplicarsi, [e] ampliarsi di scala, delle forme organizzative e associative», che lui definisce «socializzazione», la quale «ha falciato l’erba sotto i piedi della base sociologica maggioritaria del “popolarismo” e del solidarismo degasperiano» (A. Ardigò, Classi sociali e sintesi politica, in Dc, 1961: 138-140); da qui la proposta non di rifiutare la modernità, ma di affrontarne la sfida abbracciando l’idea di uno Stato nuovo che sia promotore di sviluppo economico.

497 Cfr. la discussione delle posizioni di Bruno Trentin e Rodolfo Banfi in F. De Felice, 1995: 810-812. 498 Sulla funzione nazionale dell’Emilia cfr. P. Togliatti, 1974b.

499 Ripubblicato, quasi in pieno compromesso storico, in un volume di raccolta, cfr. P. Togliatti, 1975, vol. II, pp. 1137-1145.

con quelle cosiddette «alternative globali» che di rivoluzionario hanno l’aspetto e il suono, ma nulla più.500

L’argomentazione di Togliatti ruota così attorno al fatto che, certamente, «l’ala rivoluzionaria del movimento operaio»501 si batte da sempre contro il riformismo, cioè

«un movimento, sia pur lento, di avanzata»502, ma ciò non significa che essa non abbia

coscienza delle condizioni storiche oggettive in cui, non potendo dare seguito a una strategia rivoluzionaria, «la lotta per delle riforme, sia economiche che politiche, assume una importanza fondamentale»503. Il punto, per Togliatti, è sottolineare un

carattere sostanziale del riformismo, un suo «vizio radicale», che sta nella tendenza a «dimenticare e cancellare» l’obiettivo finale, cioè «l’abbattimento del capitalismo», trasformando così la lentezza «in una questione non più soltanto di misura, ma di qualità»504. Esiste, in una fase di riscoperta delle spinte riformiste in Italia – e in una

evidente situazione oggettiva non rivoluzionaria – la possibilità per il «movimento operaio»505 di svolgere un ruolo che non si riduca ad essere subalterno, ma che

correttamente il Pci deve indirizzare verso il recupero di quell’obiettivo finale. Perché dunque, chiede Togliatti, il Pci dovrebbe opporsi a quei socialdemocratici italiani che sembrano volersi impegnare, collaborando con i «governi centristi»506, in profonde

riforme di struttura?

La posizione comunista, come si vede anche da questo intervento minore, sembra consapevole di quei timori. Essi, ovviamente, sono intimamente connessi fra loro e le proposte politiche che ne scaturiscono condividono uno stesso ambito progettuale, cioè evitare l’isolamento e dare sbocco concreto a una prospettiva ritenuta possibile, seppure non nell’immediato, di governo del paese. Bisogna però sottolineare che, sul piano storiografico, insistendo sul primo aspetto, mi pare che non si arrivi molto più in là della riproposizione di una spiegazione tatticistica dell’azione comunista; tattica verso l’esterno, come posizione da assumere negli equilibri fra forze politiche, tattica verso l’interno, come mediazione fra orientamenti schematicamente riconducibili allo scontro fra Amendola e Ingrao, su cui prevalgono le straordinarie capacità politiche di Togliatti. Ponendo invece l’accento sul secondo, cosa che intendo fare nei prossimi due paragrafi,

500 Ivi, 1140. 501 Ivi, p. 1137. 502 Ibid. 503 Ivi, p. 1138. 504 Ibid. 505 Ibid. 506 Ivi, p. 1139.

vorrei quindi spostare l’attenzione sul fatto che il Pci ravvede nell’operazione di centro- sinistra, al di là della mera continuazione dell’esclusione, una manovra per sottrarre iniziativa politica alle opposizioni, soprattutto al principale partito di opposizione, svuotando di contenuti la piattaforma politica comunista ed erodendone la base. Una piattaforma che, nella pratica dell’amministrazione locale bolognese, era già a carattere spiccatamente riformista che – come visto nel caso delle aree industriali – non è realmente alternativa a quanto propone la Camera di commercio.

Questa prospettiva, a mio avviso, contribuisce a fornire una spiegazione di più ampio respiro alla difficile e complessa evoluzione dei presupposti teorici che guidano le scelte concrete del Pci in questi anni. Al contempo, sottolinea l’importanza di questa fase che non soltanto avrebbe posto le basi all’azione del partito fino al termine del decennio successivo, ma avrebbe profondamente modificato anche la sua proposta politica, dandole una connotazione sostanzialmente socialdemocratica, pur conservando e rinvigorendo categorie d’analisi legate a un immaginario rivoluzionario507. È evidente

che un passaggio di tale entità non è cosa che un partito con oltre un milione e mezzo di iscritti compie nel giro di una legislatura e, in questo senso, credo vadano intese le parole di Marcello Flores e Nicola Gallerano quando affermano che la preparazione al centro-sinistra non avvia «una revisione strategica»508 a tutto tondo. Mi sembra, infatti,

che a partire da qui siano riconoscibili le basi senza le quali non è possibile capire la storia dei successivi due decenni.

A questo punto, è pleonastico ribadire che l’origine e il nodo centrale in questo passaggio si colloca nel dibattito instauratosi sul crinale fra consapevolezza di una discontinuità nella politica economica fatta propria dal partito di governo – con l’adesione della Dc al programma di centro-sinistra, esplicitata nei tre convegni di San Pellegrino e nel congresso di Napoli509 – e la conseguente necessità per il Pci di

aggiornare la propria analisi sulle trasformazioni strutturali del capitalismo contemporaneo e, quindi, di sviluppare in senso più apertamente riformista la propria azione amministrativa locale. Piuttosto, mi interessa insistere su alcuni momenti di quel dibattito, provando ad analizzarlo attraverso un’ottica poco frequentata – o almeno

507 Cfr. ancora L. Paggi, M. D’Angelillo, 1986: 164 e sgg. In questo senso, la distanza delle interpretazioni di Lanaro e di De Felice si rivela in tutta la sua ampiezza: se per il primo è centrale il ruolo del Pci in questa fase, in ragione della portata della «questione comunista» (S. Lanaro, 1992: 426) come questione di governo, il secondo si focalizza sul suo ruolo di «protagonista indiretto» (F. De Felice, 1995: 857) e insiste sulla composizione delle divergenze interne.

508 M. Flores, N. Gallerano, 1992: 98.

questa è la mia impressione – cioè ponendo al centro un caso locale. Bologna è certamente un caso assai poco rappresentativo, che non si presta alle generalizzazioni, per molti versi è anomalo ed eccezionale rispetto al panorama delle altre federazioni comuniste italiane. Il Pci bolognese, infatti, rappresenta il nodo più solido di un sistema regionale che è, a sua volta, il più solido del paese, raccogliendo quasi un quarto delle iscrizioni nazionali510. L’approccio che propongo, pertanto, più che tracciare un modello

applicabile ovunque, vuole innanzitutto superare i limiti di un’indagine focalizzata sui soli organi dirigenti nazionali e rivolgere – grazie ai risultati di chi quel lavoro ha svolto con perizia – un’attenzione particolare a quanto avviene nella dialettica fra centro e periferia. Allo stesso tempo, fa parte di questo approccio la proposta, che svilupperò meglio nel prossimo capitolo, di non fermarsi a ciò che sta dentro i confini dell’organizzazione di partito, per provare a spostare lo sguardo poco più in là, ad abbracciare le relazioni che si stabiliscono fra il partito e alcuni attori economici ad esso collegati, in primis l’organizzazione dell’artigianato e della piccola e media impresa, per capire se e quale peso hanno avuto questi attori nella ridefinizione della proposta politica del partito.

Per ricostruire i momenti chiave di quel dibattito mi concentrerò quindi su materiale d’archivio e su alcune fonti a stampa che vanno dalla fine degli anni Cinquanta alla prima metà degli anni Sessanta, che è il periodo in cui esplode la questione di un nuovo rapporto fra Stato e mercato e impone la necessità di aggiustare di conseguenza gli equilibri politici del paese. Per meglio procedere nell’analisi, si può individuare almeno una scansione significativa all’interno di questo dibattito, è cioè la presentazione del piano poliennale bolognese, a ridosso delle elezioni politiche del 1963. Ho già avuto modo di argomentare i motivi per cui non ritengo valida, dal punto di vista storiografico, una lettura della conferenza regionale del giugno 1959 come momento di cesura epocale nella storia del partito511; nondimeno è chiaro che la discussione aperta in

quella conferenza risulta utile a rilevare il grado di mobilitazione ideale a cui, sul finire degli anni Cinquanta, perviene il gruppo dei «rinnovatori». Il proposito – contenuto nelle tesi della conferenza – di aggiornare l’analisi economica del partito è certo declinato in senso completamente politico, cosa che è sufficiente a smorzare gli entusiasmi memorialistici e la difesa postuma contro l’accusa di arretratezza, ma non a negare che fra l’VIII congresso e la fine del decennio nel Pci qualcosa si sta

510 Cfr. S. Giordani, 2016: tabelle. 511 Cfr. infra, par. 2.2.

effettivamente muovendo.

Un’anticipazione interessante, infatti, si era manifestata già nel dibattito su «Rinascita» aperto nella primavera del 1959, che lo stesso Fanti avrebbe richiamato nella sua relazione introduttiva e che si arricchisce, anche dopo la conferenza, con contributi che restituiscono la cifra di un’esigenza sentita non soltanto a Bologna. Da aprile a dicembre, sono diversi gli interventi sul «rinnovamento dell’economia nazionale», anche in leggera divergenza fra loro, ma unanime è la critica a un modo diffuso di intendere la politica economica, soprattutto in ambito locale, che troppo spesso concepisce gli interventi pubblici soltanto come «programmi di lavori pubblici» ed è motivata da «compiacimenti campanilistici»512. Ma, a monte, il problema di tali

programmi di industrializzazione – le «lotte per la rinascita»513 –, fatti propri da diverse

federazioni comuniste a livello locale, viene analizzato lucidamente da Luciano Barca, che si assume il compito di condurre una critica a tutto tondo di «talune errate tendenze»514 che si manifestano per via di specifici limiti teorici presente nell’analisi del

partito. Il nodo cruciale, secondo Barca, è che questi programmi individuano di certo obiettivi validi, che partono da un’analisi giusta di alcune situazioni locali, ma essi sono ancora troppo spesso separati da una riflessione complessiva sull’economia nazionale:

Si tratta […] di obiettivi con i quali si può essere in parte d’accordo. Ma si tratta di obiettivi che, tutti insieme, non fanno una linea di politica economica sulla base della quale il movimento operaio […] possa sentire la necessità e la giustezza di rifiutare la politica degli incentivi, o quella delle zone industriali da creare con leggi speciali, o quella delle varie Casse, di rifiutare, insomma, tutte quelle misure che fanno parte organica di una politica economica che non è la nostra.515

A questa importante considerazione, fa seguito un’analisi piuttosto dettagliata del ruolo della classe operaia nella lotta per una nuova economia nazionale, in cui si ribadisce che è da rigettarsi qualsiasi provvedimento politico-economico che, in nome della salvaguardia dello sviluppo, postuli la riduzione del potere contrattuale del sindacato, quindi la limitazione della sua autonomia. E ciò è tanto più valido se applicato alla piccola e media industria, dove proprio l’azione sindacale può portare a galla la subordinazione fra i piccoli produttori e i grandi gruppi capitalistici516, da cui

l’importanza della strategia delle alleanze ribadita dal congresso. Ma ciò che più

512 Così A. Bellettini, 1959: 512. 513 L. Barca, 1959: 396.

514 Ibid. 515 Ibid.

516 «[F]ar scoppiare il problema del rapporto di quel piccolo industriale con il mercato, […] fare precipitare le contraddizioni tra quel piccolo industriale e i suoi sfruttatori», ivi: 398.

importa è che, così facendo, Barca individua un criterio specifico – destinato a permeare tutta la successiva maturazione politica comunista – sulla base del quale è possibile distinguere fra provvedimenti capaci di far sopravvivere una tale industria e «un tipo di industrializzazione che possa sposarsi ad un processo democratico»517. Sono

considerazioni di fondamentale importanza, che è bene tenere a mente per capire gli sviluppi successivi.

A ulteriore conferma dell’esistenza, a tutti i livelli, di una discussione in corso su questi temi, si può leggere un documento diramato in novembre dalla Sezione economica centrale518. L’analisi della situazione generale non si discosta particolarmente

da quanto il partito ha sostenuto nelle sedi congressuali e nel dibattito pubblico degli ultimi anni. Le novità in fatto economico che vengono rilevate dallo stesso campo avversario, confermano semmai il processo di rafforzamento dei «monopoli» che si fa sentire sull’occupazione, lo spinta verso il basso del tenore di vita delle masse, gli squilibri regionali. Ciò che, invece, appare nuova è l’enfasi posta innanzitutto sulla questione regionale, che inizia qui a prendere una forma duplice: da un lato come rivendicazione dell’attuazione del decentramento previsto dalla Costituzione; dall’altro come rinvigorimento della «iniziativa regionale del partito», intesa nel senso di una