• Non ci sono risultati.

Le elezioni del 1919 e la vittoria (apparente) dei socialist

Nel documento Piero Gobetti. Un liberale rivoluzionario (pagine 31-41)

3. Il ‘biennio rosso’

3.1 Le elezioni del 1919 e la vittoria (apparente) dei socialist

Terminata la guerra, la disperazione dei lavoratori e la gravità delle insorgenze che essa alimentò, si fecero, a livello nazionale, di un certo peso. Il movimento dei lavoratori venne certamente galvanizzato dalla recentemente avvenuta rivoluzione bolscevica, ma fu lo stesso mutato quadro politico istituzionale a favorire la loro fiducia in un esito positivo delle proteste. Infatti, l’applicazione delle nuove norme elettorali, che prevedevano il suffragio universale maschile e un sistema di rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista, fecero sì che, nel novembre del 1919, il Parlamento fosse occupato da un numero di rappresentanti per partito proporzionato al numero di voti ottenuto. Il Partito socialista, grazie al 31% dei consensi, conquistò la maggioranza dei posti in Parlamento, seguito dal Partito popolare, che venne votato dal 20% degli elettori. Sembravano, a questo punto, esservi tutte le condizioni perché le rivendicazioni della classe lavoratrice operaia e contadina potessero essere ascoltate.

In questo nuovo contesto, dove il ruolo dei singoli candidati politici diventava secondario rispetto a quello dei loro partiti di riferimento, i liberali – il cui schieramento, in unione con

31 quelli dei democratici, dei radicali, dei repubblicani e dei gruppi minori, ottenne una maggioranza relativa con meno del 50% delle preferenze – che pure credevano di spuntarla ricorrendo ai soliti metodi trasformisti, si resero conto di non essere all’altezza di uno Stato che si stava dotando di gruppi di rappresentanza sempre più stabili e legittimati grazie alla loro diffusione sul territorio105.

Pertanto, con la fine della Grande guerra, anche il liberalismo istituzionale, caratterizzato dalla fluidità dei movimenti e dall’emergenza di singole personalità politiche carismatiche, poté dirsi concluso e, con esso, la funzione politica Giolitti, il quale, sebbene ricoprirà ancora, per la quinta volta, la carica di Presidente del Consiglio dal giugno del 1920 al luglio del 1921, non sembrava avere pronto nessun nuovo asso nella manica. In un mondo in cui la lotta andava sempre più organizzandosi in grandi partiti di massa, il contributo più certo che il Primo dopoguerra portò fu che la visione personalistica della politica tipica del movimento liberale fosse diventata, a questo punto, anacronistica.

Gobetti, che proprio nel 1919 aderì alla Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale, – associazione sorta inizialmente con il nome di «gruppi d’azione degli amici dell’Unità»106 per iniziativa di alcuni giovani intellettuali vicini a Gaetano Salvemini – non era

un socialista, così come non si affiliò ad alcun altro partito, vista la sua propensione ad entrare a fondo nei problemi, e di farlo in maniera trasversale e disinteressata. Commentando l’esito delle elezioni a distanza di pochi giorni, Gobetti si dichiarò sollevato del fatto che fosse stato «Spazzato via il non senso della banda giolittiana» e pareva incline a vedere un futuro di più rosee prospettive per il rinnovamento della cultura politica nazionale. Precisava, tuttavia, che solo se i socialisti avessero rinunciato alle formule astratte e romantiche, su cui tendenzialmente i loro programmi politici si erano modellati, e avessero saputo guardare alla specifica realtà italiana, i problemi degli operai sfruttati nelle fabbriche e, soprattutto, quelli dei contadini meridionali vessati per il profitto delle minoranze privilegiate del Nord avrebbero potuto trovare soluzione. Per Gobetti «Non ci [poteva] essere un governo socialista», perché nessun governo che guardasse al trionfo della propria classe particolare di appartenenza, politica o sociale che fosse, avrebbe saputo «avviare tutte le energie costruttive» a vantaggio dell’unità. Per prima cosa, andavano considerate «le relazioni sociali, non le ideali convinzioni individuali». Il Partito socialista aveva, dunque, il dovere di superarsi

105 Sui risultati elettorali si vedano: Seton-Watson, op. cit., pp. 699-706; 913; Banti, L’età contemporanea. Dalla

Grande Guerra a oggi, Laterza, Bari 2012, pp. 90-93.

106 Cfr. SP, Introduz., p. XXI. Lavriano riferiva di come Salvemini avesse riposto la propria fiducia in Gobetti per

portare avanti le attività della Lega a Torino e in Piemonte e di come quest’ultimo facesse sua la proposta entusiasticamente, ma per breve tempo (Id., op. cit., p. 64). Bagnoli, dal canto suo, sottolinea come l’aver preso parte, seppur brevemente, all’organizzazione politica salveminiana avesse influito positivamente sul carattere della scrittura di Gobetti («il quadro del suo argomentare si [era] fatto più complesso») (Id., op. cit., pp. 46-47). Entrambi, tuttavia, erano portati a trarre la conclusione che l’impegno politico concreto di Gobetti risultasse insoddisfacente: la sua restò in tutti i casi una «politicità […] fatta essenzialmente di idee» (Bagnoli, op. cit., p. 183), quasi che l’«aspetto pratico» della sua attività fosse da considerarsi un semplice «corollario», un’«esigenza irriflessa che sgorga spontanea dal fatto stesso del pensare, che non ha bisogno di alcuna “pianificazione”» (Lavriano, op. cit., p. 96).

32 come partito, per diventare trasmettitore di idee per l’unità, «dialettizzatore di tutte le realtà sociali»107.

L’esito delle elezioni decretò una situazione di semi-ingovernabilità, tuttavia il Psi non perse il suo bacino di consensi, se si considera che il numero degli iscritti passò dai 25.000 del ’18 ai 210.000 della fine del ’20108. Il cambiamento di fisionomia del partito avvenuto dopo la

svolta del congresso di Bologna (5-8 ottobre 1919)109 aveva, evidentemente, influito su

questo rigonfiamento improvviso. Fatto sta che, se nel 1921 ad uscire dall’organizzazione non saranno i riformisti bensì i più a sinistra fra i massimalisti (futuri comunisti), l’attitudine rivoluzionaria che il partito aveva fatta propria nel ‘biennio rosso’ non emerse adeguatamente dall’equivoco coi moderati.

Esemplificativo dell’atteggiamento tendenzialmente conciliante del movimento socialista era, secondo Spriano, il contenuto di una lettera inviata dallo stesso Serrati a Lenin due mesi dopo il congresso di Bologna, alla fine di dicembre del 1919. Si trattava della risposta ad una missiva scritta da Lenin, il quale aveva voluto complimentarsi per la raggiunta maggioranza da parte della sinistra entro il partito al recente raduno emiliano. Ma, evidentemente, quello che Serrati aveva inteso come suggerimento di agire «a tempo debito» era, invece, per Lenin un invito ad una cautela non eccessivamente prolungata.

Il fatto che Serrati considerasse inopportuna la proposta avanzata dal gruppo della rivista

L’Ordine nuovo di istituire i Consigli di fabbrica quali organismi di massima rappresentanza

dei lavoratori in protesta, dimostrava quanto i socialisti fossero ancora legati alla logica tradizionale del partito dell’attendere fino alla maturazione degli eventi. L’idea degli ordinovisti di dare diritto di voto, nei Consigli, anche agli operai di più basso rango, disorganizzati (cioè non iscritti al sindacato), appariva scriteriata anche agli occhi di un sedicente radicale come Serrati. Egli, dando voce al pensiero del suo partito, riteneva «si po[tesse] andare a vele spiegate alla vittoria con il pesante bagaglio dei sindacati, delle cooperative, dei Comuni – in effetti dominati dai riformisti che tutto volevano meno che la rivoluzione»110.

Più avanti, sarà lo stesso Serrati a definire un errore la sua illusione di poter contare sull’apporto alla rivoluzione – che difatti non avvenne – da parte dell’ala riformista capeggiata da Turati, e di essersi perciò opposto alla scissione del partito. Cosa che comunque si verificherà nel 1921.

107 SP, pp. 176-178.

108 Giovanni Sabbatucci, Il riformismo impossibile. Storie del socialismo italiano, Laterza, Bari 1991, p. 8.

109 I massimalisti avevano ottenuto la maggioranza dei consensi in merito alla mozione da essi stessi avanzata di

agire per instaurare la dittatura del proletariato. Ma la scissione dai riformisti non era avvenuta per il parere contrario dello stesso esponente massimalista Giacinto Menotti Serrati. Così fu tentata la convivenza all’interno del partito da parte di due correnti evidentemente sempre più incompatibili. Non si può escludere che la sopravvissuta ala riformista del Psi influenzasse significativamente le decisioni prese dal partito, dal momento che, al congresso di Roma del 1922, la corrente riformista, con 29.000 rappresentanti, poteva contare su una forza numerica quasi pari a quella massimalista (31.000). I riformisti vantavano inoltre una ampia maggioranza nel gruppo parlamentare (cfr. Sabbatucci, op. cit., p. 60).

33 La critica di Gobetti ebbe buon gioco, dunque, nel constatare che il Psi, impegnato nelle questioni di principio che mettevano capo alla scissione delle sue numerose componenti, per il fatto di non aver trovato una giusta soluzione alla crisi della classe lavoratrice nel dopoguerra, ebbe una parte nel consegnare l’Italia nelle mani dei fascisti.

In tema di cooperativismo economico, Gobetti arrivò addirittura a definire Mussolini più socialista di Turati111. L’economia associata, in effetti, era stato il chiodo fisso della

legislazione turatiana del dopoguerra, dove la collaborazione paritetica fra lavoratori e datori di lavoro era diventata il massimo punto di riferimento112. Possiamo immaginare quanto

Gobetti, assertore della mancanza, presso i lavoratori, di una coscienza di classe, avversasse questa visione conciliatoria.

Il carattere gradual-riformistico del Partito socialista, dalla sua fondazione, nel 1892, alla marcia su Roma, nel 1922, fu tutto sommato l’elemento di maggior continuità dell’organizzazione politica nata con l’intento di rappresentare gli interessi della classe lavoratrice113 e basti, a dimostrare ciò, rilevare che la figura di Turati, massimo

rappresentante del riformismo, si trovava, ancora nel 1922, a capo di una maggioranza parlamentare114.

Gobetti ebbe spesso per Turati, e per il Partito socialista in generale, parole critiche, sostenendo che il vizio originario della loro attitudine politica stesse nella «visione democratica di carattere empiricamente cattolico». Quando egli descriveva il rapporto instaurato da Turati con le masse dei lavoratori come non diverso da quello che con esse aveva costruito Giolitti, era perché vedeva tra i due uomini una analoga tendenza a trattare le masse come un «problema di beneficienza», progettando per loro una legislazione sociale tale da «diminuirne i dolori e le possibilità di ribellione»115. Il risultato di questa continua ricerca

di accordo e compromesso – ricordiamo il patto fra Giolitti e i socialisti stipulato fra il 1902 e il 1903 – fu un «riformismo mezzano tra la borghesia e il proletariato», un «ideale che promette[va] a tutti felicità», ma che, dopo aver mostrato di saper dare ascolto alle richieste di maggiore libertà, dimostrò di aver totalmente trascurato le persone reali che di tali istanze erano portatori. Perché fra i problemi di quelle persone stavano assumendo un’importanza crescente, allora, anche le violenze squadriste, presto adottate quale legittima tattica difensiva dal Partito nazionale fascista.

Il «programma minimo» dei socialisti, articolato nell’etica del collaborazionismo e dell’attesa, per la rivoluzione proletaria, del momento più opportuno, erano strategie che, nella visione di Gobetti, poco si addicevano ad una classe lavoratrice che, nella crisi del

111 «È probabile che la prima opposizione al governo fascista in nome del socialismo venga utilizzata e accettata

da Mussolini. Egli non esiterà ad essere più socialista di Turati» scriveva Gobetti il 16 ottobre del 1923 (cfr. SP, p. 529).

112 Cfr. Sabbatucci, op. cit., p. 45.

113 Il suo primo nome fu Partito dei Lavoratori Italiani, poi Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. 114 Ivi, p. 60.

34 dopoguerra, sentiva la impellente necessità di far ascoltare la propria voce. La popolazione italiana avrebbe avuto bisogno, semmai, di un «programma massimo», vale a dire di politiche che incentivassero, anche attraverso i partiti, lo scontro di classe. Invece, la linea di Turati, seguita dal Psi, fu quella di «una grande e generica battaglia in nome della libertà», che, dal patto con Giolitti all’ascesa politica di Mussolini, invece che adoperarsi per mettere in primo piano i problemi reali, si tuffò nel burrascoso amalgama delle correnti politiche parlamentari, senza riuscire a spiccare per personalità. In questa tendenza al compromesso si sarebbe «esaurita l’originalità di pensiero del socialismo»116 e i problemi dei lavoratori italiani, anche

dopo la grande illusione del ‘biennio rosso’, sarebbero rimasti irrisolti.

3.2 «E noi faremo come la Russia…»117: le premesse rivoluzionarie del dopoguerra

Se la conferenza di Zimmerwald, tenutasi dal 5 all’8 settembre del 1915 per iniziativa di alcuni partiti socialisti dei paesi coinvolti nel conflitto, non fruttò l’esito auspicato di trasformare la guerra imperialista in guerra civile118, quella era stata pur sempre l’occasione

per gli esponenti dell’ala rivoluzionaria del Partito socialista italiano (Lazzari e Menotti Serrati) di farsi conoscere e di avvicinarsi alla teoria rivoluzionaria bolscevica. Successivamente, per il fatto che, durante la guerra, il governo assunse un coordinamento quasi totale del sistema economico, già nel corso del primo conflitto mondiale l’accentramento industriale venne favorendo la creazione di un accentramento operaio.

Fu solo nel 1917 che, per la prima volta, un po’ ovunque scoppiarono insubordinazioni e scioperi di un certo rilievo. Il malcontento, nelle famiglie italiane, era causato soprattutto dall’aumento del prezzo dei beni alimentari119; ma gli operai cominciarono a protestare anche

per le proprie condizioni di lavoro e per i salari. La città di Torino fu, ad agosto, protagonista di una rivolta generale – avente il proprio epicentro nei quartieri operai – da parte della popolazione contro l’aumento di prezzo dei beni di prima necessità e contro l’esaurimento delle scorte di pane120.

I segni che fosse venuto il momento di farla finita con la guerra furono colti dai socialisti anche grazie alla nuova consapevolezza rivoluzionaria da essi acquisita sul modello della

116 SP, p. 307.

117 Dal testo di una canzone popolare del 1906, che le mondine intonavano nelle risaie fra Novara e Vercelli. 118 Nel gennaio del 1915 Lenin, prendendo atto dell’espulsione dei riformisti come Bissolati dal Psi, si disse

fiducioso che i rivoluzionari rimasti nel partito, muovendo «guerra alla guerra», «face[ssero] i preparativi per la

guerra civile» (cit. in Spriano, Sulla rivoluzione italiana, cit., p. 27).

119 L’inflazione dei prodotti agricoli aveva due principali cause: la produzione agricola era diminuita in generale;

gli acquisti fatti dal governo per il necessario invio di alimenti al fronte aveva reso scarse le quantità di prodotti presenti sul mercato ‘civile’ (Banti, L’età contemporanea. Dalla Grande Guerra a oggi, cit., pp. 14-15).

120 Quello stesso anno si era stabilita in 300 grammi la razione pro capite di pane giornaliera. La tensione sociale

aumentò dopo che divenne sempre più frequente la mancata consegna di farina ai fornai, al punto tale che il prefetto fu costretto a chiedere al governo di Roma, senza ottenere approvazione, di applicare alla città di Torino e provincia il codice militare di guerra. Alla rivolta, che durò dal 22 al 28 agosto e a cui parteciparono in gran numero le donne, seguì una repressione che portò all’arresto di molti operai e all’invio al fronte di molti di quelli che erano stati esonerati perché impegnati nella produzione

35 Rivoluzione d’Ottobre. Fu, in effetti, da questo momento che il rapporto tra Lenin e il Partito socialista italiano si fece più stretto, e ciò era testimoniato dalla fitta corrispondenza in cui essi si intrattennero nel biennio ’19-’21121. Nel convegno segreto di Firenze del novembre del

1917 (cui Gramsci partecipò come osservatore) emerse che si stava formando una nuova sinistra intransigente rivoluzionaria, tenacemente opposta alla linea tendenzialmente centrista adottata dalla direzione del partito122. Ma i frutti di questa nuova attitudine si

sarebbero visti più avanti, dopo la guerra.

Gobetti restava comunque molto scettico rispetto alla possibilità di replicare gli avvenimenti della Rivoluzione russa in Italia, per via del diverso contesto storico che contraddistingueva queste due realtà.

Della rivoluzione sovietica egli apprezzava la liquidazione dello zarismo, così come il fatto di aver favorito la formazione di una coscienza politica nella popolazione. D’altra parte, delle riforme approvate in quel periodo in Russia come l’«abolizione della proprietà fondiaria», la «ripartizione ugualitaria delle terre in usufrutto ai lavoratori», il passaggio allo Stato «delle foreste, sottosuolo e acque, bestiami e materiale», l’«introduzione del controllo degli operai sulle aziende», il «passaggio delle banche sotto il possesso dello Stato», l’«istituzione del lavoro generale obbligatorio», la «formazione di un esercito rosso di operai e contadini» e il parallelo «disarmo degli abbienti»123, Gobetti approvava il contenuto, ma non i metodi violenti

con cui quest’ultimo era stato attuato. Facendo operare la politica separatamente dall’economia, argomentava, i rivoluzionari russi avevano privato il marxismo della sua essenza. Ciò che, a proposito della Russia, spinse Gobetti a parlare di «degenerazione», era il fatto che la rivoluzione bolscevica si fosse data una connotazione prevalentemente «politica» andata «a danno del suo sostanziale contenuto economico e morale». L’obiettivo comunista di collettivizzare la proprietà, realizzato in un paese impoverito, estenuato dalla guerra e disorganizzato, non aveva portato ai risultati di progresso sperati, ed aveva, anzi, inasprito il conflitto sociale, perché era stato fatto prematuramente ed era stato condotto dalla minoranza della popolazione. Gli stessi contadini che, grazie alla ridistribuzione delle terre voluta dai bolscevichi, si erano arricchiti, venivano in odio allo Stato comunista in quanto rifiutavano di consegnare i prodotti del loro lavoro agricolo al governo. Oltre a ciò, ci si era trovati a fare i conti con un regime bolscevico centralizzato e appesantito da una burocrazia costosa al pari di quella zarista, che pure da esso era stata abbattuta.

121 Per approfondimenti, si vedano: Vladimir Il'ič Lenin, Sul movimento operaio italiano, Editori Riuniti, Roma

1976; Helmut König, Lenin e il socialismo italiano 1915-21. Il Partito socialista italiano e la Terza Internazionale, Vallecchi, Firenze 1972; Spriano, Sulla rivoluzione italiana, cit.

122 Turati, a giudicare dal tono della lettera che scrisse a Corradini nell’agosto del 1917, sembrava esserne

preoccupato: «Noi siamo in un periodo che si va facendo, per la stanchezza della guerra, ogni giorno più difficile. Nelle masse socialiste la tendenza sabotatrice, che fin qui potemmo contenere con sufficiente fortuna, acquista vigore e decisione» (cfr. Spriano, Sulla rivoluzione italiana, cit., p. 39).

36 Gobetti restava convinto che «Per la socializzazione occorre[sse] qualcosa da socializzare»124, mentre, in questo caso, l’appoggio popolare ai rivoluzionari e il conseguente

successo della teoria di Lenin, erano stati favoriti, evidentemente, dall’odio nei confronti di uno zar ritenuto responsabile dell’entrata in guerra della Russia.

Nondimeno, nel controbattere a quanti fra gli interpreti italiani giudicassero la rivoluzione russa solamente a partire dai «fatti» negativi che ne erano conseguiti, – «difficili condizioni di vita nel nuovo regime», «fame», «freddo» – Gobetti esponeva la considerazione che non fosse possibile comprendere il significato della lotta politica russa se non la si fosse riportata ad una specifica «preparazione, mistica e pratica», un «movimento di pensiero e di propaganda che portò in Russia alla rivoluzione del 1905 e poi a quella del 1917»125.

Ciò che Gobetti esaltava dell’esperienza rivoluzionaria russa, dunque, era la predisposizione al cambiamento preparata nella popolazione dal «rivoluzionarismo dell’intellighenzia [partiti socialisti rivoluzionari] e dei contadini» che, per quanto astratto nelle premesse, funse da «potente molla d’azione»126. Uno spirito rivoluzionario difficilmente

rinvenibile in Italia, dove la socializzazione delle prospettive tendeva a realizzarsi sempre in modo interessato. Laddove, in Russia, i bolscevichi avevano tentato, ed ottenuto, di causare una rottura del quadro politico tradizionale, per rimettere lo Stato nelle mani delle classi lavoratrici, in Italia uno Stato liberale che si assumesse il compito di garantire il rispetto dei diritti dei lavoratori già esisteva; gli spazi per realizzare una collettivizzazione degli interessi, perlomeno sul piano teorico, erano stati già predisposti. D’altronde, – era questo il giudizio di Gramsci127 – poteva darsi che fosse proprio la connotazione liberale del quadro istituzionale

italiano a fare da ostacolo all’azione rivoluzionaria del Partito socialista, a inibire la sua vena contestatoria.

La diversità delle condizioni economiche e politiche e la mancanza, in Italia, di una sinistra schiettamente rivoluzionaria, spinsero, dunque, Gobetti a considerare che una imitazione della Rivoluzione russa e l’instaurazione di un socialismo di Stato avrebbe avuto il valore di una inutile «scimmiottatura»128 che avrebbe potuto addirittura nuocere al proletariato. Era

infatti convinzione di Gobetti – e anche di Gramsci – che il socialismo in Italia non potesse assumere altre forme che quelle di uno «sfruttamento utilitario delle etiche solidaristiche e socialiste»129 a tutto vantaggio delle classi medie socialiste che dirigevano le masse proletarie

e contadine senza mai realizzare con loro una fusione, una reale comunanza d’intenti. 3.3 Il ‘biennio rosso’ dei lavoratori

124 Ibid.

125 Ivi, pp. 197-198. 126 Ivi, p. 200.

127 Se era vero che «Il Partito socialista e[ra] il partito degli operai e dei contadini poveri», era altrettanto vero

che, in Italia, esso fosse «Sorto nel campo della democrazia liberale […] come una delle forze sociali che tendono a crearsi una base di governo e a conquistare il potere di Stato per rivolgerlo a beneficio dei loro» (ON, p. 389).

128 SP, p. 152.

Nel documento Piero Gobetti. Un liberale rivoluzionario (pagine 31-41)