Concluding remarks
5. Equity cost, fattori firm specific e volatilità nei giudizi degli analisti
5.2. I principali limiti del CAPM
I principali limiti del modello sono strettamente legati allo scopo per il quale esso è stato concepito.
Infatti, il Capital Asset Pricing Model nasce per la stima dei rendi-menti dei titoli negoziati sui mercati dei capitali. Di conseguenza, la traslazione, nell'applicazione dello strumento, dai mercati dei ca-pitali alle imprese non quotate o a divisioni d'impresa, comporta, da una parte, una contraddizione degli assunti su cui poggia il model-lo; dall'altra, una serie di ulteriori semplificazioni che conducono a stime della relazione rischio-rendimento incapaci di cogliere le carat-teristiche strutturali specifiche delle imprese oggetto di analisi.
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In base a quanto detto, possiamo raggruppare in due macro-categorie i limiti del modello: a) contraddizione del principio di effi-cienza informativa del mercato; b) incapacità, rispetto all' equity cost così stimato, di riflettere pienamente i fondamentali d'impresa.
Rispetto al primo punto, osserviamo che, nel CAPM (consideran-do anche le sue successive varianti), per la stima della relazione ri-schio-rendimento si utilizzano le serie storiche della varianza dei rendimenti. L'assunto principale, infatti, è che gli scambi avvengano in condizioni di perfetta efficienza informativa degli operatori del mercato. Se tale presupposto sconta un eccesso di semplificazione già con riferimento alle imprese quotate; la forzatura appare ancor più evidente nel caso della stima dell'equity cost per le imprese non quotate. Infatti, mentre per i titoli scambiati sui mercati dei capitali, la distri-buzione della varianza dei rendimenti nel tempo è definita e reperibile; essa, invece, non è pienamente disponibile per le imprese non quotate. Nella prassi, perciò, si procede utilizzando una serie di proxy, come i dati riferiti a gruppi di imprese quotate, cosiddette "comparabili".
In ultima analisi, tale adattamento sarebbe in contraddizione con l'assunto principale del modello - l'efficienza del mercato -, in base al quale, gli scambi rifletterebbero perfettamente le informazioni (Fama, 1970), mentre, di fatto, essi non riflettono tout court le informazioni riguardanti le caratteristiche delle imprese oggetto di analisi. Colle-gandoci al secondo punto, la stima dell'equity cost dell'impresa private si basa sulla considerazione dei rendimenti di comparables quotate: os-sia, si assume una sostanziale similarità tra imprese che hanno, per na-tura, caratteristiche strutturali fortemente eterogenee. In altri termini, l'applicabilità del CAPM alle imprese non quotate risulta fortemente condizionata dal fatto che si esclude a priori ogni considerazione di quelle che sono le caratteristiche strutturali firm specific, in grado di incidere in maniera sostanziale sulle dinamiche del rischio un-levered, anche in relazione all'andamento del mercato.
Per pervenire ad una stima accurata e realistica, occorrerebbe, in-vece, da una parte, utilizzare un approccio che consenta di stimare l'effetto della struttura specifica dell'impresa sull'equity cost.
Dall'altra, bisognerebbe poter valutare in senso dinamico le inte-razioni di tale struttura con il mercato; al fine di offrire uno stru-mento che permetta sia ai managers di delineare agevolmente un quadro delle possibili traiettorie evolutive dell'impresa, conside-rando gli effetti sul rischio un-levered sottesi alle singole iniziative;
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sia agli analisti di esprimere un giudizio più ad ampio raggio e cali-brato sulle caratteristiche firm specific.
In altri termini, infatti, i fattori strutturali dell'impresa, potrebbero mi-tigare o amplificare il rischio sistematico, ma ciò non emerge utilizzando il CAPM nella sua veste tradizionale. Inoltre, esso è basato su una pro-spettiva esclusivamente finanziaria, che non tiene conto degli effetti stra-tegici delle scelte, e, dunque, della capacità dei managers di poter mano-vrare il rischio un-levered, attraverso adeguamenti strutturali.
L'utilizzo di un approccio bottom-up consente, invece, in parte, di ovviare ai menzionati limiti, stimando l'equity cost a partire dai fon-damentali d'impresa e, quindi, recuperando l'effetto della specificità strutturale sulla dinamica del rischio e, superando l'assunto irrealisti-co del CAPM tradizionale, seirrealisti-condo il quale gli investitori decidereb-bero senza considerare i fondamentali.
Il breve excursus qui svolto sui principali limiti del CAPM si fonda su un nutrito filone di critiche proposte dalla letteratura. Tra i molteplici contributi in tema, ricordiamo quello di Lev (1972), che critica l'uso delle serie storiche per la misurazione del rischio. Altri autori richiamano l'attenzione sull'uso dei fondamen-tali, per aumentare l'efficienza delle stime (Beaver, et al., 1970). Ampio riscontro ha avuto la critica di Roll: Roll (1977) asserisce che, di fatto, il CAPM non può essere sottoposto a verifica empiri-ca e che le proxy in esso utilizzate, non riflettano il valore di fattori rilevanti, ma difficilmente quantificabili e negoziabili (come, ad esempio, il capitale umano).
Successivi test empirici (Fama and MacBeth, 1973; Kahneman and Tversky, 1979; Bowman, 1980) mettono in discussione gli as-sunti del CAPM: ad esempio, il CAPM non spiegherebbe la variabi-lità dei rendimenti, nella dimensione cross-section e, dunque, per pa-radosso, titoli con beta inferiori, offrirebbero rendimenti maggiori da quelli previsti dal CAPM (Fama e French, 1992).
Il primo tentativo di collegare il rischio sistematico alle caratteri-stiche specifiche dell'impresa, in particolare, alla struttura del capitale si deve a Hamada (1972); modello poi esteso da Conine (1980). Lev (1974), collega le variazioni della leva operativa alla volatilità dei rendimenti dei titoli sul mercato; mentre Banz (1981) sottolinea l'effetto sul rischio dovuto alle dimensioni d'impresa e, dunque, alla leva operativa. In sostanza, esiste un nutrito filone della letteratura che si è occupato di collegare il rischio ai fondamentali d'impresa
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(Gahlon and Gentry, 1982; Rhee, 1986; Mandelker and Rhee, 1984; Chung, 1989). Attualmente, molti studiosi stanno concentrando la loro attenzione sul legame tra la relazione rischio-rendimento e le caratteristiche specifiche dell'impresa. Alcuni contributi, ad esempio, ancorano il rischio alla leva operativa e alla dimensione d'impresa (Carlson, et al., 2004); altri tentano di scomporre il rischio in fattori economici e di business (Roodposhti et al., 2009) o, più in generale, confermano la validità dell'approccio legato all'uso dei fondamentali (Mseddi and Amid, 2010).