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per il governo dello sviluppo

4. L’opposizione costruttiva: un rinnovamento per la continuità

L’intenso dibattito ricostruito sopra culmina, come anticipato, nella preparazione da parte della Giunta comunale di Bologna di un piano poliennale di sviluppo, pensato come atto di programmazione economica per la città e per il suo comprensorio. Lo stesso Ferri non manca di sottolinearne l’importanza – sia nelle citate Considerazioni ad uso interno, sia nell’intervento al convegno gramsciano – affermando che, proprio con lo strumento dei piani poliennali, il Pci è arrivato a realizzare

la presenza autonoma dei sindacati, della cooperazione, delle organizzazioni degli artigiani, delle organizzazioni dei commercianti, dei centri culturali democratici, attraverso il quale si articola il moderno convivere civile. Se noi facciamo questo, significa molte cose nuove anche nella vita normale del comune; vuole dire che noi non possiamo più fare i bilanci e poi informare la cittadinanza, per esempio, ma vuol dire fare i bilanci con la cittadinanza, il [che] è tutta un’altra cosa.615

Il lavoro congiunto di comunisti e socialisti all’interno della Giunta bolognese per presentare il piano nell’aprile 1963 è tanto più significativo se si considera che, di lì a qualche settimana, si sarebbero tenute le elezioni politiche e che da esse ci si aspettava la formazione del primo governo di centro-sinistra616. Nel crescendo di attenzione

attorno ai problemi della crescita economica e alle prospettive di programmazione, il piano bolognese rappresenta dunque non soltanto un primo approdo concreto, raggiunto per altro in tempi molto stretti, della mobilitazione ideale che ha investito tutte le culture politiche repubblicane e messo il Pci locale di fronte a un’occasione irripetibile. Così il

in Fger, APCI Bo, Ce, b. 2, f. 13. 614 Ibid.

615 G.C. Ferri, Considerazioni sullo sviluppo, cit., p. 3, corsivi nel testo.

616 In realtà, la formazione del “balneare” governo Leone (giungo-dicembre 1963) ritarda ancora di qualche mese il centro-sinistra organico.

piano assume da subito le forme di una precisa risposta politica al timore che il centro- sinistra falci l’erba sotto i piedi alla politica comunista.

L’ambizione di un piano globale, che non deve passare inosservato, è evidente già dalla mole documentaria presentata in Consiglio, successivamente raccolta in un volume edito per i tipi di Zanichelli617, che si divide in quattro parti ed è corredata da

oltre duecento fra tavole e figure. Il rapporto di filiazione diretta con il dibattito e gli indirizzi concepiti nella discussione interna al Pci degli anni precedenti è palese e si rispecchia nella struttura di cui si compone il documento, proponendo da un lato l’analisi economico-sociale del bolognese nell’ultimo decennio e, dall’altro, le singole proposte di cui si compone il complesso del piano. «Valutazioni e orientamenti», come recita appunto il titolo della versione a stampa, al quale raramente il dibattito politico si sarebbe riferito col termine tecnico di piano poliennale. Le «valutazioni», di fatto la prima e la seconda parte, diventano dunque l’occasione per portare a sintesi una serie di tentativi d’analisi svolti, fino a quel momento, nei più diversi contesti. Si fornisce così una lettura d’inseme dell’evoluzione recente dell’economia emiliano-romagnola e bolognese, con particolare attenzione alla dinamica dei redditi, all’industrializzazione e all’espandersi del terziario, ai mutamenti delle strutture agrarie e, infine, agli andamenti demografici. Di qui, si passa quindi ad analizzare le condizioni economiche del comprensorio bolognese, organizzando l’esposizione per settori: agricoltura e industria da un lato, commercio dall’altro. Gli «orientamenti» completano il quadro e occupano naturalmente la parte più cospicua del documento, illustrando nel dettaglio i punti programmatici del piano. È questa anche l’occasione per ricondurre a unità una serie di provvedimenti già in corso d’opera, come ad esempio l’istituzione del Pic. Infine, un capitolo di chiusura è dedicato al bilancio comunale, spiegandone la novità a seguito dell’adozione – sconvolgente per una città che aveva vantato fin lì il suo impeccabile pareggio di bilancio – di una politica di deficit spending.

Il provvedimento chiave della programmazione economica locale rappresenta così il primo passo di realizzazione della politica del Pci, che proietta Bologna su posizioni decisamente avanzate e dimostra la vitalità di questa amministrazione. Esso dimostra, al contempo, la stessa possibilità che la programmazione si concretizzi attraverso percorsi maggiormente democratici, a contatto con la cittadinanza e la pluralità delle sue rappresentanze politico-sindacali. Il testo che viene dato alle stampe non fa mistero

della volontà polemica di inserirsi all’interno di una battaglia che si gioca sul piano nazionale, riaffermando – con puntuali riferimenti critici alla Dc – la creatività di cui è capace l’alleanza delle sinistre di fronte alle sfide del presente. Nessuno degli aspetti trattati nel piano poliennale, infatti, viene concepito come fatto strettamente locale, ma vi è il tentativo continuo di un raccordo con quanto avviene nel contesto nazionale e, come tale, alle scelte del governo618. In generale, la proposta politico-economica del

centro-sinistra viene giudicata insufficiente poiché, nel suo dispiegarsi, si è privata della collaborazione di chi si fa portatore di una visione avanzata del suo programma, cioè alcuni settori del Psi, e continua ad escludere una forza come il Pci, la cui attività sul piano locale è evidentemente la realizzazione più coerente delle premesse fate proprie dallo stesso governo. Ma è anche una proposta destinata al fallimento perché crea le condizioni affinché la programmazione economica si risolva in «forme di intervento pubblico che, qualunque siano le motivazioni e le intenzioni da cui muovono, o rimangono circoscritte a determinati settori o tendono obiettivamente a risolversi in un’azione subalterna rispetto [ai] monopoli»619.

È ridondante, a questo punto, procedere ad un’analisi sistematica dei contenuti di quel piano, che mi porterebbero lontano dal focus di questo capitolo. Di primo acchito, infatti, lo stesso impianto teorico e tutta la prima parte del documento sembrano riproporre nient’altro che una sofisticata summa di quanto si è potuto leggere altrove, almeno dal 1959 in poi. Lo sforzo di sintesi, tuttavia, rappresenta forse il risultato migliore dell’operazione del 1963, tanto da segnare un passaggio rilevante nell’elaborazione della proposta politica comunista, riconducendo a organica sistematicità provvedimenti che, fino a poco tempo prima, rimanevano frutto del pragmatismo amministrativo, per quanto ben funzionante. Non manca, comunque, la ripetizione di considerazioni tradizionali, e ormai diffuse anche al di fuori del partito, che di fatto ricevono qui il suggello dell’ufficialità. Il piano ribadisce, a più riprese, il senso della «democrazia» quando si ragiona di programmazione; rinnova l’intento di

618 Nella Prefazione dell’ottobre 1964 – quindi dopo la crisi del primo governo Moro – si dichiara senza mezzi termini che le «questioni essenziali da affrontare per assicurare all’economia italiana stabilità di sviluppo e di prospettive non hanno trovato, nella vicenda politica del periodo successivo [alla presentazione del piano, ndr], alcuna sostanziale risoluzione» (ivi, p. XXI); oppure che: «Gli orientamenti di politica economica adottati su scala nazionale non hanno mancato di riflettersi sull’attività dell’amministrazione […]. Il primo e più rapido effetto, conseguito alla politica di riduzione della spesa pubblica e di contrazione del credito, è stato quello di rallentare o di interrompere […] l’attuazione dei programmi di investimenti degli enti locali» (ivi, p. XXIII). 619 Ivi, p. 99.

voler trasformare Bologna in «una grande città moderna»620, certamente non in

direzione dello sviluppo metropolitano già deplorato da Ferri, ma nel pieno riconoscimento dell’evoluzione della «città-regione», soprattutto nelle sue implicazioni urbanistiche; esprime il compiuto riconoscimento della straordinaria intensità dello sviluppo economico-industriale bolognese, anche e soprattutto nel confronto con le principali città italiane.

Timidamente innovative, di contro, sono alcune considerazioni riguardo l’artigianato e più in generale sulla piccola impresa, che prendono le mosse proprio dall’analisi dei dati ormai disponibili. La diffusione massiccia della produzione su scala ridotta – che viene ricondotta a spinte prevalentemente locali – è ora vista non tanto per le sue caratteristiche di intrinseca debolezza, come si era ripetuto a ogni occasione, ma per lo stretto collegamento che ha con una certa distribuzione del reddito. Queste imprese, tuttavia, non sono oasi autonome, ma vanno incontro a «ostacoli e […] difficoltà di ordine economico, tecnico, finanziario, sociale»621, la cui gravità «non è smentita dalla

circostanza che, in una certa fase dello sviluppo monopolistico, anche per le piccole e medie imprese si creino condizioni di fatto che rendano più agevole o meno pesante la

soluzione di questi problemi»622. Come è palese, si tratta di un primo riconoscimento del

fatto che queste aziende stanno trovando un loro spazio e interessanti possibilità di crescita; tutti fatti che vanno interpretati politicamente: se quelle difficoltà, infatti, «[derivano] dalle carenze della politica economica finora condotta nei confronti di questo importante settore produttivo»623, la loro soluzione non può essere trovata «nella

ricerca di illusorie e marginali protezioni di carattere corporativo, ma […] solamente colpendo alla radice le cause reali che vincolano e insidiano permanentemente la loro vita e la loro attività»624. Di tutto ciò, come è quasi pleonastico chiosare, è garante

proprio il piano poliennale che, in quanto strumento di programmazione globale, interviene nella modifica delle strutture.

A partire da questa base, il documento raggiunge il suo acme, proprio indicando nella sistematicità della sintesi una concezione e un metodo di lavoro che distingue la proposta del Pci dagli indirizzi governativi, che assume ora i contorni di una risposta alternativa alla politica del centro-sinistra. E non è quindi un caso che, proprio per

620 Ivi, p. 10, corsivo nel testo. 621 Ivi, p. 106.

622 Ivi, p. 107, corsivo mio. 623 Ivi, p. 106.

esplicitare queste implicazioni, l’amministrazione scelga di citare direttamente un recente «tentativo di intervento organizzato nei confronti degli insediamenti industriali» che «è stato qualche tempo fa compiuto ad opera di alcuni gruppi capitalistici privati»625, cioè quel progetto del Presidente della Camera di commercio di cui ho

ricostruito le vicende nel terzo capitolo. Interessanti non tanto le basi su cui la Giunta ribadisce la propria contrarietà al progetto626, quanto piuttosto l’aver inserito anche la

politica delle aree industriali all’interno del piano poliennale, come parte di un insieme organico di interventi e strumento particolare di una politica di programmazione globale democraticamente connotata. È su questa base, dunque, che la «creazione di zone industriali comprensoriali nell’ambito del territorio intercomunale»627 diventa – in corso

d’opera – un elemento distintivo nel programma delle sinistre. Compiuto questo passaggio, infatti, non rappresenta più un problema il fatto che tali interventi di politica economica siano del tutto in linea con alcuni programmi di parte avversa; piuttosto, proprio quella convergenza sulle premesse, può ora essere usata contro il centro-sinistra dapprima per richiamarlo alla coerenza, poi per inchiodarlo al proprio fallimento.

Eppure, nonostante l’enfasi posta sullo sviluppo dell’industria, colpisce l’assenza, nella seconda parte del piano, di un capitolo specificamente dedicato agli interventi da attuarsi per governare l’industrializzazione. Date le premesse fin qui analizzate, non deve stupire che, di fatto, il capitolo programmatico che più si occupa di tali questioni sia proprio quello sulla pianificazione urbanistica, cosa che può essere letta almeno in due modi. Da un lato, infatti, l’impostazione corrisponde – e non è priva di coerenza – all’adesione del Pci e dell’amministrazione bolognese alla battaglia regionalista, in cui è implicito un passaggio di consegne all’ente regione delle competenze in materia di sviluppo industriale. Dall’altro lato, invece, anche alla luce di quanto visto durante l’opposizione del 1959 contro i “comitati Colombo”, sembra più convincente ravvedere in ciò un dato che ho già avuto modo di notare. La stessa inchiesta de «l’Unità» sulla «cintura industriale» bolognese metteva a nudo la rosa di temi su cui maggiormente si concentravano le attenzioni dei comunisti: trasformazioni sociali nei loro nessi con la

625 Ivi, p. 108.

626 «Dicemmo allora, e ripetiamo oggi, che il principio su cui l’iniziativa deve essere fondata, e in base al quale sarà realizzata, consiste nella natura eminentemente pubblica di essa. L’iniziativa trova pertanto la sua naturale configurazione giuridica nella forma del consorzio fra enti pubblici, la cui attività, se non esclude la partecipazione di operatori privati, deve fondarsi sulla presenza e sulla direzione maggioritaria dei comuni del comprensorio, dell’amministrazione provinciale, della camera di commercio», ivi, p. 108.

strategia delle alleanze; trasformazioni territoriali in relazioni all’intervento amministrativo. Infine, credo si debba aggiungere anche che questo aspetto è indice di una crescente fiducia628, dimostrata dalla classe politica locale, in un indefinito protrarsi

del «boom», da cui deriva una concezione dell’ente locale come istituzione che interviene ad aggiustare ed equilibrare piuttosto che a stimolare e promuovere, caratteristica eminente del decennio successivo.

Da qui fino alla metà degli anni Sessanta, infatti, non sembrano scorgersi passi in avanti significativi nell’analisi comunista del processo di sviluppo, così come sembrano attenuarsi – in parallelo alle frenate della spinta riformista nazionale – i timori con cui ho voluto analizzare questa vicenda. Ciò che invece sembra destinato a continuare ad essere in movimento, e che ha una forte ricaduta nei soggetti locali collaterali al partito, è piuttosto la traduzione in termini politico-organizzativi dei recenti guadagni euristici acquisiti dal punto di vista economico e politico. Il ruolo chiave che ha assunto Ferri a questo riguardo, lascia dunque simbolicamente il passo a Guido Fanti, la cui riflessione esprime a pieno i termini di quella traduzione. È un processo che, opportunamente, De Felice riconduceva alla «tensione intellettuale e politica»629 che emerge in tutta la sua

complessità già in Tendenze del capitalismo italiano, sulla cui valutazione, però, il caso bolognese sembra ancora una volta far saltare gli schemi. In sede di convegno nazionale, infatti, chi si mostra più attento a registrare le novità dello sviluppo del capitalismo contemporaneo è anche chi, nella pratica, è più critico nei confronti dell’esperimento di centro-sinistra (Trentin, Banfi, ecc.). Di contro, chi propone una valutazione più «continuista»630 dell’intera vicenda economica postbellica è più aperto a

cogliere le possibilità positive del nuovo corso, nell’intento di scavare un ambito di presenza per lo stesso Partito comunista.

Per Bologna, invece, come ho avuto modo di documentare attraverso gli interventi di

628 E in ciò mi paiono errate le considerazioni da cui prende le mosse l’analisi di R. Parisini (2012) secondo cui il piano poliennale sarebbe il risultato di considerazioni che muovono dalla “complessità e turbolenza” della situazione: la «congiuntura» che segna la fine del «boom», infatti, non sarebbe stata avvertita prima di qualche mese almeno, con le ricadute della stretta creditizia decisa da Carli in autunno (cfr. G. Nardozzi, 2003: 151; E. Felice, 2015: 245). Se è vero, infatti che i primi segnali della stretta sembrano essere riconosciuti dagli operatori economici già all’altezza della primavera, mi sembra che l’analisi economica del Pci bolognese ne tragga delle indicazioni almeno un anno dopo la presentazione del piano, cfr. Note per la riunione del gruppo di lavoro economico del C.R., dedicata

alle questioni della programmazione di sviluppo economico democratico, Bologna, 21 gennaio 1964

e G.C. Ferri, Relazione all’Incontro regionale sul tema: Congiuntura economica e selezione del

credito, Bologna, Circolo di cultura, 10 marzo 1964, rispettivamente in Fger, APCI Bo, Ce, b. 2, f. 13

e f. 11.

629 Cfr. F. De Felice, 1995: 810-812 (cit. a p. 812). 630 Ibid.

Gian Carlo Ferri, la consapevolezza di una cesura economica prodottasi nella seconda metà degli anni Cinquanta emerge chiaramente fra il X congresso del Pci e la presentazione del piano poliennale, ma si colloca politicamente su posizioni positivamente aperte verso il centro-sinistra. Sono posizioni che tentanto in primo luogo di salvaguardare la continuità, innanzitutto in termini di collaborazione amministrativa fra Pci e Psi a livello comunale, comprensoriale e, in prospettiva, regionale; ma anche in termini di possibilità di portare avanti il programma riformista culminato nel piano del 1963. In questo senso, è eloquente l’azione politica di Fanti il quale – proprio a partire delle novità in ambito economico e dal significato, reale e simbolico, della conferenza regionale del 1959 – inizia a porre con insistenza la questione di un adeguamento delle strutture organizzative del partito a tutti i livelli, specialmente regionale631. Già nel 1962,

infatti, Fanti sottolinea di fronte al Comitato regionale la necessità di decentrare le strutture di partito per «collocarsi alla direzione di un sistema di vaste alleanze sociali, di una pluralità di Partiti e di correnti di opinioni popolari rinnovatrici»632 e rafforzare

così il «legame del Partito con la realtà»633. Se da un lato l’istanza regionale, nella sua

analisi, deve diventare il punto di raccordo principale fra centro e periferia, essa deve al contempo stimolare la creazione e rivitalizzazione di una molteplicità di istanze decentrate – comitati cittadini, di zona, comunali – che siano davvero delle antenne tramite cui il partito tiene gli occhi aperti sulle trasformazioni in corso e chiama la cittadinanza a «contribuire a elaborare e articolare la politica locale»634. Sono posizioni

che un gruppo di dirigenti emiliano-romagnoli avrebbero successivamente provato a tradurre in proposte concrete per la riorganizzazione del Pci al X congresso, ma che vengono bocciate dalla Direzione in fase preparatoria635.

Una conferma ulteriore del legame che c’è fra analisi economica e proposta fantiana

631 «[N]ell’azione di rinnovamento politico e ideale» – afferma durante davanti al Comitato regionale del Pci in preparazione al X congresso – «condotto in Emilia per dare nuovo vigore e giusto orientamento alla decisiva forza rivoluzionaria organizzata dal nostro Partito sul modo con il quale realizzare la conquista del potere, non si è dato, da parte dei gruppi dirigenti, il necessario peso alla esigenza leninista di far pienamente e totalmente corrispondere la struttura organizzativa al contenuto nuovo che veniva assumendo la politica condotta in Emilia dal nostro Partito», G. Fanti, Note su alcuni

problemi organizzativi del partito in Emilia-Romagna, (ms. a penna: approvato dal C.R. PCI E.R.,

Per il X Congresso, aprile 1962), p. 4, in Fger, Fanti, Discorsi, interventi e relazioni (Dir), b. 18, f. 63/1.

632 Ivi, p. 5. 633 Ivi, p. 6.

634 Ivi, p. 10; la cosa deve servire anche a recuperare la situazione di «scadimento» della figura del «funzionario rivoluzionario professionale a semplice impiegato», ivi, p. 8.

635 Un resoconto di questo episodio, pur ricco di criticità e qualche imprecisione, è in G. Fanti, G.C. Ferri, 2001: 101-126.

arriva all’indomani delle elezioni politiche del 28 aprile 1963, le prime in cui il Pci fa propaganda in televisione. Nel trarre le conclusioni del dibattito, in qualità di segretario federale, davanti alla riunione congiunta di Comitato federale e Commissione federale di controllo, è chiaro il suo giudizio. A quei «compagni» che lo rimproverano per aver proposto temi astratti, «buttati quasi a sorpresa»636, che ritardano l’azione politica post-

elettorale – cioè la programmazione, i piani poliennali, i problemi dello sviluppo – Fanti ribadisce che si tratta di temi tutt’altro che “nuovi” e si stupisce che, in quella sede, vengano considerati tali, invitando così il gruppo dirigente a compiere uno sforzo per elevare il livello della discussione: se resta tale, precisa Fanti, «non si dirige niente […], ma si è invece alla coda degli avvenimenti»637. D’altronde, anche le critiche suscitate

dalla riproposizione del tema del «rinnovamento» sono per il segretario mal poste, poiché non si tratta di una questione ideale e astratta, ma di un nodo cruciale che richiede lo sforzo continuo del partito. Questo sforzo, infatti, non può esaurirsi nella mera «autocritica», né serve semplicemente a «scrivere qualche cosa per gli organi centrali del Partito, ma condiziona la nostra possibilità di azione politica anche sul piano locale»638. Ma se a un primo sguardo, una discussione così impostata può sembrare la

ripetizione stanca di un discorso vecchio di almeno quattro anni – che, tutt’al più, continua a ridimensionare il valore di cesura del 1959, anche a livello locale – meritano attenzione le considerazioni cui giunge Fanti con il suo discorso, nonostante la bocciatura che le sue tesi avevano subito al congresso di qualche mese prima.

Partendo dalla strategia per una trasformazione in senso socialista dello Stato italiano, infatti, egli riafferma che esse dovranno avere una loro peculiarità in relazione a «quegli istituti democratici» propri della «storia politica dei paesi capitalistici avanzati»639. Eppure la Costituzione del 1948, portando «le organizzazioni del corpo

sociale nella vita e nella direzione della vita nazionale»640, non solo pone lo Stato