• Non ci sono risultati.

In questo paragrafo andremo ad analizzare gli effetti del relationship lending sulle condizioni di tasso che le banche sottopongono alle imprese. Al contrario delle mera intuizione, che farebbe propendere per una diminuzione dei tassi d’interesse applicati alle imprese a seguito della relazione con la banca, numerosi studi empirici hanno dato riposte ambigue in questo senso; in alcuni casi ciò che ci si aspetta dalla teoria è verificato, viceversa in altri casi. Questa divergenza di risultati è particolarmente visibile quando si analizza il mercato statunitense e quello europeo. La differenza di risultati è, come vedremo, da ricercarsi del problema dell’hold up, al quale sono stati dedicati i paragrafi precedenti.

2.2.1 L’esperienza statunitense

Per quanto riguarda gli studi sul mercato statunitense, rilevano in particolare Petersen e Rajan (1993) e Berger e Udell (1994). Nel primo caso, tramite un campione di piccole e medie imprese americane, si analizza la variazione del tasso in base alla durata della relazione bancaria constatando che all’aumentare della relazione vi è una tendenza ad una diminuzione dei tassi applicati. Gli autori constatano anche che il tasso di interesse non è influenzato dal fatto che un’impresa utilizzi, oltre al prestito, altri servizi offerti dalla banca stessa.

Rajan e Petersen evidenziano poi che la variazione dei tassi è sì in diminuzione all’aumentare della durata della relazione, ma tale variazione non è significativa dal punto di vista statistico ed economico. Le motivazioni sono principalmente due:

• nonostante la relazione bancaria sia fondamentale, le piccole medie imprese (che in genere vedono il loro credito razionato) preferiscono aumentare la disponibilità di credito piuttosto che usufruire di tassi inferiori. Inoltre, anche dal punto di vista delle banche, esse stesse preferiscono sfruttare le informazioni private derivanti dalla relazione per aumentare la disponibilità di credito piuttosto che praticare tassi inferiori.

• Il problema dell’hold up. La banca “monopolista” pratica tassi più elevati perché è l’unica banca informata sul mercato e consapevole che le altre

banche sul mercato, eterne alla relazione, non affiderebbero completamente l’impresa cliente.

Berger e Udell, allo stesso scopo, si sono focalizzati, diversamente dai precedenti, solo sulle linee di credito bancarie, escludendo quindi quei prestiti che definiscono “transaction driven” piuttosto che “relationship driven”. I risultati a cui giungono sono principalmente i seguenti:

• all’aumentare dell’età dell’impresa, aumenta la durata della relazione con la banca, e minori sono i tassi che vengono praticati dalla banca stessa;

• tali risultati sono significativi sia dal punto di vista statistico che economico. In sintesi affermano che la forza della relazione è un’importante determinante del costo del prestito. Vi è però un’eccezione: questi risultati non sono verificati quando si prendono in considerazione le imprese molto piccole. In questo caso, infatti, entra in gioco la reputazione personale dell’imprenditore, che deve essere verificabile a priori, quindi solo in questo caso la relazione bancaria non basta per ottenere condizioni di tasso più vantaggiose.

2.2.2 L’esperienza europea

Per quanto riguarda il mercato europeo, l’evidenza empirica mostra che il problema dell’hold up è particolarmente rilevante, facendo si che in generale le condizioni di tasso tendono a peggiorare con l’ampiezza della relazione.

A questa conclusione sul mercato europeo giungono innanzitutto Degryse e Van Cayseele (2000); la spiegazione più probabile della differenza con i risultati degli studi statunitensi risiede probabilmente nella struttura stessa del mercato bancario europeo, che si presenta come maggiormente concentrato. Le imprese hanno meno alternative di finanziamento, e ciò viene sfruttato dalle banche a loro vantaggio.

I contributi principali per lo studio del mercato europeo provengono principalmente da Cardone, Casasola e Samartin (2005), per quanto riguarda il mercato spagnolo, e da Lehmann e Neuberger (2001) per il mercato tedesco. I primi analizzano, tramite la somministrazione di questionari, un campione di piccole e medie imprese dividendole in tre categorie principali: microimprese, piccole imprese e medie imprese. L’arco temporale preso in considerazione è sia il breve che il lungo periodo. Per quanto riguarda l’influenza della durata della relazione sul tasso, sia nel

breve che nel lungo periodo non è rilevabile nessun effetto significativo sul costo del credito.

Il lavoro di Lehmann e Neuberger fa emergere come unico risultato significativo che esiste una relazione inversa tra dimensione dell’impresa e tasso d’interesse praticato dalla banca, in linea con la consapevolezza che le imprese di grandi dimensioni sono più trasparenti delle piccole e medie imprese e quindi le banche le affidano a condizioni più agevolate. L’età dell’impresa non ha effetti significativi sul tasso: l’unico caso in cui si nota un aumento è nel caso delle imprese appartenenti alla classe di età 2-6 anni. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che in Germania i tassi di fallimento imprenditoriale più alti si hanno proprio in questa “classe di età” e quindi le banche, giustamente, le reputano più rischiose. Infine, anche Lehmann e Neuberger notano che non sussiste un impatto significativo della durata della relazione sul costo del credito.

2.2.3 L’esperienza italiana

Forestieri e Tirri (2003) analizzano il rapporto banca impresa, e quindi gli effetti del relationship lending, specificatamente per il mercato italiano. L’obiettivo è dimostrare che il problema dell’hold up è particolarmente presente nel nostro paese, e di conseguenza affermare, date le peggiori condizioni dei tassi, che il relationship banking non ha un effetto positivo per le imprese. I risultati di tale analisi supportano l’ipotesi di hold up: nel caso italiano, i costi derivanti da questo problema sono superiori ai benefici del relationship lending. In queste situazioni, sembra utile, per ovviare a questo problema, sfruttare il multiaffidamento, che riduce il monopolio informativo e quindi dovrebbe garantire tassi d’interesse più bassi.

D’altro canto, può accadere che il beneficio della relazione si traduca piuttosto che in una riduzione di costo, in una maggior disponibilità di credito, oppure si può pensare che le imprese di piccole dimensioni (e poco trasparenti) restano intrappolate in relazioni durature con queste banche non avendo alternative, e quindi sono disposte a pagare tassi più elevati per finanziare i propri investimenti.

In supporto a questa tesi vi sono anche i contributi di Angelini, Di Salvo e Ferri (1996) che affermano che in Italia il relationship lending comporta un aumento dei tassi d’interesse praticati alle imprese, proprio a causa dell’hold up problem.

Sottolineano inoltre che il monoaffidamento migliora la disponibilità di credito pur comportando il pagamento di tassi d’interesse maggiori.

In Italia, come anche in altri paesi europei, negli ultimi anni si è notato un aumento considerevole della fetta di mercato conquistata dalle banche di credito cooperativo, soprattutto per quanto riguarda il finanziamento alle piccole e medie imprese. Le banche di credito cooperativo hanno maggiori possibilità di finanziare questi tipi di imprese, notoriamente poco trasparenti, in quanto sono molto legate al territorio e quindi hanno maggiori possibilità rispetto agli altri istituti bancari di reperire le soft information che caratterizzano il relationship lending.

Alcuni studi analitici hanno dimostrato che, a differenza delle altre banche che pur sfruttando il relationship lending praticano comunque tassi più alti alla clientela, questo, sotto alcune ipotesi, non accade nel caso delle banche di credito cooperativo. I motivi sono molteplici, vanno dal forte localismo di queste banche allo sfruttamento del peer monitoring per controllare gli affidati durante il periodo di finanziamento, ma la differenza maggiore risiede nella composizione della funzione obiettivo delle banche di credito cooperativo. A differenza delle altre banche, che hanno l’obiettivo di massimizzazione del profitto, gli obiettivi di una BCC sono principalmente la massimizzazione del benessere della clientela, sia depositante che prenditrice, e l’assicurazione per la banca di mantenere un livello di capitalizzazione tale da rendere massima la probabilità che la banca continui ad esistere nel futuro.

A conferma di ciò, Di Salvo e Galassi riscontrano che se aumentano i tassi d’interesse di mercato, i prestatori cooperativi risultano più avvantaggiati, in quanto hanno la possibilità di praticare condizioni migliori ai loro clienti dal momento che la banca di credito cooperativo non ha come obiettivo la massimizzazione del profitto. Un altro punto di forza delle Bcc risiede nel riuscire a premiare, mediante condizioni più favorevoli, coloro i quali non sono in grado di segnalare ex-ante la loro capacità creditizia grazie alla capacità di reperire ed elaborare informazioni soft per questo tipo di clientela.