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per il governo dello sviluppo

1. Spazi della produzione, spazi di governo

Ribadire che i «grandi rivolgimenti economici»200, verificatisi negli ultimi due secoli

almeno, sono all’origine di una profonda e radicale trasformazione del rapporto fra esseri umani e territorio è ormai quasi banale nella sua semplicità. Se non altro, lo si può dare per scontato, dal momento che le scienze sociali e umane hanno dedicato tanti sforzi al tentativo di misurare e comprendere la dimensione territoriale dei processi di industrializzazione e ne hanno analizzato tanto la scala entro cui si sono dispiegati, quanto l’impatto avuto sull’ambiente fisico ed umano che hanno investito201. Eppure mi

sembra interessante compiere alcune riflessioni preliminari e capire in che modo lo sviluppo delle industrie bolognesi – che è innanzitutto un’espansione delle stesse su porzioni sempre più vaste del territorio provinciale – abbia influito sul modo in cui l’area bolognese è stata concepita, soprattutto in relazione alle possibilità di governarla e di indirizzarne lo sviluppo economico. Si è visto, infatti, che il caso di Bologna è caratterizzato da una crescita vertiginosa degli indici di produzione e di presenza manifatturiera pur senza determinare una compiuta trasformazione della città in metropoli, nonostante le aspettative di alcuni202. Le serie storiche mostrano infatti che,

200 L. Gambi, 2004: 11.

201 Nello specifico dello sviluppo industriale vale la pena citare anche il più recente approccio della storia ambientale: cfr. S. Adorno, S. Neri Serneri, 2009.

in un primo momento, la maggior parte delle attività industriali e artigianali si concentra all’interno dei confini del comune capoluogo, mentre successivamente il processo si inverte a favore dei comuni del circondario. Non è tanto una questione di incremento delle unità locali, che in verità nel corso degli anni Sessanta e Settanta vedono un aumento del loro peso percentuale proprio in città, ma si tratta piuttosto di un diverso equilibrio del numero di addetti al settore manifatturiero, che tendono a diffondersi in maniera assai diseguale fra Bologna e il suo circondario203.

D’altronde, è ovvio che a guidare le localizzazioni industriali in tutta l’Emilia- Romagna ha giocato un ruolo di rilievo la maglia preesistente delle città poste sull’antica via consolare, che dà storicamente il nome alla regione. La maggiore incidenza delle attività manifatturiere, infatti, si ha nella fascia pedemontana della regione, cioè proprio a ridosso della via Emilia, con indici straordinariamente alti nel tratto fra Parma e Imola204. In tutti questi centri si assiste così, già a partire dagli anni

Cinquanta, a una prima dislocazione di industrie in favore dei comuni del loro circondario; i quali, nel corso degli anni successivi, assumono sempre più chiaramente i contorni di autentiche «cinture industriali», come vengono denominate nel dibattito politico e culturale del tempo. Queste fasce industrializzate, infatti, oltre ad attirare una non sporadica attenzione del dibattito pubblico, guadagnano ben presto un posto di assoluto rilievo nella riflessione politica locale, a livelli diversi e da ogni parte politica, che a Bologna segna un momento decisivo per orientare le future scelte di governo dello sviluppo locale. Il clima trasversalmente favorevole alla programmazione economica degli anni Sessanta – pur segnato in Emilia dalla proposta comunista di inserirvi contenuti socialmente avanzati, riassunti nella formula della «programmazione economica democratica»205 – favorisce la traduzione su un piano immediatamente

politico dell’attività di intervento delle istituzioni locali sui nuovi spazi dedicati alle attività produttive, allora in via di espansione e ridefinizione. Il cosiddetto «riequilibrio», come correzione delle storture dello sviluppo economico spontaneo e caotico del «boom», sarebbe diventato, fra anni Sessanta e Settanta, un richiamo costante anche nei programmi delle sinistre emiliano-romagnole, per nulla in

203 Pur rimanendo inalterato il peso complessivo del comprensorio di Bologna nei confronti del resto della provincia – con oltre il 79% degli addetti all’industria manifatturiera – cambia il peso relativo del comune di Bologna (da 70,2% a 44,5%) e degli altri comuni del circondario (da 9,5% a 34,8%), cfr. A. Bellettini, 1978: 47-49.

204 G. Tassinari, 1986: 82-87; sulla via Emilia come «città lineare» cfr. P.P. D’Attorre, 1983: 37 e sgg; P.L. Cervellati, 1997.

contraddizione con le parole chiave utilizzate dagli esperti della programmazione del centro-sinistra a livello nazionale. A dispetto di ciò, al momento dell’elezione dei primi consigli regionali nel 1970, l’Emilia-Romagna gode di una struttura industriale per molti versi più equilibrata che altrove206 e il progetto di riequilibrio assume qui una

connotazione strettamente territoriale, con l’intenzione di alleviare la congestione della via Emilia, favorire lo sviluppo diffuso delle attività produttive e, di conseguenza, il benessere sociale. Eppure, nonostante appositi interventi di carattere prettamente infrastrutturale, la tendenza originaria di squilibrio fra via Emilia e resto del territorio non sarebbe mai stata invertita davvero207.

A una prima e fugace occhiata, comunque, la provincia di Bologna sembra muoversi in direzione di una certa diffusione industriale dal nucleo cittadino originario verso l’esterno fin dai primi anni Sessanta, anche in relazione a precise politiche di incentivazione settoriale adottate dal governo centrale per tutta l’area del centro-nord208.

Già alla fine degli anni Cinquanta, infatti, molte importanti imprese della città, inevitabilmente accompagnate da un insieme eterogeneo di officine artigianali vecchie e nuove, avevano iniziato a spostarsi dal centro verso la prima periferia cittadina e da qui, successivamente, avevano varcato i confini comunali per una serie di motivazioni correlate. Le imprese più grandi, o quelle con un qualche progetto di espansione andavano, andavano principalmente in cerca di spazi più adeguati, e più a buon mercato, per allargare i propri impianti e investire al contempo sull’aggiornamento delle tecniche produttive e organizzative. Le imprese minori e quelle a carattere artigianale, invece, erano spinte – almeno dopo il varo degli incentivi del 1957 – a spostarsi o costruire nuovi fabbricati nelle «località economicamente depresse» dell’hinterland bolognese209.

Tuttavia, si tratta sostanzialmente di un’opera di ispessimento del tessuto industriale esistente che di fatto non scardina le tradizionali e consolidate direttrici di sviluppo, ma

206 Almeno dal punto di vista dei redditi, della concentrazione demografica, ma anche del rapporto quantitativo fra agricoltura e industria, non era allora compreso in questo termine alcuna considerazione del problema, in senso allargato, ambientale (consumo di suolo, inquinamento dell’aria e delle acque, ecc.).

207 E così rimane anche nella percezione comune: «Ma scherza, io lungo la via Emilia faccio uno sputo prima o poi ci va un industria, […] per emulazione, per imitazione, per comodità, per… pigrizia mentale, la via Emilia è naturale insediamento di qualsiasi bolognese; adesso ci sono un sacco di capannoni sfitti ma vedrà che se riprende un po’ la situazione produttiva economica, ripartono tutti e in quei capannoni…»; intervista a G. Amelotti, 23 dicembre 2015.

208 Cfr. F. Gobbo, C. Pasini, 1987: 184-186; E. Betti, 2012. Sulla legislazione per le «località depresse» di fine anni Cinquanta cfr. infra, par. 1.2.

209 Vale le pena di ricordare che nel comprensorio di Bologna, oltre al capoluogo, sono esclusi dal provvedimento soltanto i comuni di: Casalecchio di Reno, San Lazzaro di Savena, Castel Maggiore, Budrio e Castenaso; cfr. ibid.

s’innesta tutt’al più sulle nuove linee di collegamento infrastrutturale, come ad esempio l’autostrada per Firenze210. Più che indebolirlo, questa diffusione industriale – o, ancora

meglio, dislocazione parziale delle iniziative manifatturiere cittadine – rafforza il ruolo di perno della città, cioè agisce in senso opposto a quel processo di decentramento che alcuni commentatori hanno voluto intravedervi, a patto di intendere – a mio avviso, più correttamente – quel termine come la distribuzione di peso economico e di autonomia decisionale da un centro a una periferia. Va tenuto infatti in considerazione che, come mostrano le statistiche sulle localizzazioni industriali, la presenza dell’industria all’inizio degli anni Settanta è ancora fortemente ancorata al nucleo urbano centrale – ora però allargato fino a comprendere la città e i comuni del circondario – e da qui si irradia verso il resto della provincia. Lo confermano, d’altronde, le stesse rilevazioni del decennio successivo: a fronte di una struttura industriale che ha rallentato i suoi ritmi di crescita in città, si sono consolidate le posizioni periferiche della cintura senza spostare, se non in lievissima misura, il baricentro del sistema211.

La complessità delle implicazioni semantiche attribuite al concetto di decentramento è tale che richiede di svolgere alcune considerazioni preliminari col fine esplicito di smarcarsi dalla persistente ambiguità che il termine assume, sia nel dibattito pubblico sia in quello storiografico. È noto, infatti, che la prolifica stagione di studi sulla Terza Italia ha fatto largamente ricorso a questa categoria conferendole una popolarità decisamente insolita per le formulazioni concettuali nate in senso alle scienze sociali. La versatilità del suo impiego e soprattutto le sue capacità euristiche ne hanno infatti promosso un utilizzo talmente estensivo da abbracciare, talvolta inducendo o rafforzando la confusione, fenomeni distinti e diversi come il decentramento produttivo e quello politico-amministrativo. Per di più, anche all’interno degli stessi studi economici non è raro imbattersi nel decentramento come una sorta di categoria- ombrello, capace di portare a sintesi processi di delocalizzazione, diffusione spaziale di unità manifatturiere o di vera e propria frammentazione produttiva212. Si può apprezzare

in questo una prima sovrapposizione di significato, da individuare proprio nella

210 Cfr. ancora la discussione dei dati in G. Tassinari, 1986.

211 «[I]l pendolarismo per motivi di lavoro coinvolge oltre 260.000 abitanti, pari a circa il 50% della popolazione attiva residente. Esaminando la matrice origine-destinazione dei movimento pendolari per motivi di lavoro si evince che la quasi totalità del territorio provinciale è compreso nell’area funzionale definita come bacino di pendolarità giornaliera, che ha il suo fulcro nella città e nei comuni contigui della sua cintura industriale» verso i quali si è comunque leggermente spostato il baricentro rispetto a dieci anni prima, cfr. ivi: 85n.

stratificazione fra due ambiti semantici, benché in qualche maniera convergenti. Da un lato, nel lessico economico, si conferisce al decentramento un’accezione eminentemente «produttiva», privilegiando così i processi di disarticolazione attraverso cui, pur con modalità differenti, «un’impresa trasferisce al di fuori dei propri stabilimenti alcune fasi

del ciclo di produzione precedentemente integrate al suo interno»213. Dall’altro, nel

lessico politico-amministrativo il termine, già ampiamente adoperato negli anni Sessanta, indica al contrario il trasferimento di funzioni governative e potere decisionale dagli organi centrali dello Stato a istituzioni di governo locale, siano esse quelle esistenti (province) o da istituire (regioni, comprensori, quartieri ecc.). Da questo punto di vista il termine – oltre ad uscirne connotato in senso fortemente positivo214

decentramento è diventato anche parola d’ordine di una precisa battaglia politica, tesa a rivendicare spazi nuovi, seppur non eversivi né trasformativi della maglia amministrativa validata dalla Costituzione del 1948, di governo e autonomia locali215.

A questo quadro dai contorni sfumati non si sottrae il caso di Bologna, dove anzi la sovrapposizione semantica permea a lungo il dibattito pubblico e penetra infine nella storiografia216. Confusione che si ritrova già nella documentazione, come ad esempio

emerge da uno studio sulle «localizzazioni industriali» edito nel 1973 dall’assessorato alla programmazione economica – da pochi anni in mano al socialista Paolo Babbini217

– nel quale si stabilisce una distinzione concettuale fra «diffusione» e «dispersione o decentramento» attraverso un criterio eminentemente spaziale. Il primo fenomeno, infatti, si verificherebbe quando gli stabilimenti subiscono una redistribuzione «da

213 M. Zenezini, 2004, corsivo aggiunto. Così è inteso anche dalla maggior parte della letteratura citata, cfr. A. Rinaldi, 2014: 215; V. Zamagni, 1997: 150-156 e Ead. 1986: 298-299; P.P. D’Attorre, V. Zamagni, 1992: 23.

214 «Ma alla fine degli anni sessanta è proprio il significato corrente del termine decentramento a mutare, ad assumere, inteso in modo prevalente e via via più esclusivo come decentramento industriale, una connotazione sostanzialmente negativa in luogo di quella che aveva avuto, inteso come tecnica di “buon governo” della città, all’inizio del decennio. Anziché operare per ricomporre gli equilibri perduti, il decentramento industriale produce segregazione ed estende, favorito in questo dall’accentuarsi dei costi relativi alla mobilità, come in questi anni si dice “sul territorio” il rapporto di sfruttamento. Svincolato dal corpo di riforme che avrebbero dovuto esserne il contesto, è anzi proprio il modello della città-regione dei primi anni sessanta – quando lo si pensava essere il modello per lo sviluppo – che diviene oggi nei fatti il supporto territoriale del decentramento industriale, quale forma largamente praticata di riconversione anti-crisi […]», F. Ceccarelli, M.A. Gallingani, 1984: 246-247. Questo giudizio sul decentramento produttivo muterà ancora negli anni Ottanta, quando invocarlo non sarà più «un reato nei confronti del movimento operaio», F. Piro, 1983: 18.

215 Cfr. L. Bobbio, 2015. In questo senso vanno ricondotte alla stessa matrice tanto le spinte verso la pianificazione sovracomunale, quanto quelle verso l’articolazione infracomunale, cfr. F. Bottini, 2003.

216 Cfr., ad es., E. Betti, 2012, in cui non si distingue fra decentramento e delocalizzazione.

217 Bologna 1935, vicesindaco nelle giunte Zangheri dal 1970 al 1977, deputato socialista dal 1979 al 1994. Ricopre un ruolo non secondario nell’evoluzione del dibattito sul riformismo e le trasformazioni economiche all’interno del Partito socialista italiano, cfr. F. Bartolini, 2015: 124-126.

un’area principale di concentrazione […] ad un distretto vicino o adiacente», il secondo quando invece la «distribuzione [è] più ampia, come da una grande concentrazione industriale, in una grossa città o area metropolitana, a diverse località più piccole sparse entro una grande regione economica»218. Se ne deduce che lo schema analitico proposto,

in verità assai poco sofisticato, non presta particolare attenzione alla differenza fra frammentazione del ciclo produttivo e delocalizzazione delle imprese, né tantomeno ai legami interaziendali e alle ricadute esterne dell’attività economica. Al di là dei limiti specifici di uno studio che ha chiaramente altre finalità, questa tematizzazione è però interessante in quanto indicativa dell’angolatura con cui la classe dirigente bolognese, in una fase ormai matura di programmazione economica, guarda al governo dello sviluppo industriale.

Si apre così la possibilità di approfondire alcuni interrogativi sul nesso fra industrializzazione, trasformazioni del territorio e intervento politico. Si può riconoscere in questa fase una specifica cultura di governo che pone al centro il tema degli spazi della produzione? Quali saperi hanno contribuito a consolidarla? Esiste una peculiarità dell’amministrazione bolognese e quale ruolo vi giocano i conflitti fra parti politiche in competizione? Ma a monte: su quali basi si stabilisce la relazione fra l’espansione industriale e i progetti di pianificazione territoriale e di decentramento amministrativo?

Negli anni del «boom», come anticipato, la classe dirigente locale è spinta a rivolgere lo sguardo oltre la ristrettezza dei confini comunali per cogliere la scala delle trasformazioni economiche in corso. A quel punto, anche se non viene del tutto liquidata l’idea di una città con una crescita demografica ben più larga di quanto si sarebbe storicamente verificato, sono però definitivamente tramontate le velleità degli anni fra le due guerre di arrivare a una «grande Bologna» con l’assorbimento dei comuni contigui, secondo lo schema riuscito per Borgo Panigale nel 1937 e fallito per Casalecchio di Reno o San Lazzaro di Savena219. Nondimeno, è in questo momento che si innesca un

processo di ridefinizione del ruolo della città nei confronti del suo hinterland, di cui l’industrializzazione è elemento indiscutibilmente cruciale e che non procede, almeno non speditamente, verso il rafforzamento dell’autonomia delle periferie. Così, quando negli anni Sessanta viene istituzionalizzata un’area di competenza urbanistica sovracomunale che poi verrà trasformata nel «comprensorio» – dapprima come associazione volontaria di comuni contigui, poi come specifico livello intermedio di

218 Comune di Bologna–Assessorato programmazione economica e partecipazioni comunali, 1973: 8n. 219 Cfr. ancora E. Arioti, 1983.

pianificazione/programmazione riconosciuto da una legge regionale220 – si configura un

percorso di articolazione su nuove basi del rapporto fra città e area metropolitana, intesa come spazio in cui Bologna proietta direttamente la sua influenza. La prima tappa di questo percorso è quindi il Piano regolatore intercomunale (Pic) del 1961-64221, con cui

l’amministrazione bolognese si inserisce in maniera coerente nel clima di rinnovato interesse per la pianificazione sovracomunale dibattuta nei congressi dell’Istituto nazionale di urbanistica e diffusa nel dibattito pubblico italiano degli anni Cinquanta222.

L’omogeneità politica delle giunte attorno alla città felsinea è particolarmente propizia alla realizzazione del piano – da qui, ogni considerazione sull’autonomia politico- culturale del circondario deve fare i conti con luoghi e modi di elaborazione di un proposta concepita, in buona parte, dalla federazione comunista cittadina – e infatti si concretizza in tempi decisamente più rapidi di città come Milano, Torino o Roma223. E

di tutto ciò, anche forzando la lettura della realtà, non mancano di farne vanto gli amministratori comunisti bolognesi224. Il piano è, appunto, un coordinamento degli

interventi urbanistici che abbraccia i comuni del cintura cittadina, cioè quegli stessi comuni di cui era appena stata notata la straordinaria vitalità in termini di densità di relazioni e scambi con la città in riferimento alla produzione industriale. La necessità di espandere l’area di pianificazione urbanistica non è quindi comprensibile alla luce di un reale bisogno di suolo o dell’aumento demografico non contenibile all’interno del territorio comunale. Essa è invece direttamente correlata all’espansione industriale che

220 Cfr. la ricostruzione fornita da C. De Maria, 2013: 40 e sgg; ma anche P. Bonora, 1984.

221 Al 1961 risale l’inizio della pianificazione, mentre nel 1964 vengono attuati i piani di completamento da parte dei comuni del comprensorio, cfr. Provincia di Bologna–Ufficio pubbliche relazioni, 1969: 12; Piano poliennale, 1963: 277 (Allegato H); C. De Maria, 2013.

222 F. Bottini, 2003: 59-82. Il saggio ricostruisce attentamente quel dibattito dalla metà degli anni Venti all’attuazione delle regioni a statuto ordinario e spiega come tale discussione riemerga a più riprese nel dibattito italiano, riuscendo raramente a tradurre le proprie acquisizioni in patrimonio comune, da cui i continui salti all’indietro. Per una discussione delle implicazioni recenti della pianificazione intercomunale cfr. B. Marangoni, E. Marchigiani (a cura di), 2006.

223 A Milano, l’iter tortuoso per applicare il Pim (Piano intercomunale milanese) indica chiaramente che, nel 1959, le giunte di sinistra del circondario metropolitano lombardo si oppongono al progetto con un ricorso della Lega dei comuni democratici presso il Consiglio di Stato, solo l’avvio del centro- sinistra permette un clima di «maggior distensione», cfr. M. Romano, 1967; ma anche G. Campos Venuti, 1961: 45. Torino, a fronte di una gestazione più lunga, arriva comunque nel 1964 ai risultati previsti, cfr. E. Greco, 2010. Il caso di Roma, infine, mostra nitidamente le contraddizioni che si addensano intorno a questi progetti, non sempre comprensibili da una prospettiva strettamente politologica, cfr. G. Pietrangeli, 2014a e 2014b.

224 Nel luglio 1962 l’assessore all’urbanistica Giuseppe Campos Venuti ricorda in Consiglio comunale che «neppure uno dei piani intercomunali istituiti fino ad oggi [Roma, Torino e Milano, ndr] ha già visto la luce», cosa che secondo lui si spiega con «la sostanziale resistenza opposta per molti anni ad ogni forma di politica di piano dalle forze politiche che detenevano la maggioranza nel nostro paese» (Id. 1962: 5-6). La evidenze storiografiche, esplicitate nella nota sopra e su cui era intervento anche lo stesso Campos Venuti, dimostrano piuttosto il contrario.

nel giro di pochi anni ha completamente ridisegnato lo spazio entro cui dispiegare un’azione amministrativa valida, capace cioè di un’azione di governo all’altezza della complessità di una trasformazione socio-economica che, al momento di quel progetto, si sta verificando da almeno un lustro.

Come visto nel caso della Schermografia della cintura industriale225, la redazione

locale de «l’Unità» – che si dimostra più attenta, per forza di cose, alle questioni amministrative rispetto ai concorrenti di Palazzo della Mercanzia – modula il proprio sguardo proprio sugli spazi nuovi della produzione industriale e ne fa argomento di discussione pubblica enfatizzandoli come motivo principale di un intervento pubblico urgente. Le questioni che interessano più da vicino il Pci sono, infatti, non solo e non tanto quelle legate alla sua cultura politica, come le condizioni di lavoro o i problemi dell’organizzazione sindacale, che pure hanno una loro rilevanza nell’argomentazione. Parimenti importanti, ai loro occhi, sembrano infatti le implicazioni urbanistiche di quel processo di espansione industriale, perciò ben presenti nella loro analisi insieme a un’attenzione costante a quelle tendenze di trasformazione della composizione sociale e demografica del bolognese, sempre in vista di una possibile minaccia alla cosiddetta «politica delle alleanze». Il «“terremoto” dell’industrializzazione», spiega infatti uno degli autori dell’inchiesta, «sconvolgerà il tessuto economico e sociale»226 di un