• Non ci sono risultati.

per il governo dello sviluppo

4. Uno scontro senza alternative

La documentazione della Zona industriale di Bologna Spa utilizzata per analizzare lo scontro fra Pci e Camera di commercio permette di arrivare a conclusioni parzialmente diverse dal quadro noto alla storiografia. Leggendo gli atti del Consiglio comunale, infatti, era plausibile interpretare questi fatti come un conflitto tra forze economiche e potere politico di carattere essenzialmente locale e dall’esito quasi scontato: un’amministrazione saldamente in mano ai comunisti che riesce, dati i rapporti di forza, ad arginare le mire privatistiche di una nascente élite industriale, coalizzata attorno all’ente camerale e all’effimera – forse addirittura ingenua – proposta di costruire un’area attrezzata in funzione apertamente anticomunista. Focalizzando l’attenzione sull’anticomunismo di Merlini si potrebbe poi relegare questi avvenimenti all’ultimo colpo di coda della fase più acuta di Guerra fredda, tanto è facile cristallizzare, da un lato, Palazzo della Mercanzia nel maldestro tentativo di difendere la libera iniziativa

con personalità, enti ecc».

377 La documentazione conservata nell’Archivio storico comunale, tuttavia, non ha permesso di corroborare questa ipotesi; risalgono infatti agli anni Settanta tutti i progetti di ampliamento della zona Roveri che mi è stato possibile consultare.

378 Cfr. Incontro del Sig. Presidente con gli assessori Prof. Bellettinii e Arch. Campos Venuti, 12 maggio 1962, in ACCB, b. 1143, f. «Incontri e riunioni».

privata da un improbabile pericolo di collettivizzazione e, dall’altro, Palazzo d’Accursio nell’ergersi – coerentemente con quanto il Pci ripete da oltre un decennio – a strenuo difensore dell’ordine democratico repubblicano. Infine, collocando sullo sfondo lo scontro fra Merlini e Dozza si potrebbe mettere in risalto il conflitto fra periferia e centro, da cui sarebbe dovuto nascere un sistema di concertazione locale capace di comporre interessi contrastanti per proiettarli sull’arena nazionale. Pur cogliendo, con gradazioni diverse, elementi di verità, il rischio delle letture appena esemplificate mi sembra essenzialmente quello di ricalcare troppo da vicino le categorie stesse dell’argomentare del tempo, finendo per conferire validità storiografica a spiegazioni avanzate in tutt’altro contesto e al fine esplicito di portare avanti una battaglia politica. Nel corso dell’esposizione si sono accumulati elementi sufficienti – almeno credo – per vedere criticamente gli assunti alla base di quelle letture. Tuttavia ritengo utile una loro rapida ricapitolazione, in modo tale da permettere alcune considerazioni sul sistema di governo locale comunista all’inizio degli anni Sessanta e di individuare in esso un momento di transizione fondamentale per la storia della città.

Innanzitutto, l’opposizione fra potere politico ed élite industriale sembra una schematizzazione poco incline a cogliere i profondi elementi di trasformazione in atto in quegli anni. Durante tutto il periodo del «boom», infatti, si assiste nel bolognese a un processo di completa ridefinizione del ruolo della città nei confronti del suo hinterland, come visto all’inizio di questo capitolo. A guidare questo mutamento sono l’intensità e l’importanza dell’espansione del settore industriale che, a fronte dei ritardi con cui la questione viene tematizzata dal primo partito di governo a livello locale, impone ben presto un aggiornamento dell’analisi e un conseguente sviluppo degli strumenti amministrativi capaci di intervenire su quella realtà economica. Di qui, la necessità di considerare in maniera sempre più unitaria il territorio del comune capoluogo e quello dei comuni che lo circondano, i quali vengono investiti in quegli anni da un’ondata del tutto imprevista di installazioni manifatturiere e vedono, in breve tempo, completamente mutata la composizione sociale della popolazione residente, nonché la stessa morfologia del loro paesaggio urbano. Il Piano intercomunale è una risposta diretta a questa esigenza e contribuisce a conferire un significato politico ai nuovi spazi della produzione industriale. Sul finire degli anni Cinquanta, nel contesto di crescenti adesioni alla programmazione economica, la possibilità di orientare l’organizzazione urbanistica di quegli spazi si configura immediatamente come governo dello sviluppo

economico dell’area, o almeno questa è l’opinione prevalente che contribuisce a fare degli studi sulle ‘localizzazioni industriali’ e della pianificazione urbanistica momenti essenziali della politica-economica dei due decenni a venire. Intanto, la delocalizzazione in corso, lungi dal dare inizio a quel processo sperato di riequilibrio territoriale, ha l’effetto di orientare ancor più convintamente il baricentro economico dell’area verso la città di Bologna, che vede così consolidato il proprio ruolo di perno dell’economia locale. Parallelamente, anche dal punto di vista politico si accentrano sul capoluogo le fasi cruciali del processo decisionale, che determina le scelte fatte in quegli anni. È qui appena il caso di ribadire che, al di là delle dichiarazioni sulla partecipazione paritaria dei comuni del circondario alla definizione del Pic, l’iter della sua approvazione si conclude in pochissimo tempo e in maniera positiva principalmente per la precedente elaborazione della proposta nelle sedi dei partiti che amministrato tutte le giunte interessate, processo che opera una mediazione preventiva degli eventuali conflitti di campanile379. È a Bologna, inoltre, che le due istituzioni analizzate in questo capitolo si

sfidano apertamente, non tanto e non solo in quanto rappresentanti di gruppi sociali e interessi differenti, ma bensì sulla possibilità stessa di assumere un ruolo centrale nel governo della distribuzione spaziale dell’industria. Il loro, pertanto, è uno scontro squisitamente politico che, non a caso, catalizza fazioni e gruppi in diretta competizione fra loro.

Più convincente risulta quindi l’idea di interpretare questo scontro all’interno del quadro, pur in rapido disfacimento, della «guerra civile fredda»380, ma uno sguardo

troppo concentrato su questo aspetto rischierebbe di metterne in ombra altri, che risultano invece particolarmente interessanti. In assenza di studi approfonditi sul personaggio o della possibilità di accedere alle sue carte, diventa estremamente difficile dire con una qualche certezza se Merlini fosse spinto soltanto da un odio viscerale verso i comunisti o se invece la sua non sia da leggere anche come una singolare reazione preventiva all’imminente apertura a sinistra, benché egli stesso aderisca al nuovo quadro riformista dal punto di vista politico-economico facendo proprie le indicazioni di Vanoni. Non sembra storicamente infondato, infatti, ipotizzare che un intervento di politica industriale guidato da capitali privati col sostegno dell’ente camerale – cioè di un’istanza decentrata del governo centrale e non di un organo elettivo locale – potesse

379 Sul Pic vi è sostanziale unanimità degli amministratori comunisti e socialisti, a Bologna e nella cintura, da cui la scelta – che solo Bologna e Milano possono vantare (cfr. Valutazioni e orientamenti…, p. 247) – di includere nella commissione consultiva le stesse minoranze.

conformarsi in opposizione al processo di decentramento amministrativo che, proprio in quegli anni, sta entrando a far parte dei programmi di governo. Pur senza portare mai la questione al livello di elaborazione politica, l’azione di Merlini sembra essere mossa dalla consapevolezza che un qualsiasi passaggio di competenze e poteri centrali verso gli organi di governo locale a base elettiva avrebbe rafforzato a Bologna, e in tutta l’Emilia-Romagna, le posizioni di potere che lui si propone, al contrario, di limitare. È plausibile, dunque, che Merlini considerasse con lungimiranza le aperture in tal senso di settori importanti della stessa Dc, pur non immaginando la dilazione che avrebbe subito nel diventare realtà legislativa, e avesse tentato una strategia alternativa, a partire dall’esperienza con il porto di Ravenna del ministro del Tesoro Medici.

Più complesso il discorso da fare sul conflitto fra periferia e centro. È chiaro innanzitutto che, per quanto l’arena su cui si gioca questo scontro sulle aree industriali sia decisamente cittadina e locale, il quadro complesso in cui si inserisce dimostra che la periferia non assume un ruolo meramente subalterno, ma che da essa partono iniziative autonome, in linea o in contrasto con le indicazioni nazionali. Non sembra, però, storicamente valido in questo caso lo schema che postula la coesione degli attori locali in difesa del benessere della comunità contro gli attacchi del centro. L’esistenza stessa di uno scontro politico particolarmente aspro fra i due contendenti, pur aprendo la strada a modalità meno frontali di gestione dei conflitti, parla chiaro riguardo alla compattezza fra attori locali. Infatti, anche quanto Merlini decide di accettare la mediazione comunista – quindi la traduzione del consorzio privato in un consorzio a partecipazione concordata fra enti locali – lo fa obtorto collo: si tratta per lui della fine di un’avventura politico-industriale – nonché della chiusura della sua esperienza di Presidente della Camera di commercio381 – e non del raggiungimento di una ricomposizione dei contrasti

locali da proiettare coesi sull’arena nazionale. Semmai questo epilogo amaro è dovuto, all’opposto, ad una troppo debole coesione fra attori e gruppi sociali locali – si pensi all’atteggiamento degli agrari, ma anche a molti industriali che non sembrano interessati alla proposta – che pure avrebbero avuto ragioni di contatto e azione comune. In questo aspetto va sicuramente individuato un limite specifico di quel ristretto gruppo di professionisti e studiosi che si raduna attorno a Merlini: essi si dedicano alacremente a progettare nei dettagli le due aree industriali, senza tuttavia prestare la minima

381 Dopo la breve parentesi di un anno di Pietro Vaccari, assumerà la carica Ernesto Stagni: al ricordo della sua attività, Achille Ardigò (2002: 127) avrebbe riservato parole di particolare apprezzamento, mentre di Merlini si parla quasi solo incidentalmente; segno forse di un avvicendamento particolarmente sollecitato dalla nuova fase politica apertasi con gli anni Sessanta.

attenzione alla necessità di costruire un consenso allargato per l’iniziativa, se non altro per disporre dei capitali necessari ad avviarla, dimostrando così una scarsissima capacità di miscelare competenza tecnica e cultura politica, volendo prendere a prestito e ribaltare le categorie utilizzate da Baldissara per studiare gli amministratori comunisti.

Ma un’analisi tanto approfondita su un caso in fondo limitato non avrebbe avuto senso, se non permettesse di individuare in nuce elementi chiave per rintracciare un momento di discontinuità nella fase che si apre con il riformismo di centro-sinistra. Assumendo quale punto di osservazione una città come Bologna, è naturale cogliere in maniera nitida alcuni versanti di questo mutamento, che avrebbe influenzato a fondo la città e orientato gran parte del dibattito e della vita politica fino agli anni Settanta inoltrati. Tuttavia, si tratta di una cesura per il Pci nel suo complesso, che pertanto va considerata sotto il profilo locale non meno che nazionale.

È noto, infatti, che negli anni in cui Merlini lavora instancabilmente a lanciare la sua sfida al potere dei comunisti bolognesi è imminente la prospettiva di un’entrata del Psi nell’area governativa. Questa svolta politica ha senz’altro il merito di catalizzare un rinnovamento degli indirizzi politico-economici fino ad allora prevalenti e l’appoggio esplicito della Dc a una prospettiva di programmazione economica – come dovrò approfondire nel prossimo capitolo – rappresenta una cesura per il principale di partito di governo e per la storia repubblicana. All’interno del Pci, questo fatto non manca di suscitare un dibattito e una mobilitazione intellettuale di proporzioni tali che, sulla scorta di ciò, si portano a maturazione idee in parte già abbozzate – com’è il caso della conferenza emiliano-romagnola del 1959 – e si recupera quel ritardo di analisi sulla situazione economica italiana che, da sempre, viene rimproverato al partito di Togliatti. A quel punto, tuttavia, l’intervento politico a sostegno dell’economia locale costituisce uno degli assi portanti dell’azione politica delle giunte di sinistra che, dal canto loro, hanno a lungo denunciato gli ostacoli posti dalla burocrazia centrale contro queste autonome iniziative locali, nonché la mancanza di volontà del governo nel far propri quei principi e avviare una politica economica coerente con le esigenze delle aree meno sviluppate e delle classi più povere. Di conseguenza, quando i sostenitori della programmazione economica iniziano ad affermare, sulla base di studi e ricerche specifici, che un governo efficace dello sviluppo economico ha bisogno, innanzitutto, di ricondurre a organica e nazionale unità quella serie di interventi particolari dispersi sul

territorio, non è affatto facile per i comunisti opporsi a una tale politica, anche quando è chiaro che essa serve a tenerli lontani dal governo. Al netto di alcune ovvie differenziazioni, la politica di programmazione economica dei governi di centro-sinistra assume, lì dove il Pci mantiene posizioni di governo, i contorni di una competizione diretta con quanto la sinistra aveva costruito in quindici anni.

Sullo sfondo delle prime avvisaglie di tali grandi mutamenti del quadro politico, la sfida della Zona industriale di Bologna Spa fa emergere esattamente il carico di contraddizioni che si addensano attorno alla questione cruciale della politica economica del Comune di Bologna. Lo scontro fra Merlini e Dozza, pur sfociando in un contrasto pubblico e aperto, non vede così confliggere due concezioni politico-economico davvero alternative, ma concorrenti soprattutto in quanto simili. Analizzate nel merito, infatti, la proposta del Consorzio pubblico-privato e la risposta dell’amministrazione, al netto di alcune ovvie differenziazioni, non contengono differenze significative. Da qui il Pci sarebbe stato costretto, dagli eventi nazionali ricordati, a elaborare una strategia per poter distinguere la propria proposta politico-economica da quella del centro-sinistra, approdando infine alla formula – destinata a lunga vita – di “programmazione economica democratica”. Ma quando esplode il caso della Zona industriale di Bologna Spa, al contrario, l’elaborazione è ancora ferma a una politica delle aree attrezzate, sperimentata con successo a Modena, che ha come obiettivi principali il contrasto alla speculazione e un sostegno attivo a quel tessuto di artigianato e piccola industria con cui il Pci sta intessendo rapporti sempre più intensi dal punto vista politico. È significativo, infatti, che dal Pci non arrivi un’obiezione specifica sull’eventuale contrasto fra la proposta di Merlini e il quadro più ampio di una programmazione economica locale382.

La Giunta, infatti, si limita a ribadirne l’incompatibilità con la pianificazione urbanistica – problema che dovrò riprendere in considerazione più avanti – e la non legittimità di un consorzio a capitale privato di aggirare il momento decisionale del Consiglio comunale per decidere degli spazi della produzione industriale. Le aree industriali attrezzate, intanto, continueranno ad essere uno strumento di governo fondamentale nella strategia

382 L’unica indicazione di un principio di elaborazione in tal senso, a mio avviso, si può rintracciare nella relazione d’apertura di Fanti alla conferenza regionale del 1959. Una conferma del fatto che quella linea non fosse ancora acquisita nel partito, neanche fra i rinnovatori, sta nel fatto che Fanti, facendo propria la critica di Bruzio Manzocchi su «Rinascita» contro la politica delle aree industriali – peraltro su posizioni, poi evidentemente accantonate, avverse alla collaborazione con la Dc – non faccia menzione dell’intervento di Luciano Barca (1959: 396-404) a quel dibattito, in cui si introducono esplicitamente – a me pare per la prima volta – i cardini della proposta comunista per la programmazione economica democratica.

politico-economica del Pci emiliano-romagnolo, nonché un cardine della sua autorappresentazione modellistica, seppur in quadro sempre più esplicitamente connesso a un disegno di programmazione di più ampie dimensioni.