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Risulta palese a questo punto che entrambe le inchieste, benché diversissime fra loro e parte di un dibattito che trascende i due casi presi in considerazione, alternano osservazioni puntuali su specifiche situazioni aziendali a considerazioni di carattere più generale sulla strada di sviluppo che la città di Bologna si appresta a imboccare. Com’è ovvio, queste due voci mettono in luce aspetti diversi dei medesimi fenomeni, ognuna filtrando le proprie considerazioni attraverso la propria cultura politica e calando il discorso in direzione del proprio uditorio. È interessante notare, però, che dall’incrocio dei due approcci emergono sfumature non sempre riconducibili al repertorio proprio delle rispettive appartenenze ed è su tali sfumature che è utile ora indugiare, mettendo a fuoco un percorso di evoluzione politica dinanzi a un processo di intensa trasformazione economico-sociale. Un tema particolarmente adatto a evidenziare questa evoluzione è il ruolo assegnato alla piccola impresa all’interno di questo dibattito cittadino: che valutazione ne danno gli attori considerati? cosa emerge dalla tensione fra l’esigenza conoscitiva, la volontà di promuovere il territorio, la necessità di mobilitare i propri interlocutori? che implicazioni ha tutto ciò sull’azione di governo?

È chiaro, infatti, che attorno al nodo dell’impresa minore si addensa una questione cruciale per il modo in cui le classi dirigenti locali decidono di intervenire nel governo dello sviluppo. Fino agli anni Settanta, infatti, praticamente tutte le teorie economiche relegano la piccola impresa a un ruolo del tutto marginale, se non un vero e proprio retaggio del sistema precapitalistico: «dalla metà degli anni Quaranta alla metà degli anni Settanta, l’idea prevalente tra gli economisti era che le piccole imprese fossero per loro natura inefficienti e destinate a scomparire, a vantaggio delle imprese maggiori»145.

Un tale generalizzato sospetto affonda le proprie radici nella «formulazione paradigmatica»146 offerta dalle tesi di Joseph Steindl (1945), che godevano di ampia

144 Ibid. La paternità dell’operazione, come si vedrà, è del presidente della Camera di commercio Giovanni Merlini, cosa nota all’amministrazione comunale e al Pci, ma qui si fa riferimento soltanto al presidente del Consiglio d’amministrazione del Consorzio, l’industriale Gaetano Maccaferri. 145 A. Rinaldi, 2014: 213.

diffusione riuscendo a coniugare teorie economiche opposte, come quella marxista e quella neoclassica147. La storiografia economica concorda, infatti, nel collocare la prima

radicale revisione di questa solida interpretazione al momento in cui, per una serie di ragioni interconnesse, diminuiscono le dimensioni ottimali d’impresa nel mondo industriale occidentale148. A ben vedere, però, i primi accenni di una riconsiderazione in

questo senso emergono già negli anni del «boom», almeno nelle aree dove l’industrializzazione si era caratterizzata dallo sviluppo massiccio di aziende dal profilo dimensionale ridotto. Uno sguardo più attento alle fonti, infatti, può condurre a ripensare la periodizzazione con cui è stata tradizionalmente ricostruita la storia della piccola impresa e il dibattito su di essa. Ciò può contribuire inoltre a spiegare che la straordinaria risonanza delle tesi sulla bellezza del “piccolo”149 affondino le proprie

radici su un preciso retroterra culturale che, nelle aree a industrializzazione diffusa, ha messo in discussione il paradigma «grandindustrista»150.

Secondo un articolo della serie dei Panorami dell’industria bolognese pubblicato nel 1955, ad esempio, le piccole imprese bolognesi coinvolte nella produzione di motociclette «sono utili e ben lungi dall’essere destinate a scomparire», mettendo molto cautamente in discussione l’assunto, allora scontato, che solo la crescita dimensionale e l’adozione della produzione di massa avrebbero potuto assicurare il successo e l’efficienza economica:

Il principio assiomatico secondo cui una azienda o si sviluppa o muore è valido anche qui, ma mentre esso è stato altrove applicato nel senso di aumentare la massa di produzione, a Bologna ha agito sovrattutto [sic] nel senso di eccitare continuamente la ricerca di nuovi orientamenti, nuovi ritrovati, nuove produzioni, conservando così all’azienda, attraverso una sempre eletta qualità, quella spinta evolutiva che ne dà la vita. […] Perché è proprio [alle piccole aziende] che si deve il continuo miglioramento tecnico di ogni settore, e particolarmente in quello motoristico.151

Può colpire l’assonanza fra queste affermazioni e le argomentazioni fornite in sede storiografica poco più di trent’anni dopo, seppure ovviamente con maggiore profondità

del 1945. Nonostante la traduzione tardiva, l’influenza delle tesi dell’economista austriaco era stata forte, anche all’interno dell’Ufficio studi della Fiom bolognese, fino almeno agli anni Sessanta, secondo quanto mi è stato riferito da Francesco Garibaldo, intervista del 16 giungo 2015.

147 G. Becattini, 1991: 8-9; per una discussione delle posizioni del Pci e del sindacato su questi temi, cfr. la discussione che ne faccio in infra, par. 4.3.

148 Cfr. infra, cap. 4.1.

149 Secondo la nota espressione di E.F. Schumacher, Small is beautiful. Economics as if people mattered, 1973.

150 G. Becattini, 1991: 13.

151 G.M. Artieri, Imponente la produzione motoristica, in «La Mercanzia», n. 5, maggio 1955, p. 36, corsivo aggiunto.

d’analisi e nel quadro di una riflessione di ben più ampio respiro152. Benché bloccate a

livello di intuizione, non cala l’interesse verso affermazioni del tipo visto, proprio perché in grado di incrinare l’apparente solidità di un paradigma. Il brano citato, infatti, mette in risalto le potenzialità innovative delle tante «fabbrichette» bolognesi che, per quanto possano apparire frutto di una crescita caotica, sono in realtà il fulcro di una struttura industriale dotata di una sua coerenza. L’accento posto sulla qualità della produzione fa così il paio all’enfasi precoce posta sull’estetizzazione del lavoro artigiano:

Si obietterà che anche l’azienda grande ha un centro sperimentale, o un reparto corse, dove si compiono continuamente prove di nuovi modelli. Ciò è vero, ma in effetti questo non è altro che la conservazione della attitudine creatrice della azienda artigiana. Anzi, ben di più: poiché in definitiva l’ufficio progetti ed il reparto corse di una grande fabbrica sono null’altro che un gruppo di abilissimi artigiani e tecnici che per tutto l’anno lavorano, magari sciupando materiale, comunque utilizzando costosi impianti, al solo scopo di preparare un prototipo sperimentale.153

Le modalità d’indagine e i tempi lunghi dell’inchiesta de «La Mercanzia» permettono alla Camera di commercio di calmierare eventuali spinte entusiastiche verso le performance delle aziende di dimensioni ridotte, di cui si colgono ovviamente anche i limiti che «rend[ono] acuti fenomeni di mercato, legati a oscillazione di prezzi od a mutazione di gusti e orientamenti dei consumatori». È ciò che viene messo in luce, ad esempio, dagli imprenditori del settore alimentare, che subiscono il confronto con i loro omologhi della «vicina Lombardia – ben più potentemente strutturata sotto l’aspetto industriale moderno»154. Eppure, nell’analizzare i rapporti di concorrenza fra piccole e

grandi imprese, la serie di articoli sull’industria motoristica non manca di evidenziare elementi in grado di scardinare una delle argomentazioni più forti sulla subalternità dell’impresa minore: l’incapacità di abbattere i costi di produzione tramite le economie di scala proprie delle grandi aziende.

È difficile dire quanto gli autori dei Panorami fossero consapevoli del valore teorico di queste acquisizioni. Forse non è possibile ipotizzare che, a portarli su questa strada,

152 «C’è poi uno strato di aziende intermedie che esegue su progetto un prodotto ormai sufficientemente standardizzato, a costi inferiori perché non hanno spese di ricerca; l’esistenza di queste imprese

spinge l’impresa-leader a portare sempre più avanti la frontiera delle innovazioni, dal momento che

non può competere sul prezzo di un prodotto quando questo può essere imitato dalle aziende intermedie», V. Zamagni, 1986: 299, corsivo aggiunto.

153 G.M. Artieri, Imponente la produzione motoristica, in «La Mercanzia», n. 5, maggio 1955, p. 36. Per una discussione sul valore estetico dell’artigianato esploso nella fase postfordista, cfr. F. Bartolini, 2015: 65-68.

154 U. Reverberi Riva, Il settore delle carni insaccate ed in scatola II, «La Mercanzia», n. 2, febbraio 1959, pp. 97.

sia la stessa necessità polemica di rispondere a un’argomentazione classica del Pci, secondo cui i «monopoli» svolgono una funzione di schiacciamento nei confronti dei piccoli produttori. Nondimeno, l’inchiesta documenta che «i mercati di assorbimento delle moto Morini […] non coincidono con i mercati delle grandi industrie a prodotti più popolari»155. Proprio la diversificazione e l’alta qualità dei prodotti contribuisce a

formare mercati fra loro differenziati, aprendo possibilità di sviluppo su percorsi autonomi. Qualcosa di simile si verifica nell’industria alimentare, i cui problemi dimensionali vengono bilanciati da «quelle caratteristiche di qualità e di tipicità che la distinguono di fronte ai consumatori»156, per le fabbriche di motociclette prevarrebbero

le regole di un «mercato ricco», nel quale invece della «affermazione del motore standardizzato e di basso prezzo, popolare diremmo, […] [si punta] su criteri qualitativi sostanzialmente costosi, quali la velocità, il colore, la forma dei telai, o dei serbatoi, o dei sellini, o addirittura sulla popolarità sportiva dei costruttori»157. Le motivazioni di

questo sviluppo, tuttavia, vengono ricondotte a una presunta «nota caratteristica del consumatore italiano, che rifugge dai prodotti standardizzati»158, ma l’analisi non si

spinge oltre.

Nonostante ciò, l’osservazione empirica permette di evidenziare particolari niente affatto banali. Fin dall’apertura dell’inchiesta, infatti, viene notato che i trattori della ditta Rossi raggiungono «un notevole grado di rendimento» per via di una serie di innovazioni introdotte dall’azienda nella costruzione di componentistica e attrezzi agricoli, «mentre la preoccupazione di affidare ad industrie specializzate nelle rispettive produzioni le parti più delicate [assicura] una piena efficienza per le parti meccaniche e per il complesso della macchina»159. Centrali, ancora una volta, le aziende della

motoristica, che costituiscono senza dubbio un’eccellenza industriale bolognese. Nello stabilimento della Morini, infatti, «si costruisce interamente il motore e si compiono le lavorazioni più delicate delle altre parti della macchina. Oltre a ciò essa comprende il reparto corse, che è una vera e propria aziendina a sé stante», mentre il resto viene acquistato da fornitori esterni. Viene così elogiata «[l]’organizzazione produttiva […] tutta orientata alla lavorazione accurata e specializzata» e, ancor di più, il fatto che

155 G.M. Artieri, Imponente la produzione motoristica, in «La Mercanzia», n. 5, maggio 1955, p. 38. 156 U. Reverberi Riva, Il settore delle carni insaccate ed in scatola II, «La Mercanzia», n. 2, febbraio

1959, pp. 99.

157 G.M. Artieri, Imponente la produzione motoristica, in «La Mercanzia», n. 5, maggio 1955, p. 36. 158 G.M. Artieri, Imponente la produzione motoristica, in «La Mercanzia», n. 5, maggio 1955, p. 36. 159 G.J. Faber, Le macchine agricole, «La Mercanzia», n. 1, gennaio, 1955, pp. 28.

il complesso ordinamento produttivo della Morini non è limitato alla sola fabbrica – ove lavorano maestranze tutte qualificate e specializzate di alto livello – ma comprende anche diverse altre fabbriche di varie ditte, le quali sono legate alla produzione Morini con schemi tali da poterle in pratica abbracciare in un unico complesso organico: sono la Ditta Carlo Ronzani per i telai, la Ditta Carlo Orlandi per le ruote, le Ditte Bonazzi Luigi e Gualandi Gualtiero per le sospensioni telescopiche, la Ditta Avoni Dino per le verniciature, e molte altre ancora per vari altri particolari. […] La particolare struttura produttiva […] è una delle singolarità di tutta la industria bolognese, e la vedremo ancora funzionare con sorprendente efficacia e spirito di collaborazione […].160

In un articolo successivo, lo stesso autore torna sul tema e sottolinea che tale «singolare struttura produttiva […] permette di ottenere un prodotto non fabbricato per intero, od addirittura non fabbricato affatto, nell’azienda che dà il proprio nome al prodotto finito», tratto che si può osservare non soltanto a Bologna, ma anche «nell’artigianato del merletto toscano, o dei cappelli di paglia dell’Appennino tosco-emiliano». La filiera produttiva che ne risulta, continua l’articolo con crescente entusiasmo, finisce così per essere una «forma di collaborazione» che «trova le sue origini in quella struttura artigiana delle industrie bolognesi», ineludibile punto di forza:

Uno degli esempi più completi di questa collaborazione interaziendale è dato dalla fabbrica di motociclette Drusiani, che su propri brevetti produce le motociclette marca «Comet». […] Lo stabilimento di Drusiani coincide praticamente col solo reparto corse e col reparto prove ed esperimenti dell’azienda, giacché tutto il resto della produzione viene fatta eseguire per conto, sotto il controllo di tecnici e soprattutto sotto la guida personale del Sig. Drusiani, in numerose officine meccaniche specializzate. […] Anche la Ditta Cimatti ha la tipica struttura ad aziende collaboratrici, che le permettono di completare le proprie lavorazioni e presentare un prodotto originale pur senza compiere nel proprio stabilimento tutto il ciclo produttivo. La produzione della Cimatti è assai elevata e la potenzialità dei reparti è dell’ordine delle 5.000 unità annue.161

Questa particolarità, tuttavia, non è circoscritta al solo comparto meccanico, visto che modalità identiche vengono osservate anche nel ramo dell’arredamento, dove dal dopoguerra in poi molte aziende «si sono più accentuatamente specializzate, […] diminuendone logicamente la mole e provocando il conseguente sorgere di piccole aziende artigiane», ognuna delle quali continua sulla stessa strada e «si specializza in un determinato pezzo od in pochissimi pezzi, pur non disdegnando la casuale produzione di altri articoli […]»162.

La discussione de «La Mercanzia» su questa fase “originaria” di decentramento

160 G.M. Artieri, Imponente la produzione motoristica, in «La Mercanzia», n. 5, maggio 1955, p. 38, corsivi miei.

161 G.M. Artieri, Un centro di motorizzazione popolare, «La Mercanzia», n. 6, giugno 1955, p. 37-38, corsivi aggiunti.

produttivo insiste, come si vede, in una lettura benevola del fenomeno. Le relazioni fra imprese, quindi le esternalità economiche che si vengono a creare nell’area, sono descritte esclusivamente in termini di «collaborazione» e tutto sembra svolgersi nella piena armonia, non diversamente da quanto sulle pagine del periodico camerale si era detto riguardo le relazioni industriali. Infatti, anche quando si sposta lo sguardo sulle aziende a conduzione familiare, dove la remunerazione dei familiari-collaboratori risente di una «valutazione non salariale delle loro prestazioni d’opera», infatti, la cosa viene enfatizzata come prova della capacità della piccola azienda di recuperare terreno sulla flessibilità del costo del lavoro, puntando tutto «sul reddito netto globale»163. Il

punto di vista appare ancor più schiacciato su quello dell’azienda soprattutto quando si arriva a discutere episodi di indiscutibile conflittualità. È il caso di una vertenza della fine degli anni Quaranta nella ditta di motori MAIN, che viene risolta tramite l’originale frammentazione in unità indipendenti di più piccole dimensioni:

Nel primo periodo post-bellico la MAIN, come molte altre industrie, si trovò in serie difficoltà per l’asprezza delle lotte sindacali, che si manifestavano con scioperi continui o a singhiozzo o per reparto. Per superare queste difficoltà, il titolare della MAIN, raggiunge con le maestranze, un particolare accordo in seguito al quale si formarono 5 Compagnie, ognuna con personalità giuridica, e facente capo a un responsabile[,] alle quali Compagnie la MAIN diede in uso gli impianti, e si impegnò di fornire il lavoro dietro compenso […]. In questo modo venivano ad essere eliminate tutte le questioni fra datori di lavoro e lavoratori, riconducendo i loro rapporti a quelli fra imprese collaboratrici, e ponendo su piede di parità direzione aziendale e maestranze. […] Ogni Compagnia ha un proprio bilancio di utili, che distribuisce con proprio criterio agli associati, mentre a carico diretto della Ditta MAIN rimangono solamente gli impiegati.164

L’attenzione che «La Mercanzia» rivolge alla piccola impresa, come si legge nei passaggi citati, si caratterizza dunque per aver aperto uno spazio alla ricerca empirica, i cui punti di approdo non sono mai banali nonostante il livello giornalistico a cui viene condotta. Per quanto politicamente orientato a contrastare le tesi del Pci in una città come Bologna, e forse proprio per questo, l’istituto camerale si dimostra capace di tracciare un “panorama” della piccola impresa locale da cui emerge una struttura di relazioni interaziendali particolarmente interessante alla luce dell’evoluzione del dibattito successivo. Per quanto queste intuizioni restino a livello di notazioni empiriche mai compiutamente sistematizzate a livello teorico, nel confronto con i suoi antagonisti

163 U. Reverberi Riva, Il settore delle carni insaccate ed in scatola II, «La Mercanzia», n. 2, febbraio 1959, pp. 97.

164 G.M. Artieri, Motori eccezionali, per velocità e potenza, «La Mercanzia», n. 9, settembre 1955, pp. 30-31, corsivo aggiunto.

avrebbero comunque fornito un punto di riferimento imprescindibile per l’avanzamento della discussione.

Intanto, se agli occhi de «La Mercanzia» l’escamotage della MAIN non era sembrato altro che la conferma della vitalità della classe imprenditoriale bolognese, la cosa non passa inosservata ai redattori della Schermografia della cintura industriale, che non mancano di sottolineare con preoccupazione la «dimensione notevole» raggiunta dal fenomeno fra anni Cinquanta e Sessanta. Qui si osserva, infatti, che nel processo di trasferimento di molti impianti dal vecchio nucleo cittadino ai comuni della cintura, si è dato spazio alla

formazione di uno strato di piccola industria che produce parti staccate o semilavorati per aziende più grosse che si liberano così di alcune fasi o tipi di lavorazione che sinora appartenevano loro direttamente. È la stessa proprietà della grossa azienda (come la Giordani, ad esempio) che interviene anche con finanziamenti e prestiti presso suoi ex dipendenti, quasi sempre operai specializzati, per stimolarli a mettersi in proprio ed avviare piccole attività garantendo l’acquisto della produzione. Queste aziende rimangono così vincolate alle sorti della fabbrica-cliente unico, la quale si costruisce un cuscinetto protettivo di cui valersi nei momenti di sfavorevole congiuntura.165

L’inchiesta parla più volte di un vero e proprio sistema di subfornitura che crea una rete di relazione fra le aziende artigiane dell’area166, senza dimenticare di sottolinearne

criticamente l’effetto di indebolimento nei confronti dell’organizzazione sindacale e del tendenziale peggioramento delle relazioni industriali, che si riscontrano a fronte di situazioni fra loro diversificate. Le lavoranti a domicilio del calzaturificio di Castenaso, ad esempio, vivono in condizioni «pesantissime»167, ma la cosa non è meno accentuata

fra le nuove leve operaie delle fabbriche di Casalecchio. Per di più, il legame fra impresa-cliente unico e officina artigiana «non ha un significato solo meramente economico, ma ha anche un riflesso sociale e politico, perché tende a realizzare un blocco di interessi fra uno strato di piccoli produttori e grossi capitalisti»168.

L’analisi che la redazione bolognese de «l’Unità» propone in questo momento della piccola impresa locale appare saldamente ancorata alla concezione classica delle

165 Casalecchio: oltre 500 artigiani alle “dipendenze” del padronato, «l’Unità», Cronaca di Bologna, 2 febbraio 1961, corsivi aggiunti.

166 Fin dal primo articolo, infatti, si sostiene che le nuove aziende trasferite «forniscono lavoro ad artigiani», cfr. A San Lazzaro di Savena ex novo o ivi trasferite 75 aziende si sono allineate come una

siepe ai bordi della via Emilia, «l’Unità», Cronaca di Bologna, 26 gennaio 1961.

167 Castenaso: industria “condizionata”. Il monopolio regola e determina l’esistenza delle fabbriche, «l’Unità», Cronaca di Bologna, 9 febbraio 1961.

168 Casalecchio: oltre 500 artigiani alle “dipendenze” del padronato, «l’Unità», Cronaca di Bologna, 2 febbraio 1961.

alleanze permanenti fra classe operaia e ceti medi, così come era stata fissata nell’elaborazione togliattiana dell’immediato dopoguerra. «Siccome il nostro partito è storicamente sorto come partito operaio» aveva detto il segretario del Pci a Reggio Emilia pronunciando il celeberrimo discorso su Ceto medio e Emilia rossa, «si vorrebbe dedurre […] una pretesa nostra incapacità ad avere rapporti normali di contatto, di adesione e di collaborazione con tutti coloro che operai non sono e non diventeranno mai»169. Il fulcro di tale discorso è di natura eminentemente politica e affonda le proprie

radici nella riflessione compiuta da Gramsci e Togliatti sull’esperienza del fascismo170.

È vero, tuttavia, che la costruzione di un sistema di «alleanze permanenti» e quindi di un «blocco storico» attorno alla classe operaia aveva fornito al Pci in Emilia-Romagna la necessaria legittimazione teorica e politica per poter attuare una politica di esplicito sostegno alla piccola impresa in funzione «antimonopolista»171. Nondimeno, anche a

seguito di queste esperienze, l’idea della piccola impresa su cui riposa l’intero impianto non cambia: una formazione economica residuale e subordinata al «monopolio», motivo che la rende «oggettivamente» alleata della classe operaia172.

Di fronte ai primi accenni di decentramento produttivo osservati assieme alla simultanea espansione dell’industrializzazione nei comuni della cintura bolognese, lo sguardo del Pci bolognese mira a coglierne gli aspetti amministrativi e politici. La lettura della redazione locale de «l’Unità», pertanto, fa riferimento diretto alla lettura classica dell’elaborazione di partito e ribadisce il necessario lavoro politico in direzione