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Come i Panorami dell’industria bolognese coniugano una funzione conoscitiva a una più vicina ai propri interessi statutari – promozione dell’iniziativa privata locale – qualcosa di simile sembra fare la Schermografia della cintura industriale che è mossa da preoccupazioni squisitamente amministrative e politiche. Entrambe le voci, per di più, oltre a indagare la realtà in movimento ne mettono in luce gli esiti sociali e si pongono il chiaro obiettivo di mobilitare i propri referenti, fornendo precise letture delle trasformazioni in corso. Per Sasso Marconi, ad esempio, «l’Unità» dice che «il sindacato e il partito sono presenti in forma organizzata solo nelle due fabbriche pre- esistenti al processo di industrializzazione»187 e pone subito il problema di rilanciare

l’organizzazione operaia nei comuni di recente penetrazione industriale. Nel pieno del «boom» economico, come si può facilmente notare, non sembra più essere in ballo che Bologna ha qualcosa di più dell’antico «“vanto” – unico – di città agricola o di commercio»188, ma è ormai chiaro ai più che, seppur «[n]on vi sono grosse acciaierie e

di conseguenza non si vedono fumare decine e decine di ciminiere, come in quel di Genova o in quel di Milano […], non per questo a Bologna circolano soltanto frutta e verdura»189. Chiusa la partita per l’acquisizione di una compiuta identità industriale resta

186 G. Merlini, Intervento, in CCIA Bologna, 1964: 159-160.

187 La gioventù di Sasso: braccia a poco prezzo, «l’Unità», Cronaca di Bologna, 4 febbraio 1961. L’articolo annota inoltre che, a ostacolare la partecipazione politica, sono gli intensi ritmi di lavoro, ammantando il tutto con un forte richiamo moralistico: «Le riunioni di sindacato e di partito richiedono altra fatica [dopo il lavoro, ndr] e sembrano, talvolta, già scontate. Spesso si preferisce andare al cinema o a spasso con la propria ragazza, evitando con cura di parlare del matrimonio per non “imbarcarsi” in programmi che costano, come si suol dire, un occhio della testa».

188 L. Carpani, Un’importante branca del settore elettromeccanico, «La Mercanzia», n. 12, dicembre 1960, p. 1327.

189 Ivi, p. 1330. È un aspetto ribadito più volte dall’autore che, nell’ultimo articolo della serie, afferma: «forse dieci anni fa, doveva parere addirittura una chimera, [sic] la speranza di tale industrializzazione in quel di Bologna», cfr. anche Id., La produzione delle macchine lavatrici, n. 11- 12, novembre-dicembre 1961, p. 1018.

quindi aperta quella per governare l’intenso processo di sviluppo.

Il richiamo esplicito e costante, che ho già avuto modo di evidenziare per la

Schermografia, è infatti quello verso i gruppi sociali cui Pci e Camera di commercio si

rivolgono prioritariamente, in quanto loro rispettivo riferimento politico-ideologico: il lavoro subordinato e la piccola imprenditoria da un lato, cui si propone una prospettiva di alleanza, l’imprenditoria privata dall’altro. Evidenziata sopra la centralità operaia nell’analisi comunista, vale la pena soffermarsi sull’atteggiamento della Camera di commercio nei confronti della nascente imprenditoria locale.

A questo riguardo bisogna ribadire l’asse portante dell’indagine de «La Mercanzia», cioè la costante attenzione verso l’aspetto qualitativo delle specializzazioni produttive locali. Proprio per questo, il forte aumento del numero di imprese degli anni Cinquanta e Sessanta è spesso fonte di preoccupazione per «La Mercanzia», che sembra a più riprese agire pedagogicamente, quasi a voler contribuire alla diffusione di “buone pratiche” nell’ambiente imprenditoriale cittadino. Attraverso questa lente, si può provare a leggere fra le righe del periodico camerale nel tentativo di cogliere i più insistiti motivi di richiamo nei confronti dei tanti piccoli industriali e degli artigiani bolognesi provando, al contempo, ad individuare alcuni punti deboli della struttura industriale della città.

Emerge così, pur senza troppa enfasi, un’incapacità diffusa dell’imprenditoria locale di confrontarsi con i mercati e scegliere razionalmente fra produzioni alternative, oltre la mancanza di abitudine di calcolo e di formulazione di una strategia d’impresa propriamente detta. Lungo il corso dei Panorami, tale preoccupazione è resa palese almeno nel caso dell’industria calzaturiera e il tono utilizzato è di rammarico: «[p]urtroppo, come d’altra parte accade in ogni fatto artigiano, i maestri calzolai di Bologna sanno fare le scarpe, ma non sanno fare i conti: si sa di qualcuno che ha chiuso semplicemente perché vendeva sotto costo, e non lo sapeva»190. In un altro articolo,

benché pubblicato fuori dalla cornice dell’inchiesta, si afferma invece che «molte aziende, appunto per un mancato adeguato calcolo […] nascono già in stato patologico» e quindi si «affannano invano nel tentativo di rimediare a ciò che doveva essere vagliato in tempo»191. La «diffusione aziendale», a cui l’autore guarda con attenzione, è fonte di

timori sia per il pericolo di disperdere le energie, sia per la plausibile saturazione dei

190 J.M. Sutor, La moda calzaturiera nasce a Bologna, «La Mercanzia», n, 7-8, luglio-agosto 1955, p. 23.

191 Flavio Ferraro, Il fenomeno della diffusione aziendale quale problema di costi e di assorbimento di

mercati di cui il sistema produttivo cittadino non riesce a prevedere né anticipare le fluttuazioni. Le indicazioni che ne vengono fuori mettono così in guardia le nuove aziende affinché fra i proprietari «si instauri una mentalità analitica, osservatrice e ponderatrice», compito su cui peraltro «molto potranno fare le associazioni di categoria e le Camere di Commercio». È chiaro d’altronde che:

non ci si può improvvisare commercianti o capi d’azienda [e] non si può affrontare una tale posizione senza un’adeguata preparazione, sia pur minima, senza conoscenze tecniche, senza l’ausilio di adeguati studi dei diversi problemi di mercato attinenti all’oggetto dell’esercizio aziendale, senza infine, se del caso un’adeguata e serena valutazione della situazione magari con l’ausilio di un tecnico, di un professionista.192

Gli imprenditori locali vengono quindi esortati a raggiungere una più complessa organizzazione aziendale, anche aggiungendo funzioni di tipo tecnico nella direzione e quindi, implicitamente, promuovendo una crescita di scala. Al tono di rammarico si sostituisce comunque un giudizio più benevolo quando vengono passati in rassegna i comparti che raggiungono buoni risultati dal punto di vista delle vendite, pur mostrando le consuete criticità in fatto di dispersione dimensionale. L’argomentazione avanzata da un articolo sul comparto motoristico, infatti, è molto più debole proprio in virtù dei successi raggiunti dai suoi «fondatori e costruttori»: ad essi – si scrive – «mancò […] la spinta industriale: erano, e si conservavano, ottimi artigiani, meravigliosi creatori, perfetti padroni d’azienda; ma da loro non nacque l’industria, almeno come essa va

intesa nel senso di grande impresa. […] Erano abili, avevano successo, vivevano in un

ambiente che era favorevolissimo a loro e ai loro prodotti»193. Così pur notando

l’estrema frammentazione e le ridotte dimensioni aziendali, la spiegazione può ripiegare su presunti geni locali, contribuendo a consolidare un’immagine bonaria del capitalismo bolognese:

[f]orse la vera ragione è da cercarsi nel carattere dei bolognesi, nel loro spirito petroniano di bonomia gaudente, di facile soddisfacimento, di ambizione – quando pure essa esista – non legata a fattori di lucro, bensì addolcita dal «vivere e lasciar vivere» che tanta parte ha nella fama ospitale e saviamente gustosa della popolazione bolognese, e della intera contrada. Il bolognese non è un pioniere, non ha l’audacia avventurosa del colonizzatore. Egli sta volentieri a Bologna, e l’aria della sua città è spesso […] il vero compenso alle sue fatiche. Disdegna la schiavitù assillante e tempestosa della corsa al guadagno. Il suo lavoro è pregiato, e può insegnare a chiunque: di ciò si appaga, pur che le sere siano lasciate a lui, che vuole essere padrone del suo tempo.194

192 Ivi, pp. 574-575, corsivi aggiunti.

193 G.M. Artieri, Imponente la produzione motoristica, n. 5, maggio 1955, p. 35. 194 Ibid., corsivi aggiunti.

È il caso di notare che da considerazioni di questo tipo sarebbe originato lo stereotipo – o «maschera antropologica», secondo la felice definizione di David Bidussa – che si nutre tanto dell’edonismo gioviale di emiliani e romagnoli, quanto del loro spirito rude e sanguigno, cioè di quella «famiglia di immagini» astoriche e indifferenziate che, mutuate a loro volta dal bracciante della Romagna «malfamata», si estende poi a tutta la popolazione regionale195. Un equilibrismo di lunga data, dunque, fatto di coppie

antitetiche che vengono traghettate nella storia dell’industrializzazione. Un facile appagamento delle ambizioni personali che, tuttavia, risultano attenuate da bonarie abitudini del vivere e lasciar vivere. A soddisfare quelle ambizioni sembra bastare quasi soltanto poter godere di un certo grado di autonomia personale – la piccola officina che permette all’ex operaio o operaia di emanciparsi – i cui effetti positivi si riverberano nella comunità intera e apre così a una visione utopica in cui la società appare incredibilmente coesa: l’«operaio bolognese», si scriveva infatti sulla stessa rivista qualche anno prima, «è geniale, come il suo imprenditore»:

non è però altrettanto adatto ai ruoli modesti […] delle lavorazioni razionalizzate. Si potrebbe dire che ogni operaio bolognese ha, o crede di avere, nella sua borsa celato il bastone di comando che impugna l’imprenditore. Sono tutti artigiani nati che si adattano a fare gli operai (e ne restano scontenti); che, appena possono, si arrabattano per mettere su una bottega (e soffrono poi fra i rischi delle loro avventate imprese); che riescono magari a dare impulso ad un’azienda artigiana, piegando sotto lo sforzo per dotarla di un sempre maggior prestigio.196

Un gemellaggio così controverso fra bastone di comando e bonomia gaudente tende però a relegare nell’ombra gli episodi di frattura che non mancano di attraversare il mondo del lavoro durante la fase di più intenso sviluppo industriale. Non sorprende, infatti, che il brano appena citato arrivi a concludere che gli operai-artigiani di Bologna hanno «le virtù ed anche i difetti dei loro padroni, perché sono nati dal medesimo stampo»197. La mistificante immagine di relazioni industriali armoniche in forza nelle

aree di piccola impresa è, come si vede, stabilita fin dall’origine e ribadita in barba alla verifica fattuale. A posteriori, invece, sarebbe stata spiegata da un lato con una sorta di cameratismo da officina, dall’altro con la prossimità sociale fra imprenditori/trici e lavoratori/rici o, ancora, con l’appartenenza alla medesima subcultura politica. Ma proprio per l’accento posto sulla coesione politica della comunità, si costituisce così

195 D. Bidussa, 1997: 855. La definizione della Romagna – «così malfamata nei racconti dei romanzieri da dozzina» – è di Palmiro Togliatti nella conferenza Ceto medio e Emilia rossa (cfr. Id., 1974: 33). 196 Ernesto Bassanelli, Fase di assenteismo nell’industria bolognese, in «La Mercanzia», dicembre 1954,

pp. 21-23, cit in G. Pedrocco, 2013: 1085. 197 Ibid.

un’immagine che fa comodo a chiunque. Come la Camera di commercio porta avanti la bandiera degli imprenditori che non stanno in ufficio a dirigere, ma nelle officine a lavorare; allo stesso modo il Pci insiste sul fatto che i licenziamenti per «rappresaglia politica e sindacale» della metà degli anni Cinquanta hanno fornito l’impulso decisivo alla nascita di ditte artigiane naturalmente, oltre che oggettivamente, schierate contro i grandi monopoli198.

L’excursus comparativo svolto in queste pagine ha pertanto messo in evidenza elementi che permettono di formulare alcune preliminari considerazioni di carattere generale. In primo luogo si è visto che l’incrocio di punti di vista diversi sulla trasformazione industriale restituisce uno spettro di posizioni più ampio di quello che è ipotizzabile a priori attraverso l’analisi delle culture politiche degli attori presi in considerazione. L’analisi del Pci, poiché ancora legata a un’idea «catastrofista» dello sviluppo capitalistico, sconta un certo ritardo nel riconoscere gli elementi di dinamicità che il settore manifatturiero esprime nella Bologna dei tardi anni Cinquanta. La posizione di governo locale del partito, tuttavia, lo spinge a non sottovalutare l’importanza della trasformazione in atto ed evitare che la propria azione amministrativa venga superata dai fatti. Prende così piede una nuova consapevolezza politica dell’avvenuta ridefinizione degli spazi attorno alla città, che segue la diffusione degli impianti industriali in un territorio fino a poco prima prevalentemente agricolo. Tale processo diventa così il principale stimolo a un generale ripensamento dell’intervento amministrativo che si salda, infine, con le aspettative di rinnovamento maturate in una nuova classe di dirigenti e quadri intermedi, processo tutt’altro che privo di conflitti che si riverberano a livello nazionale.

Allo stesso modo va analizzato l’approccio del principale avversario cittadino del Pci, che mostra importanti oscillazioni nel confrontarsi con il tema della rapida industrializzazione della città. Sicuramente, Palazzo della Mercanzia si distingue per un precoce riconoscimento dell’importanza delle attività manifatturiere per il futuro della città e contribuisce non poco a promuovere l’abbandono del paradigma ruralista precedentemente egemone nella cultura cittadina. Tuttavia, ciò non significa che la nuova identità industriale sia un approdo sicuro che diventa patrimonio condiviso della Dc cittadina. La cosa è vera se si sposta lo sguardo all’esterno della Camera di

198 Cfr., fra gli altri già citati, quanto viene detto della Oskar in Athos Vianelli, Il giocattolo, «La Mercanzia», n. 12, dicembre 1959, p. 1192. Sull’ondata di licenziamenti degli anni cinquanta cfr. L. Arbizzani, 2012 e CCdL Bologna, 1955.

commercio, come dimostra un pamphlet memorialistico del consigliere democristiano Degli Esposti:

Bologna stava assumendo i tratti della grande città, con una premente «banlieu» indifferenziata sulla fascia esterna, con una crescita varia di elementi, ma insieme non deponeva la sua aria ristretta, provinciale, casalinga. L’umore della gente non era da metropoli […] lo sviluppo economico della città si manteneva limitato; gli anni del «miracolo» si preparano anche a Bologna, ma manterranno una loro caratteristica domestica. […] Si determinerà sì anche a Bologna l’inversione del rapporto città-campagna, con un progressivo assorbimento della mano d’opera sino alla quasi totale eliminazione della disoccupazione, ma il carattere dell’impresa industriale bolognese rimarrà quello tradizionale; imprese piccole, settori, soprattutto di sostegno all’edilizia, oppure meccaniche; unità limitate e scarsamente incisive nel tessuto economico generale199

D’altra parte, anche all’interno dello stesso gruppo redazionale de «La Mercanzia» esiste un ventaglio di opinioni estremamente significativo, come si è visto, ad esempio, nel giudizio sul ruolo della piccola impresa, a volte enfatizzata come garanzia di qualità, altre volte stigmatizzata o giustificata ricorrendo ad aneddoti e analisi dal sapore vagamente culturalista.

Ma proprio la discussione, ancora del tutto disorganica e caratterizzata da una grande dose di empirismo, attorno al contributo positivo che la piccola impresa e l’artigianato possono dare all’economia cittadina apre scenari quanto mai interessanti per il discorso che qui interessa da vicino. Nel momento di massimo consenso sociale verso la produzione di massa, infatti, il riconoscimento sul campo della centralità di queste imprese in un’economia di provincia spinge i principali attori locali a sposare un nuovo e più organico intervento sulla realtà produttiva locale. Infatti, se da un lato essi promuovono un rinnovamento del profilo identitario della città basato sull’accresciuta importanza dell’industrializzazione, dall’altro si candidano a farsene i migliori interpreti e, soprattutto, a porsi al vertice di un sistema di governo che intende influenzarne profondamente gli esiti.