III. GRAMSCI E GOBETTI: DUE INTELLETTUALI ‘ORGANICI’ A CONFRONTO
1. Due liberali ‘sui generis’
2.4 Questione italiana e questione meridionale
Era comune, nel pensiero degli autori sin qui presi in considerazione, la constatazione della continuità del problema del Mezzogiorno con quello nazionale. Se Gramsci prospettava la «questione meridionale» come «uno dei problemi essenziali della politica nazionale»417,
Dorso era più radicale nell’attestare la completa sovrapposizione dei due problemi: per lui la «questione italiana e[ra] la questione meridionale»418. L’intellettuale campano vedeva
nell’insieme delle idiosincrasie del Mezzogiorno italiano una proiezione, su scala ridotta, dei problemi che affliggevano l’intera nazione. La vicinanza e la familiarità con l’ambiente fatto prevalentemente oggetto dei suoi scritti permetteva a Dorso di soffermarsi con estrema lucidità su tale contesto. Il Sud Italia assumeva i contorni di un laboratorio dove lo Stato italiano aveva lasciato più impunemente sfogare le proprie contraddizioni, tanto che lo stesso
414 ON, p. 23. 415 SP, p. 475. 416 Ivi, p. 476. 417 QM, p. 134.
105 autore non esitò a paragonare la metà inferiore della penisola ad una «colonia»419 allestita a
bacino inesauribile di privilegi goduti da una esigua minoranza.
Gobetti, all’indomani della vittoria socialista alle elezioni del ’19, enunciava che il criterio da adottare per risolvere la crisi italiana fosse l’«unità». Laddove potesse sembrare che, nel pensar questo, Gobetti rinnegasse tutte le riflessioni sulla mancata rivoluzione del Risorgimento, fatto oggetto di critica in quanto aveva anteposto l’interesse dell’unità a quello della libertà, va precisato che la sua polemica era diretta contro un tipo particolare di unità, quella raggiunta sulla base del compromesso. L’accordo stipulato tra monarchia e borghesia piemontese aveva, infatti, inficiato alla base il processo di unificazione nazionale che, per potersi dire veramente unitario, avrebbe dovuto culminare nell’elezione di un «governo conciliatore e dialettizzatore di tutte le realtà sociali» che, in quanto tale, «prescinde[sse] da tutte le idee date a priori»420. Il fatto che, al contrario, gli interessi particolari di una classe
sociale si fossero imposti su tutti gli altri e, per potersi far forti di un allargato consenso, avessero strumentalizzato l’universalità degli obiettivi, aveva fatto sì che lo Stato italiano poggiasse su fragili fondamenta, sorretto da una sola parte della società senza che la parte restante vi potesse dare il suo apporto. Il «disastro» del dopoguerra toccava il suo apice nel «cozzo tremendo, inevitabile in regime protezionista e dispendioso, tra Nord e Sud». Per mantenere l’unità nazionale, rinnovandone i presupposti, la necessità più stringente era di «[a]iutare i contadini meridionali a sgominare e demolire i privilegi osceni delle minoranze settentrionali»421. Inserendo la questione meridionale nel contesto più ampio della crisi
nazionale, le riflessioni di Gobetti permisero di guardare con occhi nuovi alle problematiche del Mezzogiorno, e di rinnovare l’interesse generale nei confronti di esse legandone la soluzione a quella da ricercare per lo Stato italiano.
Lo Stato aveva rinunciato sin dall’inizio a comprendere una realtà, quella meridionale, che presentava i caratteri tipici delle regioni passate sotto molteplici domini, in cui era stato favorito, cioè, lo stratificarsi di una cultura tanto più diversificata quanto più difficilmente penetrabile. Proprio per la sua resistenza a tutti i tentativi di semplificazione, il Mezzogiorno italiano era stato condannato a vivere una vita al di fuori delle istituzioni. Dorso, nella descrizione ideale che faceva delle vicende storiche del Sud Italia, cercò nel passato le ragioni dell’accumulazione del privilegio andata ai danni del Sud, vedendo in essa una conseguenza del progressivo allontanamento delle classi sociali più facoltose dall’interesse concreto per la produzione a fronte del più direttamente remunerativo versante speculativo. Ai normanni egli riconosceva la fondazione del Regno di Sicilia (che comprendeva anche il napoletano) e l’introduzione in esso delle arti e delle manifatture, tra cui quella principale della seta, così come l’istituzione delle libere università. Federico di Svevia diede continuità alle precedenti innovazioni puntando sullo svilimento dei soprusi feudali attraverso la realizzazione di una
419 Ivi, p. 212. 420 SP, pp. 176-177. 421 Ivi, pp. 176-178.
106 politica amministrativa decentrata affidata al controllo di funzionari – i baroni, ai quali era demandato l’esercizio della sola giurisdizione civile – ma rigidamente controllata dal sovrano. Successivamente, con l’arrivo dei Borbone dalla Francia, il tentativo di porre «riparo alle offese recate dalla giustizia baronale»422 si tradusse nella redistribuzione delle terre: i baroni,
infatti, lungi dal rispondere della missione di giudici civili assegnata loro dal sovrano, avevano progressivamente privatizzato i profitti derivanti loro dall’incarico. Di tale riforma borbonica l’antica classe proprietaria, la sola che avesse le risorse utili a coltivare in modo redditizio i terreni del demanio, fu la prima a trarre a vantaggio. Le cosiddette «leggi eversive della feudalità», sulla falsariga dei provvedimenti borbonici, furono emanate da Giuseppe Bonaparte con il rinnovato proposito di sottrarre i beni demaniali alla millenaria usurpazione di cui erano stati fatti oggetto e di rimetterli sotto la campana del sovrano. Ma l’oggettiva impossibilità di mantenere, dal centro, un diretto controllo sulle numerose autonomie locali, finì per essere sfruttata, questa volta, dai nuovi intraprendenti ceti borghesi rurali, composti non solo di proprietari terrieri, ma anche di magistrati, avvocati, medici ed impiegati. Così, la questione delle terre, si risolse, nel Sud Italia, nella generale immutata tendenza ad una «maggiore e più intima appropriazione delle fonti di produzione della ricchezza». La borghesia rurale sostituitasi alla vecchia signoria feudale mantenne sostanzialmente le stesse funzioni di quest’ultima «contrapponendosi, con eguale tenacia, allo sforzo di rivendicazione delle classi più umili»423. L’inesorabile sconfitta nella lotta per liberare la terra ebbe come
contrappunto lo scacco nella lotta per liberare gli uomini. I responsabili di questa storia di accrescimento dei privilegi dei ceti proprietari, che fu direttamente proporzionale all’erosione dei diritti dei ceti proletari, vennero individuati nelle persone che, a diversi livelli, muovevano i fili di uno Stato che era, a tutti gli effetti, un «organo del privilegio»424. È interessante notare
che gli stessi motivi che Dorso adduceva per manifestare l’indifendibilità dello Stato e sostenere che «non si può aspettar salute dall[a] [sua] azione riformatrice»425 erano riportati
dal Salvemini socialista riformista, il quale dichiarava, a proposito del dazio sul grano, che, se in seguito alla sua abolizione sarebbe stato lecito aspettarsi una crisi di produzione, fosse più importante considerare i benefici che essa avrebbe apportato a lungo termine per tutta la nazione. Prescindendo dalle diverse tattiche politiche da essi difese, la metodologia critica di Salvemini risultava essere la stessa di Dorso: entrambi guardavano alla situazione meridionale astraendo dal loro ‘meridionalismo’ e consideravano le problematiche che opprimevano il Sud Italia come risultato di un insieme di processi di portata nazionale.
Nel riferimento al carattere nazionale che avrebbe connotato l’auspicata rivoluzione del Meridione il nesso con le riflessioni di Gramsci e di Gobetti era immediatamente stabilito. Il bersaglio tornava ad essere lo Stato liberale, che aveva strumentalizzato il pregiudizio sulla
422 Dorso, op. cit., p. 112. 423 Ivi, pp. 113-114. 424 Ivi, p. 207. 425 Ivi, p. 209.
107 barbarie del Mezzogiorno, considerata la «palla di piombo che impedi[va] più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia»426, per mantenere la produzione in un forzato stato di inerzia
ad interesse di una sterile casta di proprietari privilegiati che lo Stato proteggeva. Tuttavia, la classe lavoratrice agricola, proprio per via della sua esclusione dalla cerchia dei privilegi statali, rappresentava, secondo Dorso la sola «grande riserva» in grado di distruggere il trasformismo. In quanto oppressa essa era potenzialmente rivoluzionaria, tant’è vero che lo stesso «comunismo», la cui natura era essenzialmente urbana, si era spinto fuori dai propri confini per «chiedere presidio all’agricoltura»427. Tali considerazioni trovavano conferma
nelle parole di Gramsci quando egli scriveva che la «rigenerazione economica e politica dei contadini» doveva essere ricercata nella «solidarietà del proletariato industriale, che ha bisogno, a sua volta, della solidarietà dei contadini»428. Le risorse umane utili ad iniziare la
rivoluzione contro lo Stato burocratico-accentratore italiano erano quindi reclutate presso le masse che più caro avevano pagato il prezzo dell’industrializzazione selettiva della produzione nazionale.
Come nel caso della rivoluzione prospettata nell’ambito operaio industriale, anche in quello della rivoluzione meridionale che vedeva protagonisti i lavoratori agricoli, l’obiettivo di lungo termine era quello di realizzare uno Stato di produttori, uno Stato, cioè, dove ad assumere posizioni di dirigenza politica fossero, di preferenza, le persone in grado di mantenere un contatto diretto con i processi produttivi nella loro concretezza e che, quindi, potenzialmente, conoscessero il modo di far fruttare le risorse industriali ed agricole quel tanto che serviva perché esse rispondessero ai bisogni della società, eludendo la possibilità di accumulare privilegi. Gobetti rispondeva al problema della imperversazione dei privilegi diretti alle classi borghesi improduttive del Sud con la soluzione dell’«abolire gli ultimi resti di feudalesimo che rimangono nelle coscienze»429. Prima di pensare ai concreti provvedimenti economici e
politici da prendere per risollevare, assieme a quelle del Meridione, le condizioni dell’Italia intera, occorreva, cioè, allargare «l’orizzonte ristretto delle idee e dei bisogni»430. Gobetti
rifletteva sulle opportunità che una politica alleggerita dai muri eretti con le protezioni economiche, col privilegio e con le «transazioni di transazioni»431 avrebbe potuto dischiudere
per l’Italia e sui benefici che da tale liberazione sarebbero derivati per il Mezzogiorno, per il quale, forse, in questo modo, si sarebbe potuto evitare di parlare come di una «questione».
426 QM, p. 135.
427 Dorso, op. cit., p. 192. 428 ON, p. 318.
429 SP, p. 509. 430 Ivi, p. 507.
431 In questi termini, nel suo discorso al congresso socialista del 1908, Salvemini parlava dell’usuale metodo di
108 3. La questione degli intellettuali
Introduzione
Dare una nuova fisionomia alla riflessione filosofica a partire dalla rinnovata atmosfera instauratasi negli ambienti della produzione: fu questo l’obiettivo delle riflessioni di Gramsci e Gobetti sul nuovo status dell’educazione e della cultura in Italia dopo gli avvenimenti del ‘biennio rosso’432. L’intraprendenza degli operai aveva dato motivo di pensare che fosse
giunto il momento di licenziare gli intellettuali tradizionalmente legati all’ideologia dei gruppi dominanti dalla loro posizione distaccata dalle masse, per metterli in collegamento con intellettuali di tipo nuovo, quelli che, come Gramsci, guardavano con interesse ed ammirazione agli esperimenti socialisti condotti nelle fabbriche torinesi. A Gobetti Gramsci riconobbe di avere incarnato proprio questo ruolo di intermediatore e, se la morte prematura non gli permise di portare a compimento tale compito, nondimeno a lui ascrisse il merito di avere iniziato a scalfire l’imponente blocco agrario che costituiva la base più anticamente sedimentata delle classi sociali privilegiate italiane, le quali per tradizione procuravano alle aristocrazie intellettuali una parassitaria occupazione.
Accomunava Gramsci e Gobetti la visione di un nuovo tipo di educazione scolastica, potenzialmente capace di formare le future classi dirigenti non più sulla base di una scissione tra teoria e prassi ma contemperando i due ambiti tradizionalmente distinti nell‘unica prospettiva di una ‘filosofia pratica’: una filosofia che non si limitasse, cioè, come pensava Croce, a sostare nella astratta posizione di una «indagine che non si stanca»433, ma che fosse
altresì in grado di attraversare la soglia della realtà e di confrontarsi con i problemi delle masse.