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per il governo dello sviluppo

2. Il Pci fra cultura politica e cultura amministrativa

Prima di procedere oltre, è necessario inquadrare il contesto nel quale questo episodio si colloca, al fine di trarne indicazioni utili a comprendere il tipo di cultura di governo che si è andata formando all’interno del Pci bolognese. In tale contesto, non si può non considerare l’evoluzione che il movimento comunista compie nel corso degli anni Cinquanta, a partire cioè dalla morte di Stalin del 1953 fino all’acme del 1956. Com’è noto, in quell’anno si susseguono il XX congresso del Pcus in febbraio – che segna l’avvio della destalinizzazione –, la diffusione mondiale del rapporto Chruščëv sui crimini staliniani in giugno, quindi la repressione della rivolta operaia in Polonia e poi dei moti popolari in Ungheria fra giugno e novembre. Si tratta, notoriamente, di uno

231 Sulla centralità di questi aspetti nell’elaborazione politica dei primi anni Sessanta cfr. G. Campos Venuti, 1961: 42-46.

232 La cintura tratteggiata giornalisticamente nella Schermografia, infatti, comprendeva già il cuore dei comuni del futuro Pic, nel quale verranno inseriti Anzola-Crespellano a ovest e Minerbio-Budrio a est. L’area comprensoriale del Pic nel 1969-70 risulterà ulteriormente allargata fino a comprendere Castel San Pietro Terme (che “prolunga” lo sviluppo della via Emilia dopo Ozzano dell’Emilia) e Bazzano (sulla seconda direttrice appenninica di sviluppo industriale).

dei momenti più drammatici della storia dei partiti comunisti e, per molti versi, della storia politica del Novecento233. Senza ombra di dubbio, esso ha fortissime ricadute

anche in Emilia-Romagna, com’è chiaro se si guarda alla posizione di assoluto rilievo che la regione ha nel quadro del partito italiano, a partire dalla banale considerazione numerica234. Per questo la storiografia sul Pci non ha mai potuto esimersi dal

confrontarsi con l’esperienza comunista in questa regione, che tende a rappresentare un significato non solo locale. Il 1956 è, infatti, anche l’anno in cui il Pci rende espliciti con l’VIII congresso i presupposti di un’evoluzione, che sarebbe giunta a maturazione nel corso dei successivi due decenni, ma che di fatto è già implicita nelle scelte compiute almeno dal 1944 in poi. Anche per questo, a posteriori, la memorialistica e la storiografia vicina al partito avrebbero collocato questa maturazione sempre più indietro nel tempo, caricando di significato periodizzante proprio il 1956235. Al netto di ciò, è

innegabile che solo in quell’anno diventa palese, anche agli occhi degli avversari, che il Pci, con la formula della «via italiana al socialismo», ha rilanciato il proposito di conciliare la prospettiva di una trasformazione socialista – ed è un socialismo concepito come culmine di una ben precisa sequenza stadiale – con il quadro repubblicano italiano236.

A ridosso di eventi di tale portata, inoltre, bisogna considerare il particolare stato di salute del partito emiliano-romagnolo. In quegli anni, infatti, si sta compiendo un intenso ricambio, che ha l’effetto di portare una nuova leva di funzionari in posizione dirigente. Una delle federazioni più direttamente legata a questa dinamica è proprio

233 Cfr. E.J. Hobsbawm, 1997. Sull’importanza globale del momento cfr. M. Flores, 1996. Per una panoramica sul Pci dinanzi a questi fatti, cfr. G. Gozzini, R. Martinelli, 1998: 505-571; A. Agosti, 2003: 429-464; M. Flores, N. Gallerano, 1992: 105-129. Non è un caso che i fatti del 1956 agitino ancora oggi il dibattito pubblico: v. le lettere recentemente declassificate che documentano il dissenso di E.P. Thompson (I. Cobain, 2016).

234 Per il periodo 1959-70 è concentrato in Emilia-Romagna una percentuale di adesioni al partito che crescono progressivamente dal 24,9 al 27% (cfr. S. Giordani, 2014: tabelle); a questo si somma una netta prevalenza negli organi di governo locale per quasi tutte le province, con posizioni più debole soltanto per le province di Piacenza e Parma (cfr. Banca Dati Elettorale, Assemblea legislativa Emilia-Romagna, Archivio storico elezioni, http://consultaelezioni.regione.emilia-romagna.it /elezioni/storico.jsp). Perciò, la rilevanza nazionale del partito nella regione è un dato acquisito in casa comunista – a partire da P. Togliatti, 1946; 1959 (1974) – e riconosciuto dagli osservatori contemporanei, anche quelli meno simpatetici: cfr. G. Galli, 1963; L. Pedrazzi, 1963; G. Degli Esposti, 1966.

235 Si tratta di un metodo ricorrente nella pratica politica comunista, che corrisponde a precise esigenze di «continuità» che nell’azione politica accompagna qualsiasi proposta di «rinnovamento»; a riguardo cfr. M. Flores, N. Gallerano, 1995: 115; ma anche D. Montaldi, 1975, il cui metodo di analisi è attento a far emergere le distorsioni di questo metodo.

236 Cfr. G. Gozzini, R. Martinelli, 1998: 572-638. Una puntuale ricostruzione del problema del «rinnovamento nella continuità» che analizza le «sfasature» interne al partito è in R. Martinelli, 2004: 363-384.

quella bolognese, in cui sono presto riconoscibili originali spinte verso un «rinnovamento» della linea e dell’organizzazione di partito237. È certamente un ricambio

anche generazionale238 in cui gioca un ruolo importante la costituzione di un gruppo,

piuttosto compatto, che si raduna attorno alla figura-simbolo di Guido Fanti, futuro sindaco di Bologna, il quale sul finire degli anni Cinquanta è ancora alle prime tappe di una fulgida carriera di funzionario e dirigente comunista, amministratore locale, deputato, senatore e, infine, europarlamentare239. Non è un caso che da questo gruppo,

all’indomani del congresso del ’56, sarebbe arrivata la proposta di avviare un dibattito interno al fine di discutere i problemi organizzativi e «porre l’accento su un esame critico, il più ampio, coraggioso e costruttivo, dell’attività svolta»240, come recitano le

tesi preparate proprio da Guido Fanti con Gian Carlo Ferri e Giuseppe D’Alema241. La

discussione prende così la forma di una conferenza regionale – sulla scorta di iniziative analoghe in tutta Italia, a segnare anche un più convinto appoggio comunista alla mobilitazione per l’attuazione delle regioni242 – che si tiene nel giungo 1959 nel salone

del Podestà di Bologna. Si apre così un momento di intenso confronto, non tanto fra vecchi e nuovi funzionari di partito, quanto piuttosto fra settori maggiormente legati alla cultura politica della Guerra fredda e un gruppo piuttosto consistente che, forte anche dell’esperienza maturata sotto i gonfaloni dei comuni amministrati e del lavoro organizzativo, interpreta la «via italiana al socialismo» in modo squisitamente realistico, tentando di adattare l’organizzazione e l’azione locale in maniera del tutto coerente con

237 «Rinnovamento» sarà, per appena quattro mesi all’inizio del 1960, il nome della rivista attorno alla quale si raggruppa il circolo di funzionari bolognesi che si fanno portatori di alcune istanze di cambiamento emerse in quella fase.

238 Il gruppo dei «rinnovatori» – cui ci si riferisce talvolta come «nouvelle vague» del comunismo bolognese o emiliano (G. Degli Esposti, 1966) – non è definibile su parametri esclusivamente generazionali, che pure prevalgono. Fra i bolognesi, il gruppo annovera senz’altro Gian Carlo Ferri (1929), Umbro Lorenzini (1925), Mario Soldati (1924) e Giuseppe Venturoli (1920) a cui si aggiungono Renato Zangheri (Rimini 1925), Giuseppe Campos Venuti (Roma 1926) e Sergio Cavina (Ravenna 1929).

239 Nato a Bologna nel 1925, nel novembre 1943 risponde alla leva della Repubblica di Salò per poi disertare l’anno dopo e prendere servizio con i combattenti partigiani. Si iscrive al Pci nel 1945 e assume incarichi da funzionario, nel 1957 è consigliere comunale per il gruppo “Due torri”, l’anno dopo è vicesegretario della federazione provinciale, nel 1960 diventa prima segretario provinciale, poi entra nel Comitato centrale del Pci. Dal 1966 al 1970 è sindaco di Bologna succedendo a Giuseppe Dozza, primo presidente della Regione Emilia-Romagna nel 1970, più volte deputato e senatore, dal 1979 è membro del Parlamento europeo, di cui diviene vicepresidente negli anni Ottanta. Per un profilo biografico sintetico cfr. P. Furlan, s.d.; più in dettaglio S. Alongi, 2012. 240 Pci ER Tesi, 1959, p. 3.

241 G. Fanti, G.C. Ferri, 2001: 47.

242 Fra il 1959 e il 1961 si hanno conferenze regionali in Abruzzo, Sicilia, Veneto, Toscana, Marche, Lazio, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, cfr. Fger, APCI Bo, Ce, b. 1, f. 5, Per l’iniziativa economica

regionale del partito, novembre 1959. Sulla lenta maturazione di una sensibilità regionalista nel Pci

le premesse da cui è scaturita la linea.

Ciò che mi sembra palese in questo dibattito, fin dalle tesi, è la finalità esplicita di far precipitare a livello locale, cioè di diffondere nel corpo del partito, la linea politica elaborata al congresso del ’56. È, quindi, netta la sensazione che, assieme alla destalinizzazione, a provocare talune «sfasature»243 interne – non riconducibili

semplicisticamente all’attaccamento popolare al mito di Stalin – sia la consapevolezza che sono diffuse nel partito sensibilità ideali assai poco pronte ad abbracciare con coerenza le implicazioni profonde della discussione del ’56, che pertanto rappresentano una potenziale grave minaccia alla buona riuscita dell’azione politica locale. L’esigenza primaria dei «rinnovatori» è dunque quella di «assicurare una costante visione unitaria e organica […] e il necessario coordinamento delle iniziative e degli impegni locali»244

quindi di coinvolgere gli iscritti di tutta la regione attorno a «una vigorosa azione di orientamento politico»245. Ne nasce l’indicazione di un lavoro che procede in direzione

duplice: da un lato, di approfondimento della conoscenza della realtà economica e, dall’altro, di conoscenza di quanto si muove nel paese – sostanzialmente, se non esclusivamente, dal punto di vista politico – per poterne correttamente interpretare le ricadute a livello regionale.

In questo senso, e subordinatamente a quella esigenza politica, bisogna quindi «precisare e interpretare le modificazioni economiche e sociali intervenute nell’ultimo decennio»246, nonché capire meglio le radici della «crisi del movimento cattolico e della

D.C.»247, ma anche i «nuovi orientamenti che emergono in campo socialdemocratico e

repubblicano e [i] problemi che i congressi locali e quello nazionale del P.S.I. hanno posto al movimento operaio»248. È palese, dunque, che le questioni economiche

assumono una curvatura politico-economica e che l’avvertita trasformazione in corso delle strutture produttive del paese, va messa al centro innanzitutto per le ricadute che essa ha sulla cultura politica degli altri attori politici nazionali.

Oltre a indicare l’obiettivo, le tesi forniscono a questo punto un quadro all’interno del quale l’analisi dovrà collocarsi, prendendo le mosse da un discorso sulle origini storiche del movimento operaio emiliano, di cui viene stigmatizzata l’insufficiente

243 Faccio ancora riferimento alla terminologia di R. Martinelli, 2004: 363-384. 244 Pci ER Tesi, 1959, p. 5.

245 Ivi, p. 6. 246 Ivi, p. 5. 247 Ibid. 248 Ivi, p. 6.

elaborazione politica che ha impedito, nel primo Novecento, di andare al di là delle «posizioni “ruralistiche”» che tendevano a negare il contributo del «proletariato industriale nella lotta per il socialismo»249. L’incapacità del riformismo socialista di

«creare una cultura autonoma e di esercitare una influenza decisiva sulle correnti culturali esistenti»250 porta a un’azione politica in cui «il proletariato padano si fa

aggressivo contro l’agrario, ma anche contro la piccola e media proprietà e contro il mezzadro, determinando così una profonda frattura sociale» che spalanca le porte – il riferimento, esplicitato nel testo, è al Togliatti di Ceto medio e Emilia rossa251

all’avanzata del fascismo. Si passa quindi ad analizzare la situazione del dopoguerra e,

in primis, l’«irrigidimento» delle posizioni durante la Guerra fredda a causa delle

«forme più violente» di anticomunismo, di persecuzione contro i partigiani e di criminalizzazione dell’azione sindacale, ma viene sottolineato anche il processo attraverso cui si «incrinano i legami tra le forze operaie e una parte dei ceti intermedi»252. A tutto ciò – continuano le tesi – bisogna porre rimedio richiamandosi alla

spinta unitaria della Resistenza, contro il riaffiorare di «riformismo e massimalismo»253,

ovvero cogliendo le aspirazioni dei ceti popolari che oltrepassano gli steccati rigidi degli schieramenti politici – risultato dell’azione direttiva delle «ideologie propagandate dal capitale monopolistico»254 – indicando chiaramente «nuove e più vaste prospettive [per]

un più grande raggruppamento di forze sociali e politiche che concorra a creare nel Paese una nuova maggioranza democratica», quindi la formazione di «un movimento popolare per il rinnovamento della società emiliana»255.

Una volta ribaditi questi punti – e solo allora – le tesi passano a discutere i tratti salienti delle «profonde trasformazioni»256 che hanno interessato l’economia regionale,

con un accentuato «sviluppo capitalistico dell’agricoltura padana» – che, tuttavia, non ha indirizzato sufficienti investimenti sul «rinnovament[o] qualitativo»257 –, ma anche

con una forte industrializzazione «controlla[ta]», direttamente o indirettamente, dal «capitale monopolistico»258. Ne viene così condizionata la struttura economico-sociale

249 Ivi, p. 8. 250 Ivi, p. 9. 251 P. Togliatti, 1974 (1946): 21-51. 252 Pci ER Tesi, 1959, p. 11. 253 Ibid. 254 Ivi, p. 12. 255 Ivi, p. 14. 256 Ivi, p. 15 257 Ivi, p. 16. 258 Ivi, p. 15.

della regione, con l’espansione massiccia dell’artigianato e della piccola e media industria, che poggia tuttavia «su gracili basi economiche e finanziarie e quindi [ha] carattere instabile»259. Il quadro ricorda, sulle prime, il giudizio classicamente

catastrofista dell’analisi terzinternazionalista del capitalismo e insiste sul carattere negativo della congiuntura della fine degli anni Cinquanta260. Ma tanto pessimismo, più

che un tributo pagato alla tradizione, si comprende lucidamente su un piano immediatamente politico. Pur ribadendo la necessità di perseguire un fine «di classe» nell’azione da svolgere, le tesi pongono questo fine in diretta relazione con «tutto il movimento […] per una politica di rinascita che ha come obiettivo essenziale le riforme di struttura [e] l’Ente Regione nel quadro di un mutamento dell’indirizzo politico nazionale»261. La strategia delle alleanze è quindi rilanciata con forza e fa gioco

un’analisi della situazione che metta in risalto l’assoluta subordinazione dei piccoli e medi produttori – compresi gli agricoltori, che abbisognano di interventi di ammodernamento – alle logiche dei grandi gruppi industriali. Un discorso così impostato, infatti, proietta immediatamente i ceti medi nel quadro di un’alleanza organica con la classe operaia, in ragione di una reale condivisione di interessi262.

Le «alleanze permanenti» fra diversi gruppi sociali, superando «convergenze ed intese economiche e sociali»263, rappresentano dunque la cifra epocale dell’elaborazione

comunista, capace di andare oltre i limiti su cui era stato sconfitto il movimento socialista primonovecentesco. È, quindi, attorno a questa proposta che ruota il significato della conferenza regionale del 1959 ed è in questo senso che bisogna indirizzare la «vigorosa azione di orientamento politico» dichiarata fin dal principio264.

Gli estensori delle tesi non nascondono le difficoltà a cui va incontro un percorso così impostato per un partito che affonda le proprie radici nell’essere avanguardia rivoluzionaria della classe operaia, ma sono saldamente convinti che si tratti dell’unica garanzia per una reale «avanzata»265 del partito stesso. Da qui, stilano un elenco di

259 Ivi, p. 19.

260 «Questa Regione presenta ancora una composizione percentuale del reddito agricolo superiore alla media nazionale […] con una agricoltura nella quale sono da compiere grandi opere di bonifica e di trasformazione. […] Scarso è lo sviluppo dell’industria, inferiore a quello di tutte le regioni dell’Italia Settentrionale, anche del Veneto, e a quello di alcune regioni dell’Italia Centrale. L’industria emiliana è prevalentemente piccola e media, in parte a carattere stagionale, soprattutto legata all'agricoltura e al mercato locale, in parte a carattere congiunturale, in larga misura dipendente da gruppi monopolistici esterni alla regione», ivi, p. 20.

261 Ivi, p. 21.

262 Per un quadro sintetico sulla “strategia delle alleanze”, cfr. S. Hellman, 1976: 251-292. 263 Ivi, p. 22.

264 Ivi, p. 6. 265 Ivi, p. 24.

incredibile lucidità per individuare gli ostacoli che, in quel momento, minacciano la riuscita di questa strategia: il persistere – nel partito e nelle organizzazioni – di una concezione strumentale delle alleanze; l’arroccamento su posizioni corporative; la separazione artificiosa fra problemi dell’organizzazione di partito e azione politica. Il tutto a favore di «chiusure conservatrici e settarie», ostacolo massimo a «una più adeguata formazione ideologica e culturale dei numerosi quadri»266. L’attacco verso quei

funzionari, quadri e dirigenti, più ancorati a posizioni classiche del patrimonio ideologico comunista, non poteva essere più frontale. Ma l’uso di un armamentario analitico condiviso nel partito è impeccabile e colpisce nel segno denunciando apertamente, come se la cosa non fosse già abbastanza chiara, il «permanere in importanti settori di attività, di posizioni riformistiche e massimalistiche» dovute alla «prospettiva incerta sul modo come accedere al potere – prospettiva dominata per molti anni dall’attesa di eventi risolutivi»267.

Benché molto importante e indice di movimenti profondi all’interno del mondo comunista, l’eccessiva attribuzione di significato periodizzante a questo avvenimento rischia di porre in ombra i contenuti propri di quella discussione, che hanno un loro valore storicamente definito dall’ambito di intervento nel quale si collocano. Ciò è tanto più opportuno quanto si tiene in considerazione il fatto che, praticamente da subito, la conferenza regionale è stata oggetto di analisi e commenti numerosi, attirando le attenzioni di un pubblico più ampio della platea direttamente interessata268. La

conferenza, senza dubbio, ha il merito di aver catalizzato aspirazioni profonde e mutamenti di sensibilità presenti nel dibattito interno al Pci, ma ciò non significa necessariamente che si debba convenire, in sede storiografica, con l’opinione – allora condivisa da osservatori interni ed esterni – secondo cui il giugno 1959 segna l’inizio di una trasformazione del Pci, in seguito bruscamente interrotta dalle resistenze conservatrici espresse nei due successivi congressi nazionali269. Su questi presupposti,

266 Ibid. 267 Ivi, p. 23.

268 Se si eccettuano gli scritti “politici” (G. Fanti, 1963; G. Fanti, R. Zangheri, 1972; ma anche i documenti ripubblicati in P.P. D’Attorre, 1981), fin dai primi anni Ottanta (V. Evangelisti, S. Sechi (a cura di), 1982; F. Piro, 1983; F. Anderlini, 1990) è unanime il valore di cesura attribuito alla conferenza, ribadito anche recentemente (cfr. C. De Maria (a cura di), 2012 e 2014). Per un commento politicamente coinvolto, ed estremamente polemico, cfr. G. Degli Esposti, 1966; per un ricordo più simpatetico, invece, cfr. F. Piro, 2013; per due memorie incredibilmente simili cfr. G. Fanti, G.C. Ferri, 2001 e A. Ardigò, 2002.

269 Il punto nodale di questo rinnovamento fallito è proprio la proposta, disattesa dal X congresso del partito (1962), di «una “rifondazione democratica” del Pci basata sul regionalismo di una direzione politica e organizzativa decentrata e autonoma: un regionalismo spinto ai limiti, si direbbe oggi, di un partito federativo», G.C. Ferri, G. Fanti, 2001: 113, corsivo nel testo. La lettura vittimistica che ne

infatti, si fonda un’interpretazione che, dalle energie liberate nel 1956-59, fa partire una storia nuova il cui risultato più avanzato si concretizzerebbe nelle “regioni rosse” e di cui si è fatto, e per molti versi si continua a fare, un uso direttamente politico. Non è un aspetto limitato alla ricostruzione memorialistica – interessante da rilevare, ma in fin dei conti fisiologico – ma è piuttosto un elemento che ha avuto una consistente influenza in sede storiografica, e più in generale accademica, fino a fare del «modello emiliano» un paradigma analitico, o addirittura una categoria storiografica270.

Va rilevato che quel paradigma è stato spesso adoperato per spiegare, in maniera fin troppo coerente e lineare, un insieme complesso e contraddittorio di fenomeni, caratterizzandosi anche come paradigma che non ha saputo – e forse non ha voluto – emanciparsi fino in fondo da quella rilettura memorialistica e interessata, scontando pertanto un preciso limite euristico, legando indissolubilmente le proposte di «rinnovamento» avanzate dal gruppo fantiano, ciò che ne deriva sul piano politico- istituzionale e l’intera vicenda storica dell’Emilia-Romagna o, come si è scritto, di quel suo «segmento centrale»271 che va da Reggio Emilia a Bologna. Un paradigma, dunque,

che si forma attraverso quello che Paola Bonora ha felicemente definito un «dispositivo semiotico» capace «di consolidare la propria personalità»272 attraverso la produzione di

narrazioni e rappresentazioni

in grado di giustificare il passato e prefigurare e plasmare il futuro. Immagini costruite nel tempo, stratificate e modellate dalle generazioni e custodi di senso. Innanzitutto del senso di appartenenza e del sentimento di protagonismo all’interno delle fluttuazioni e della relatività di ruoli che le logiche transcalari che dominano il mondo aggiustano e dimensionano in maniera incessante.273

Nell’economia di questa trattazione, è utile a questo punto tentarne un approccio critico, individuando i pilastri su cui viene costruita la narrazione. Fra gli elementi che hanno goduto di una maggiore fortuna storiografica e si applicano meglio al contesto bolognese, ne vorrei discutere almeno tre: l’acquisita piena consapevolezza di una specificità economico-produttiva del territorio regionale e una più convinta opera di sostegno verso le piccole aziende; la cosiddetta concordia discors come cifra del nuovo

forniscono i due autori a posteriori (ivi: 101-126) sarebbe dovuta alla riaffermazione del «centrismo togliattiano», probabilmente la chiave di questa fase della storia del Pci (D. Montaldi, 1975).

270 Va messa a parte, fra tutte, l’interpretazione propugnata da C. De Maria (a cura di), 2012 e 2014 ma anche C. De Maria, M. Carrattieri (a cura di), 2013, i quali, pur collocando la fase aurea nel periodo post-1959, estendono il «modello emiliano» sulla lunga durata.

271 C. De Maria, 2014: 9. 272 P. Bonora, 2003 (2005): 52. 273 Ivi: 19.

clima di ascolto e dialogo verso i vertici democristiani, ecclesiastici e le altre forze politiche laiche; il rafforzamento del “buongoverno”, con l’allargamento delle maglie dell’intervento amministrativo nell’ambito della redistribuzione sociale e l’acquisizione di una cultura di governo pragmatica e antidogmatica. In ognuno di questi elementi, infatti, non sembra assurdo rintracciare sia esplicite forzature, sia interpretazioni a posteriori proiettate all’indietro, sia infine aspetti che trascendono il locale e che permettono di mettere in discussione uno schema troppo semplice di subordinazione e opposizione fra periferia e centro.

Sulle questioni dello sviluppo industriale è interessante analizzare da vicino il tentativo compiuto da Gian Carlo Ferri e Guido Fanti nel libro di memorie che danno