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Effetti su migrazioni e aumento dei rifugiati ambientali

Nel documento Oltre i Confini (pagine 61-75)

Introduction and Background

3. Cambiamento climatico ed impatti sulla popolazione

3.3. Effetti su migrazioni e aumento dei rifugiati ambientali

I disastri ambientali causati dal cambiamento climatico stanno fa-cendo crescere rapidamente il fenomeno detto “Environmentally-Induced Displacement”, vale a dire il trasferimento rapido e imprevi-sto di masse di individui colpiti da un evento ambientale. Secondo il Norwegian Refugee Council, nel 2008, circa 36 milioni di persone hanno dovuto fuggire a causa di disastri naturali; più di 16 milioni nel 2009 e, infine, circa 42 milioni nel 2010 (Yenotani, 2011). Negli ultimi dieci anni, almeno dieci catastrofi hanno avuto un impatto significativo a lungo termine sulla dinamica di spostamento di lun-ga durata. Secondo le stime delle orlun-ganizzazioni internazionali, più di 1,7 milioni di persone sono state costrette a spostarsi in seguito allo tsunami asiatico del dicembre 2004. Nell'agosto 2005, a seguito della uragano "Katrina" sul Golfo del Messico, oltre 300.000 persone sono state trasferite altrove. Nel febbraio 2010 più di 1,5 milioni di persone sono state sfollate in Cile a seguito del distruttivo terremo-to di magnitudo 8,8. Il terremoterremo-to del 2011 di Haiti ha privaterremo-to della casa più di 1 milione di residenti. In Giappone, nel marzo 2011 un violento terremoto di magnitudo 9, al quale ha fatto seguito uno tsunami, ha avuto un impatto esteso sulle dinamiche di migrazione interna dei cittadini giapponesi. Secondo le Nazioni Unite, un totale di 590.000 persone sono state evacuate o sfollate a causa del terre-moto e dello tsunami, tra cui più di 100.000 bambini (Terminski, 2012).

Il 2011 è stato un anno particolarmente critico in tutte le aree del Mondo (Gubbiotti et al., 2012). In Tailandia e Cambogia si sono

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verificate le più gravi inondazioni nella storia dei due paesi. In Tai-landia, piogge monsoniche e cicloni tropicali tra luglio e ottobre, aggravati dalle implicazioni de “La Niña”, hanno portato a inonda-zioni senza precedenti che hanno colpito 9,8 milioni di persone. In Cambogia, circa 230.000 persone sono state colpite dalle alluvioni e dall’eson-dazione del fiume Mekong e 23.000 famiglie sono state evacuate. Violente piogge si sono abbattute nel Bangladesh sudo-rientale. Nei distretti di Cox's Bazar e Teknaf, 84 mila case sono an-date parzialmente danneggiate e oltre 20 mila persone sono state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni.

Anche il Sud America, in particolare la Colombia e il Brasile so-no stati colpiti dalle forti piogge e iso-nondazioni nel 2011. Nello stesso anno, negli Stati Uniti (la parte meridionale) e in Messico, siccità e incendi hanno colpito le colture, gli allevamenti di bestiame e la produzione di legname, provocando perdite economiche ingenti anche in termini di posti di lavoro, ciò che ha costretto molti conta-dini ad abbandonare le terre.

Il continente Africano non è rimasto immune ai disastri, esatta-mente come previsto negli studi in Sudafrica, i violenti temporali e le inondazioni hanno costretto 6.000 persone a fuggire dalle proprie case. Due tra i Paesi più poveri della terra, la Somalia e il Corno d’Africa, hanno subito la peggiore siccità degli ultimi 60 anni.

L’Europa non è del tutto indenne, sebbene la dimensione dei fe-nomeni sia molto più contenuta. Il già citato report APAT-WHO ri-chiama i disastri ambientali occorsi nel nostro paese dal Secondo dopoguerra ad oggi. In un recente lavoro è stato affrontato per la prima volta il tema del “displacement” seguito al terremoto de L’Aquila del 2009 (Ambrosetti e Petrillo, 2014).

Queste cifre, già di per sé impressionanti, descrivono solo una parte dei movimenti migratori legati alle problematiche ambientali, cioè quella direttamente legata agli eventi catastrofici. In realtà, il fe-nomeno è più complesso e difficilmente delineabile, soprattutto per la difficoltà di distinguere tra le motivazioni dello spostamento sul territorio quelle riconducibili alla questione ambientale (Piguet e Lac-zko, 2014). Se esiste un consenso nella comunità scientifica interna-zionale sul nesso esistente tra cambiamenti climatici e migrazioni for-zate, non c’è ancora accordo su una precisa definizione del fenomeno.

3. Cambiamento climatico ed impatti sulla popolazione 53

I ricercatori dell'Istituto universitario delle Nazioni Unite per l'am-biente e Sicurezza umana (UNU‐EHS) hanno raggruppato i migran-ti ambientali in tre diverse categorie:

a) environmental emergency migrants b) environmentally forced migrants c) environmentally motivated migrants.

Gli environmental emergency migrants sono persone che si sono spostate a causa di un repentino evento climatico e per salvare la propria vita. Il fattore ambientale è quindi il motivo principale dello spostamento, facilmente individuabile, come nel caso di uragani, tsunami o terremoti. In molti di questi casi le persone colpite non re-stano nei propri paesi.

La seconda categoria comprende persone che devono lasciare la loro casa di origine, ma non in modo precipitoso come i primi. In alcuni casi le persone possono non avere la possibilità di ritornare a causa della perdita delle proprie terre o dell'estremo degrado causa-to dall'evencausa-to naturale stesso. In quescausa-to caso, anche i fatcausa-tori socioe-conomici giocano un ruolo non irrilevante ed è difficile stabilire quale tra fattori ambientali o socioeconomici sia preminente.

Infine, gli environmentally motivated migrants sono le persone che migrano poiché vivono in un contesto di costante deteriora-mento ambientale e per questo decidono di prevenire gli effetti di-sastrosi che ne potrebbero discendere. Migrare in questo caso non è l’ultima scelta a disposizione né una risposta all’emergenza. Qui i fattori socioeconomici possono giocare un ruolo dominante e mi-grare appare una strategia per evitare un ulteriore degrado dei mezzi di sussistenza.

E’ evidente quindi la difficoltà di produrre stime sull’incidenza futura del fenomeno migratorio legato al cambiamento ambientale. Tuttavia, secondo un'ipotesi prudenziale accreditata, entro il 2050 si raggiungeranno i 200/250 milioni di rifugiati ambientali, con una media di 6 milioni di uomini e donne costretti ogni anno a lasciare i propri territori a causa di crisi legate al cambiamento climatico o al continuo degrado del proprio habitat (Gubbiotti et al., 2012).

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Conclusioni

In questo breve lavoro si sono passati in rassegna alcuni dei principa-li effetti del cambiamento cprincipa-limatico in atto nel nostro pianeta sulla popolazione. Alcuni sono immediatamente rilevabili - quali la morta-lità e l’impatto sulla salute; altri sono meno esplorati - quali la modi-fica volontaria o indotta del comportamento riproduttivo; altri, infi-ne, sono più sfuggenti perché difficilmente definibili e misurabili co-me le migrazioni ambientali.

Lo scopo non è quello di esaurire i singoli aspetti – ciascuno dei quali meriterebbe ben più ampio livello di dettaglio e di approfondi-mento – ma di delineare i possibili percorsi di lo studio del cambia-mento climatico in un’ottica demografica, guardando al nesso popo-lazione ed ambiente in maniera globale.

D’altra parte, la soluzione delle problematiche legate al cambia-mento climatico non possono che essere affrontate in maniera globa-le. Il gruppo di esperti intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC) ha stabilito in maniera inequivocabile che le società devono rispondere alle sfide ambientali del 21 secolo attraverso opportune misure di adattamento (le azioni volte ad anticipare e prevenire gli effetti negativi del cambiamento climatico) e di mitigazione (le azioni volte a ridurre il cambiamento stesso, in particolare quelle volte a contenere le emissioni di gas serra). Esse non possono essere effica-cemente poste in essere senza un’opportuna attenzione alla situazio-ne socio-economica complessiva della popolaziosituazio-ne in un contesto di cooperazione internazionale.

L'adattamento può solo prevenire alcuni danni provocati dai disa-stri ambientali. Ma se la mortalità precoce, i problemi sanitari, la malnutrizione, la mancanza di sicurezza delle proprie abitazioni con-tinuano ad essere drammaticamente legati al sottosviluppo ancora presente in troppe aree del mondo, la capacità delle popolazioni di scampare ai pericoli legati al cambiamento climatico sono davvero ridotte. Deve essere cercata una sinergia tra sviluppo e adattamento ai cambiamenti climatici: le azioni volte al miglioramento degli allog-gi, delle condizioni di vita, e delle infrastrutture per tutti i cittadini, ottengono il duplice risultato di ridurre i livelli di povertà e le disu-guaglianze nella popolazione e limitare al contempo gli effetti danno-si del cambiamento climatico.

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PARTE II

I contributi contenuti in questa sezione “Guardando al di là del capita-lismo” affrontano temi e problemi diversi tra loro, ad una prima let-tura, ma nel profondo hanno una comune radice che è quella del si-stema economico globalizzato all’interno del quale, tra le istituzioni, si muove l’impresa. È interessante esaminare le diverse tipologie di metodo e di approccio che gli autori utilizzano.

La globalizzazione attuale è il processo economico sociale e cul-turale che ha, quindi, un significato molto più ampio rispetto a quello di internazionalizzazione, dovuto all’inarrestabile sviluppo tecnologico e dei sistemi di comunicazione che ha portato alla omo-geneizzazione non solo dei gusti dei consumatori ma anche dello stile di vita delle persone nel mondo: si è vista così la nascita di un “mercato globale”, dove i vari segmenti di mercato sono valutati dalle imprese non più a livello nazionale ma mondiale; si può af-fermare dunque che l'internazionalizzazione è una conseguenza di-retta della globalizzazione, le imprese infatti, nel corso degli anni e con diverse forme di integrazione, hanno saputo sfruttare la nascita di questo mercato moltiplicando le opportunità di creare ricchezza. I processi di globalizzazione in atto stanno trasformando profon-damente il panorama economico mondiale, scatenando conseguen-ze che si riversano al livello dei sistemi locali, mettendone in di-scussione le basi fondanti e le loro storiche traiettorie di sviluppo. I profondi processi in atto nel sistema di produzione internazionale stanno modificando il peso relativo delle economie avanzate in termini di percentuali di esportazione.

Introduzione

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Si assiste ad una fase di transizione e cambiamento radicale che potrebbe portare ad un modello organizzativo e produttivo al passo coi tempi, in grado cioè di affrontare in modo adeguato le sfide della globalizzazione; in particolare, negli ultimi dieci anni, l'emergere del-le economie asiatiche e l'introduzione dell'euro hanno messo in di-scussione le politiche tradizionali. In particolare, il fenomeno della globalizzazione ha contribuito ai processi di cambiamento nella con-figurazione dei distretti industriali e nel contempo ha posto con forza crescente l’interrogativo sul futuro dei distretti.

Il concetto moderno di distretto fu coniato attorno al 1870 dall'e-conomista inglese Alfred Marshall. Dove tutti vedevano semplici ag-glomerazioni industriali Marshall era riuscito ad individuare i di-stretti. Negli anni Sessanta del Novecento un gruppo di economisti italiani evidenziò che in alcune regioni d'Italia, principalmente in To-scana, mentre i settori industriali ad alta intensità di capitale comin-ciavano a mostrare evidenti segni di debolezza, si stava delineando, contemporaneamente, una particolare “anomalia”, consistente nella fioritura di piccole imprese manifatturiere con crescenti livelli di red-dito, occupazione ed esportazione. Queste possedevano un ottimo livello di capacità tecniche, talvolta simile a quello raggiunto dalla grande impresa. Si localizzavano in territori non molto attraenti per la teoria economica ortodossa, usando forme organizzative e com-merciali considerate obsolete (conduzione familiare, piccole associa-zioni e società). Questa dimensione “meso-economica” viene descrit-ta come un sistema a tre livelli: l'apparato produttivo in senso stretto, le istituzioni di collegamento tra l'apparato produttivo e la comunità distrettuale nel suo complesso, il sistema di valori e la sua trasmis-sione. Per cui un “distretto industriale” può essere definito come un’entità socio territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente de-terminata, in una comunità di persone e di una popolazione di im-prese industriali che tendono a compenetrarsi.

È quello che emerge dal lavoro di Luca Scialanga (Industrial Clu-sters in India: productive structure and international economic relations) che adatta questo approccio marshalliano arricchito dalla teoria e dal-la metodologia utilizzata per i distretti industriali italiani ad una real-tà particolare quale è quella indiana. Lo studioso evidenzia alcune delle caratteristiche dei cluster industriali situati nel subcontinente

Introduzione 61

indiano, al fine di definirne la loro particolare struttura produttiva. Inoltre, Scialanga sottolinea l'importanza di canali di accesso ai mercati internazionali al di fuori del sistema produttivo locale nel modellare relazioni industriali locali. Per illustrare questo aspetto viene descritto uno specifico episodio di complementarietà tra i setto-ri tessili indiani e quelli italiani attraverso il caso di Git. Concentran-dosi sulla dimensione del commercio internazionale, l’autore sugge-risce che l’apparato metodologico del distretto marshalliano ancora fornisce una chiave di lettura per interpretare la dialettica tra il locale e il globale, che è alla base del sistema economico contemporaneo. Il caso di Git dimostra che la strategia competitiva degli attori del mer-cato internazionale del tessile e dell’abbigliamento ha implicazioni importanti sul fronte della produzione e, di conseguenza, sulla orga-nizzazione del lavoro sociale dei sistemi locali coinvolti nel processo di produzione. Nonostante questo, la società locale del cluster forni-sce al sistema produttivo metodi organizzativi originali in modo da reagire a tali impulsi. In altre parole, la specificità della risposta locale alla pressione imposta dal processo di globalizzazione del commercio dipende dalla struttura istituzionale della comunità locale. L'architet-tura relazionale locale reagisce alle sfide attuali, mantenendo e adat-tando gli elementi del proprio percorso all’evoluzione storica.

L’impresa è al centro anche della disamina del saggio di Alberto Pastore e Ludovica Cesareo (Il fenomeno della contraffazione nella prospetti-va del management. Verso un sistema per la brand protection) ma attra-verso il fenomeno della contraffazione del marchio. Quali sono le cause e quali le politiche adottate da parte delle imprese per presidia-re i propri assets e arginapresidia-re il fenomeno?

L’analisi qualitativa esplorativa condotta dagli Autori sulla con-traffazione dal punto di vista delle imprese indaga sulle loro valuta-zioni al fine di comprenderne le strategie e le politiche che adottano per affrontare questo fenomeno. Il punto di partenza è stata la lettera-tura esistente su questo tema confrontandone le sue principali deter-minazioni con il punto di vista delle imprese di marca originali, rac-colto attraverso 18 interviste con i responsabili della protezione del marchio e della proprietà intellettuale di importanti imprese del set-tore fashion. Le imprese sono state selezionate all’interno dei settori che sono maggiormente esposti al fenomeno della contraffazione (numero di sequestri, stima delle perdite dovute al fenomeno) a

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livello europeo negli ultimi anni. Tale disamina ha evidenziato che in un contesto globale, trainato dalla tecnologia e caratterizzato da un ridotto enforcement legislativo, le aziende individuano nella com-plicità dei consumatori e nella attitudine negativa verso le grandi im-prese multinazionali due rilevanti fattori che spiegano la diffusione della contraffazione. Per far fronte a questi elementi, le imprese hanno necessità di costruire un sistema organico di protezione della marca e anti-contraffazione, all’interno del quale sorvegliare strettamente i "le-gami deboli", vale a dire le catene di approvvigionamento e di distri-buzione così come la formazione del personale. Ciò è un rischio per l’impresa dal punto di vista economico ma soprattutto finanziario.

Ecco quindi che il contributo al dibattito teorico apportato dal la-voro di Antonio Renzi, Giuseppe Sancetta e Beatrice Orlandi (Equity cost, fattori firm specific e volatilità nei giudizi degli analisti) porta a valutare attentamente il rapporto rischio/rendimento attraverso una disamina delle principali teorie delle analisi rischio/rendimento nell’ambito di tutte quelle valutazioni finanziarie basate su processi di attualizza-zione. Come è risaputo, il capitale di rischio e l’autofinanziamento determinano, tempo per tempo, la dimensione dell’equity disponibile per l’impresa, cui corrisponde un costo opportunità del capitale ossia l’equity cost. Il modello rischio più noto e utilizzato è il capital ass pri-cing model. I limiti del modello sono quelli di essere legato allo scopo per il quale è stato concepito perché nasce per la stima dei rendimenti dei titoli negoziati sui mercati di capitali. Il lavoro contribuisce ad approfondire l’analisi rischio-rendimento, focalizzando in particolare l’attenzione su due aspetti di cui il primo riguarda la relazione tra equity cost e fattori firm specific secondo una prospettiva bottom-up mentre il secondo, la dispersione dei giudizi espressi dagli analisti finanziari, quale driver della dinamica rischio-rendimento in una prospettiva top-down.

Questi concetti sono legati a quello della sostenibilità sempre più pressante in un sistema quanto mai globalizzato. E il contributo di Claudio Cecchi (Economics for Sustainability Science: the analysis of changes in public service provision) mette a fuoco una metodologia che possa contribuire alle scienze della sostenibilità nella dimensio-ne economica. A questo riguardo l’economista esamina empirica-mente il distretto di Grosseto come esempio pratico di questa politi-ca. L’esercizio che svolge lo studioso sulla fornitura di servizi nel

Introduzione 63

sud della Toscana supporta due importanti conclusioni. La prima conclusione riguarda i vantaggi metodologici di utilizzare il modello del NGR (Nicholas Georgescu Roegen). Come Cecchi ha dimostrato in questo lavoro, l'utilizzo dell'approccio innovativo di NGR

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