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Il problema del beta azionario delle imprese non quotate e l’approccio bottom up

Nel documento Oltre i Confini (pagine 111-116)

Concluding remarks

5. Equity cost, fattori firm specific e volatilità nei giudizi degli analisti

5.3. Il problema del beta azionario delle imprese non quotate e l’approccio bottom up

Il modo più semplice per stimare il beta di un’impresa non quotata è quello di utilizzare il beta unlevered del settore di riferimento. Nel ca-so in cui il settore si caratterizzi per un’elevata etereogenità delle im-prese che ne fanno parte, occorre estrarre dallo stesso un cluster di so-cietà quotate che siano comparabili rispetto all’attività oggetto di stima.

In generale, l’individuazione di un adeguato cluster richiede clas-sificazioni multi-fattoriali, in funzione, ad esempio: della scala pro-duttiva, dell’incidenza del fatturato rispetto agli investimenti, delle prospettive di sviluppo, del segmento (o segmenti) di mercato, della notorietà del marchio ecc (Renzi, 2002).

La validità dell’approccio basato sull’individuazione di una o più imprese comparabili appare valido in casi particolari quando, ad esempio, una grande impresa non quotata risulti similare - sul piano dimensionale, strategico ed industriale - ad un determinato cluster di public company.

Tuttavia, ipotesi del genere si manifestano piuttosto raramente: il più delle volte, le imprese non quotate divergono marcatamente, in termini sia strutturali che strategici, rispetto quelle quotate. In gene-rale, quindi, l’effettiva capacità della comparable analysis di catturare la giusta dimensione dell’equity cost, in funzione del rischio sistematico, appare limitata a pochi casi specifici.

Il problema della bassa comparabilità tra imprese quotate e non quo-tate emerge in modo ancora più netto nel caso di start-up (o più in gene-rale di nuovi business), specie quando il progetto imprenditoriale si carat-terizza per un elevato grado di innovatività. Del resto appare evidente

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come il profilo rischio-rendimento di una nuova attività innovativa diffi-cilmente possa essere in linea con quello di imprese già affermate da un punto di vista strategico, nonché quotate presso il mercato dei capitali. Ciò non significa che nell’ambito di valutazioni concernenti nuove im-prese l’analisi di realtà comparabili perda di ogni significato. Tale analisi può essere considerata come punto di partenza per la stima dell’equity cost. Occorre arricchire la comparazione con fattori correttivi di natura sia oggettiva che soggettiva: la correzione oggettiva prevede l’esplici-tazione di elementi intrinseci al business; quella soggettiva si basa sulle caratteristiche dell’investitore/finanziatore, ad esempio in ragione della propensione ad adottare politiche di asset allocation improntate alla di-versificazione, quale strumento di ottimizzazione dei portafogli seconda una prospettiva tipicamente finanziaria (Renzi, 2013).

Sulla base di tale conclusione il c.d. approccio bottom up alla stima del beta nasce allo scopo di superare alcune criticità del CAPM attra-verso l’analisi combinata dei fondamentali aziendali – ossia delle va-riabili interne all’impresa oggetto di valutazione - e dei fattori caratte-rizzanti l’ambiente competitivo di riferimento. In generale, l’approccio bottom up, da una parte arricchisce lo studio della relazione rischio-rendimento attraverso l’esplicitazione di parametri aziendali; dall’altra, appare necessario soprattutto quando la stima dell’equity cost non per-segue obiettivi di natura strettamente finanziaria, ma si qualifica come strumento di supporto manageriale.

Gli studi in materia hanno evidenziato come il rischio azionario, quale determinante dell’equity cost, possa essere ricondotto a tre driver5: l’intrisic business risk; la leva operativa; la leva finanziaria (figura 4):

5 Al riguardo si vedano tra gli altri: Blazenko G. W., 1996, "Corporate Leverage and the Distribution of Equity Returns," in Journal of Business & Accounting, ottobre, 1097-1120; Griffin H. F., Dugan M.T., 2003,, “Systematic risk and revenue volatility”, in Journal of Financial Research, n. 2, 179-189; Hill N.C., Stone B.K., 1980, “Accounting Betas, Systematic operating risk and financial leverage: a risk composition approach to the determinants of systematic risk”, in Journal of Financial and Quantitative Analysis, n. 3, 595-638; Huffman S. P., 1989, "The Impact of Degrees of Operating and Financial Leverage on the Systematic Risk of Common Stock: Another Look," in Quarterly Journal of Business & Economics, 83-100; Mandelker G.N., Rhee S.G., 1984, “The impact of the degree of operating leverage and financial leverage on systematic risk of common stock”, in Journal of Financial and Quantitative Analysis, 19, 45-57; Petersen M. A., 1994, "Cash Flow Variability and Firm’s Pension Choice: A Role for Operating Leverage," in Journal of Financial Economics, dicembre, 361-383. Rubinstein M.E, 1973, “A mean-variance synthesis of corporate financial theory”, in Journal of Finance, 28, 167-182.

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Fig. 4. driver del rischio azionario nella prospettiva bottom-up

In generale, l’intrisic business risk riguarda la volatilità dei ricavi (quindi della domanda e dei prezzi unitari di vendita), indotta da scelte aziendali e/o da fattori ambientali. Secondo Chung (1989) ogni impresa subisce l’intrinsic business risk per effetto, soprattutto, della ciclicità del proprio settore di appartenenza.

L’intensità con cui l’intrinsic business risk agisce sulla volatilità dei risultati operativi dipende dalla rigidità dei costi e, quindi, dal profilo strutturale dell’impresa. Al crescere dei costi di struttura, infatti, au-menta l’elasticità del reddito operativo rispetto alle fluttuazioni del mercato di sbocco. Detta elasticità, come è noto, coincide con la leva operativa, quale componente endogena del rischio simmetrico.

In sostanza, la leva operativa genera una volatilità dei risultati operativi maggiorata rispetto all’intrinsic business risk: nel caso di ele-vati livelli di leva operativa, a variazioni contenute del fatturato cor-rispondono variazioni percentuali relativamente alte del risultato operativo. Le imprese che presentano una leva operativa superiore ai livelli medi di settore hanno, rispetto ai competitors, un vantaggio in termini di maggiore sfruttamento dell’economie di scala, in condi-zioni tuttavia, di una più elevata rischiosità operativa.

La leva in oggetto assume, pertanto, un duplice significato rispet-to alla dinamica evolutiva dell’impresa: essa evidenzia la possibilità, da un lato, di ottenere miglioramenti della redditività facendo leva sui volumi; dall’altro, di non poter adeguare i costi di struttura a pos-sibili andamenti congiunturali negativi.

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Dalla combinazione tra intrinsic business risk e leva operativa sca-turisce il rischio un-levered (o rischio operativo), ossia la volatilità delle performance di natura industriale. Considerando per sempli-cità d’analisi l’intrinsic business risk esclusivamente di natura esoge-na e supponendo uesoge-na condizione unlevered (assenza di debiti fiesoge-nan- finan-ziari), il management può mitigare l’equity cost nel limite in cui sia-no possibili recuperi di efficienza, tesi a contenere l’incidenza dei costi di struttura sui costi totali.

In assenza di debiti, quindi, il governo endogeno dell’equity cost può avvenire nei limiti di manovrabilità della leva operativa. Tali limiti sono riconducibili a tre ordini di fattori: i c.d. sunk cost, cioè le barriere all’uscita da determinate attività; un livello minimo di ri-sorse in esubero necessario ad assicurare la capacità dell’impresa di adattarsi a nuovi scenari; le aspettative degli stakeholders interni ed esterni all’impresa che spesso spingono il management ad accettare, al fine di salvaguardare il capitale relazionale, perdite di efficienza economica.

In presenza di debiti finanziari, al rischio un-levered occorre ag-giungere quello di natura finanziaria, ossia l’instabilità che la strut-tura del capitale può produrre sulla dinamica economica e sul gra-do di copertura patrimoniale del rischio. Per ottenere il rischio leve-red vanno, cioè, considerati anche gli effetti che le decisioni di fi-nanziamento degli asset aziendali hanno sulla variabilità dei risulta-ti netrisulta-ti e sulla adeguatezza dei mezzi propri. Al riguardo, è noto come la leva finanziaria esprima l’elasticità del reddito netto rispet-to al reddirispet-to operativo, oppure, ragionando in termini di redditivi-tà, l’elasticità del ROE (Return on Equity) rispetto al ROI (Return on Investments). Ciò significa che a parità di altre condizioni, i debiti agiscono positivamente sul rendimento minimo atteso dall’azionista (Modigliani, Miller, 1958). Naturalmente, superato un certo livello di leva finanziaria, la struttura del capitale amplifica anche il ren-dimento atteso dai creditori, in ragione del rischio di dissesto finan-ziario, ossia della possibilità che la dotazione dei mezzi propri dell’impresa non sia sufficiente a fronteggiare forti perdite di natu-ra economica. Occorre, inoltre, considenatu-rare i c.d. costi indiretti di

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fallimento teorizzati nell’ambito della c.d. trade-off theory6, secondo cui il rischio di dissesto finanziario,riducendo la forza contrattuale dell’impresa rispetto agli stakeholder commerciali, produce effetti ne-gativi sulla operatività della stessa.

Come evidenziato da Gahlon e Gentry (1982), l’analisi combinata dei suddetti driver del rischio sistematico (intrisic business risk, leva operativa e leva finanziaria) crea benefici all’azione manageriale ove consenta la stima dell’equity cost in ragione dell’elasticità delle per-formance aziendali rispetto alla volatilità di contesto.

In primo luogo, quindi, il ricorso all’approccio bottom – favorendo la verifica ex-post di come le scelte industriali e finanziarie agiscono sull’attuale esposizione dell’impresa al rischio sistematico - è giustifi-cato da esigenze di controllo di gestione. In secondo luogo, detto ap-proccio può essere visto come supporto ai processi d’investimento, nel momento in cui consente la valutazione degli effetti potenziali che ogni ipotesi d’investimento produce sul grado di rigidità dei costi e sul livello d’indebitamento, quindi, sul nesso tra elasticità attesa e rischio sistematico7.

6 Secondo la trade-off theory, il sovradimensionamento del debito genera effetti negativi sul valore d’impresa non solo in termini di crescita del tasso d’interesse, ma anche di: costi di fallimento specifici, quali quelli connessi alla liquidazione forzata dell’attivo, a procedure legali, ecc.; costi tax shields dovuti alla perdita dei benefici fiscali del debito; costi indiretti di fallimento dovuti alla perdita di forza contrattuale rispetto alla clientela, ai fornitori, ai dipendenti, ecc. Al riguardo si rimanda a: Baxter N. D., 1967, “Leverage, risk of ruin, and the cost of capital”, in Journal of Finance, settembre, 395-404; Gordon R.H., Malkied B., 1981, “Corporation finance”, in Aaron H., Pechman J. (a cura di), How taxes effect economic behavior, Brookings Institution, Washington, 131-198; Titman S., 1984, “The effect of capital structure on a firm’s liquidation decision”, in Journal of Finance, vol. 26, n. 1, 3-27.

7 Per approfondimenti circa la modellizzazione dell’approccio bottom up si rimanda a: Renzi A., Sancetta G., Orlando B., (2013), “The unlevered systematic risk analysis: a new bottom up approach” in European Business Research Conference, Roma, 5 – 6 September; Renzi A. (2013), “Approfondimento DCF: l’equity cost di un nuovo business” in Renzi A., Vagnani G. (a cura di), Imprenditorialità, capitale di sviluppo e valore, Giappichelli, Torino, 201-235; Renzi A., 2012, “Il CAPM nel governo dell’impresa in Renzi A., Gennaro A., Sancetta G., Costo del capitale e governo d'impresa. Fondamentali aziendali e comunicazione d’impresa nella prospettiva rischio-rendimento, Giappichelli, Torino, 144-186.

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5.4. La dispersione degli analisti quale driver del rischio

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