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Il liberalismo e la «bellezza della lotta»: Gobetti e Gramsci attraverso Einaud

Nel documento Piero Gobetti. Un liberale rivoluzionario (pagine 92-98)

III. GRAMSCI E GOBETTI: DUE INTELLETTUALI ‘ORGANICI’ A CONFRONTO

1. Due liberali ‘sui generis’

1.3 Il liberalismo e la «bellezza della lotta»: Gobetti e Gramsci attraverso Einaud

Fatto oggetto di contrattazione economica, il lavoro, entro le istituzioni liberali, era stato reso politicamente inoffensivo. Ma, si è visto, la dimostrata capacità di dirigere autonomamente i luoghi della produzione aveva rappresentato il battesimo politico della classe lavoratrice, che era intenzionata a trascinare con sé sempre più larghi strati di popolazione alla conquista del potere. L’impossibilità di continuare a pensare lo scenario politico prescindendo dall’apporto delle «masse», dunque, rendeva necessario trovare una nuova direzione politica che rappresentasse opportunamente a livello nazionale l’apertura del varco sociale attuata dai lavoratori. Pertanto, l’iniziazione politica di questi ultimi veniva a precisarsi, per Gramsci e per Gobetti, con la altrettanto importante necessità di ripensare i fondamenti del «liberalismo», di cui i lavoratori sarebbero stati i nuovi originali interpreti e i più diretti beneficiari.

Occorre precisare che le riflessioni gramsciane e gobettiane non erano, come forse avrebbe pensato Croce363, di tipo meccanicistico: non facevano, cioè, della politica una semplice

derivazione dell’economia. Economia e politica si muovevano, bensì, su piani intersecati, al punto che diventava impossibile definire l’una prescindendo dalla caratterizzazione dell’altra. Per questo molte delle critiche che essi portavano al liberalismo inteso come sistema politico non tralasciavano le ricadute economiche di esso, indipendentemente dal fatto che fosse presente un esplicito riferimento al «liberismo».

Ciò che veniva innanzitutto rifiutato dai due fautori del nuovo ‘liberalismo proletario’ era la concezione delle masse della popolazione più povera come classi strumentali, concezione che anche i loro maestri Croce ed Einaudi, liberali illuminati, avevano fatta propria364. Questo

tema, presente nella tradizione di pensiero liberale, aveva legittimato il «monopolio proprietario dei diritti politici» detenuto dalle classi dirigenti borghesi365. Il problema della

362 Ivi, p. 109.

363 Secondo Benedetto Croce, l’«intrinseco carattere materialistico del comunismo» - carattere che

differenzierebbe quest’ultimo dal «liberalismo» - sarebbe visibile nella sua «concezione della economia come fondamento e matrice di tutte le altre forme della vita». Ma, sempre secondo Croce, una società così pensata si ridurrebbe alla stregua di un «meccanismo», che, a differenza della «vita organica e spirituale», non sarebbe in grado di regolarsi e sospingersi da sé, avendo sempre bisogno di un primo motore che ne controlli il movimento (cfr. Id., Le fedi religiose opposte, in Id. e Luigi Einaudi, Liberismo e liberalismo, Edizione speciale per Corriere della Sera, Milano 2011, pp. 48-49).

364 Croce parlava delle «masse» riferendosi ad una «classe, sia pure grande o grandissima, che rimane estranea o

quasi ai problemi della vita pubblica e morale» (Id., Principio, ideale, teoria. A proposito della teoria filosofica della

libertà, in Id. e Einaudi, op. cit., p. 58); dal canto suo Einaudi, riferendosi alla necessità di mantenere l’«igiene» e la

«pace sociale» sorvolava evidentemente sul problema di ripensare l’autorità dello Stato che operi in modo non paternalistico nei confronti della popolazione lavoratrice più povera (Id., Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano 1983, p. 804).

92 libertà andava ora riformulato a partire dalla garanzia della disponibilità di condizioni di partenza, economiche e politiche, uguali per tutti. L’associazionismo operaio costituiva, per Gramsci, un primo tentativo per uscire dalle condizioni di disuguaglianza presenti nella società: esso rappresentava «il fatto essenziale della rivoluzione proletaria», appunto in quanto permetteva al lavoratore di difendersi dall’esposizione ai «contraccolpi bruschi delle variazioni del mercato di lavoro»366, quei contraccolpi che gli impedivano, già in partenza, di

essere un individuo capace di concorrere liberamente con tutti gli altri. Il principio della coalizione tra i lavoratori non era messo in discussione; semmai, a dover essere cambiate erano le forme, logorate entro il sistema parlamentare borghese, dell’associazionismo proletario.

Dopo i fatti eclatanti di Torino, lo Stato era tenuto a riconoscere che i lavoratori erano in grado di dirigere autonomamente la fabbrica. Constatato questo fatto, la classe lavoratrice, operaia e contadina, doveva essere messa nelle condizioni di concorrere liberamente con le altre classi sociali, condizioni che, fino alla fine della guerra, non le erano state garantite. La classe dei produttori – la categoria del lavoro, più in generale – era stata, infatti, considerata fino a quel momento una semplice appendice della macchina industriale e/o della proprietà terriera signorile, e ad esse doveva rispondere.

La soluzione liberistica da attuarsi in favore della classe lavoratrice venne prospettata da Gramsci e da Gobetti prendendo spunto dalle riflessioni fatte dal loro comune maestro Luigi Einaudi. Come Einaudi, Gramsci e Gobetti erano, sul piano economico, anti-protezionisti. Quando Einaudi scriveva essere «difficilissimo, per non dire impossibile, scoprire […] l’industria giovane la quale, sostenuta nei primi anni dai dazi contro la concorrenza estera, giungerà a vivere di vita propria»367 scagliandosi contro i provvedimenti presi, a suo tempo,

da Giolitti368, la prospettiva adottata era coincidente con quella dei due intellettuali.

Ma la fredda reazione di Einaudi alla presa del potere da parte degli operai delle industrie Fiat nel ’20, non impedì a Gobetti di rivoltare frasi come «Liberale è colui che crede nel

perfezionamento materiale o morale conquistato collo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d’accordo con altri»369 contro il loro stesso autore. Il fatto di non aver

riconosciuto come legittimo lo sforzo operaio di prendere le redini della produzione, costituiva, agli occhi di Gobetti, il «torto essenziale» della visione politica di Einaudi. Il «movimento operaio», nella riflessione gobettiana, si presentava infatti come «un mirabile esempio di liberismo»370. In modo analogo a Gobetti, Gramsci prese le distanze dal suo

maestro quando venne in luce la limitatezza del suo programma nel rivolgersi esclusivamente

366 ON, p. 14.

367 Luigi Einaudi, Liberismo e liberalismo, in Croce e Einaudi, op. cit., p. 98.

368 In ambito industriale, Giolitti favorì la continuità della protezione doganale da parte dello Stato sui settori

siderurgico, zuccheriero, cotoniero, navale, metallurgico; in ambito agricolo, misure analoghe di protezione furono prese con l’adozione del dazio sul grano (cfr. Carocci, op. cit., pp. 45; 53).

369 Einaudi, Scritti economici, storici e civili, cit., p. 834. 370 SP, p. 329.

93 alla classe industriale e alla classe dirigente affinché si impegnassero nel realizzare la libertà (libertà commerciale). Il suo approccio, come quello di tutta la scienza economica liberale, se anche partiva da premesse generali condivisibili – la libertà si realizza a partire dalla libera concorrenza (politica ed economica); la libera concorrenza si attua laddove gli uomini siano messi nelle condizioni migliori per competere –, finiva per studiare i «fatti» e trascurare gli «uomini»371. In altre parole, lo studio documentato dei flussi commerciali e finanziari avrebbe

finito per fare della produzione e dello scambio fenomeni fini a se stessi e, in fin dei conti, dipendenti innanzitutto dalla volontà e dalle disponibilità economiche del capitalista. La posizione di Einaudi assumeva, tanto per Gobetti quando per Gramsci, un carattere angusto per il fatto di auspicare la realizzazione della libertà economica nel solo ambito della proprietà dei mezzi di produzione, trascurando l’opposto versante degli uomini addetti alla loro ri-produzione.

La constatazione che le industrie, quelle di piccole e medie dimensioni, non fossero state messe nelle condizioni di crescere e di realizzare un efficace collegamento con la produzione agricola, non doveva permettere di trascurare il fatto che, parallelamente, ad essere stati privati della libera iniziativa fossero anche i lavoratori. Secondo Gramsci, la guerra aveva rivelato la sostanza illiberale di uno Stato che non aveva saputo comporre equilibratamente le esigenze provenienti dalle diverse forze operanti nella società. La situazione creatasi alla fine del conflitto mondiale aveva rivelato il carattere artificioso delle promesse liberali fatte alla fine del Risorgimento, facendo apparire lo «Stato» nella sua «funzione essenziale di distributore di ricchezza ai privati capitalisti»372.

Einaudi aveva impartito a Gramsci e Gobetti lezioni di liberalismo anche dal punto di vista politico. Egli riponeva la sua fiducia nel fatto che solo una politica lasciata al gioco delle organizzazioni sorte spontaneamente sul terreno sociale avrebbe risolto la crisi, etica anzitutto, italiana. Ciò che Gramsci e Gobetti apprezzavano soprattutto del liberalismo politico di Einaudi era la sua avversione verso il ruolo di ‘intermediario per secondi fini’ che lo Stato italiano aveva assunto sino ad allora. La sua lezione, contraria alla «intermediazione degli sfaccendati politici pronti a risolvere i conflitti con l’arbitrato»373 risuonava nelle parole di

Gramsci, quando quest’ultimo, elogiando la spontaneità insita nel movimento operaio, ascriveva allo «sforzo di liberazione» da esso compiuto il carattere fondamentale dell’essersi attuato «senza intermediari, senza delegazioni di potere a funzionari e a politicanti di carriera»374. Il riflesso di queste considerazioni era ben evidente anche nelle parole di Gobetti,

il quale descriveva l’azione compiuta dalla classe lavoratrice come rappresentativa dello «spirito autonomista e antiburocratico che presiede al risveglio operaio»375.

371 ON, p. 233. 372 Ivi, p. 234.

373 Einaudi, Scritti economici, storici e civili, cit., p. 833. 374 ON, p. 141.

94 Se tutt’e tre gli intellettuali di comune formazione liberale alla scuola torinese concordavano nel considerare l’autonomia e la spontaneità dell’azione dei singoli e dei gruppi come caratteri fondamentali per inaugurare una nuova politica che riconquistasse all’Italia il carattere liberale rimasto inespresso, tuttavia, la reazione positiva che Einaudi376 ebbe alla

vigilia della marcia su Roma, quando Mussolini promise che, sotto il suo potere, lo Stato avrebbe dovuto rinunciare al ruolo di banca di credito degli industriali per lasciare libertà d’azione all’iniziativa privata, contribuì certamente a far allontanare Gramsci e Gobetti dal massimo rappresentante dell’ambiente liberale entro il quale erano stati educati. Evidenti segni di distanza fra le concezioni del liberalismo di Einaudi e quelle dei due più giovani ‘rivoluzionari liberali’ erano, comunque, già riscontrabili a partire da quanto il primo scriveva nel 1897, quando affermava che fosse opportuno chiedere agli operai tessili del Biellese di «adattarsi», «per un tempo indefinito futuro», alle «inesorabili leggi del minimo costo» e della «concorrenza»377. Vista la crisi in atto, infatti, i quantitativi previsti di produzione di lana non

potevano subire contraccolpi; pertanto il piano di lavoro previsto dall’industriale per i suoi dipendenti non doveva essere messo in discussione. È solo un esempio di come per Einaudi la libertà dovesse essere conquistata, innanzitutto, a livello dirigenziale, da parte di quelle persone che già detenevano il potere. Se per quest’ultimo si rendeva necessario delimitare nuovi confini, esso non andava sottratto ai tradizionali detentori; per Gramsci e Gobetti, invece, la conquista della libertà avrebbe coinciso con l’assunzione del potere da parte dell’altro polo della società, quello che reggeva le sorti materiali della produzione, e quindi, di fatto, della sopravvivenza della società stessa. Quando poi Einaudi parlava dell’«igiene», della «pace sociale» e della «preservazione della razza» come dei «supremi principii»378 facendo

riferimento ai quali il governo doveva trovare delle soluzioni di contenimento delle rimostranze degli operai industriali della lana negli scioperi scoppiati nell’autunno del 1897 nel Biellese, la distanza fra le due generazioni di liberali si faceva ancor più decisamente marcata. In fondo, in queste ultime dichiarazioni riportate, Einaudi sembrava contraddire il fondamento teorico della sua predicazione liberale: quello della necessità e della «bellezza della lotta»379 che nel suo pensiero Gramsci e Gobetti maggiormente apprezzavano. Lo stesso

Gramsci additava proprio ai vecchi liberali, quei politici di cui l’Italia doveva liberarsi per uscire dalla crisi, la responsabilità di aver governato sostituendo al problema della «ricostruzione» quello astratto ed opportunistico della «pace sociale», sostenendo che fosse necessario realizzare una «solidarietà d’interessi»380 fra capitalisti e lavoratori – alleanza

376 «Tutto ciò è liberalismo classico, della marca più antica e pura»: questo il commento in cui Einaudi, che pure

di lì a poco sarebbe diventato uno dei liberali antifascisti più agguerriti, proruppe (cit. in Seton-Watson, op. cit., p. 798).

377 Einaudi, Scritti economici, storici e civili, cit., p. 794. 378 Ivi, p. 804.

379 Così recita il titolo di un suo saggio presente in ivi, pp. 833-843. 380 ON, p. 297.

95 fortemente auspicata dallo stesso Einaudi – e ponendo così le basi per la futura ideologia del ‘corporativismo’ fascista.

La critica einaudiana aveva inferto duri colpi alla tendenza, tipica nei politici italiani, a soddisfare le esigenze del sistema istituzionale attraverso i trasformismi e le alleanze più spericolate. Senonché tali critiche non avevano suscitato in lui una visione in positivo, sorta invece sia in Gramsci che in Gobetti, di come il lavoro potesse costituire la nuova frontiera della liberazione sociale.

In conclusione, ciò che Gramsci e Gobetti salvarono della visione economica e politica di Einaudi fu che il motore della nuova battaglia liberale dovesse essere la lotta di classe. Su quale, poi, delle classi dovesse esserne la promotrice, le divergenze fra il secondo ed i primi erano evidenti. Gobetti riferiva di come, in effetti, l’«economia liberale» potesse «dare i suoi servigi» alla causa della rivoluzione proletaria proprio per la sua tendenza a dialettizzare le diverse forze presenti nella società; ma lui stesso restava consapevole che l’economia liberale «non si p[otesse] accettare come unico tipo e legge dell’economia italiana»381. Come la

concorrenza liberale potesse giovare alla classe lavoratrice non era detto con precisione né da Gramsci né da Gobetti. Certezza da essi condivisa era che la classe lavoratrice dovesse necessariamente porsi alla testa di un movimento di liberazione nazionale: entrambi fissarono il loro sguardo sull’unicità del momento di rottura del vecchio sistema liberale che proprio i lavoratori realizzarono. Di certo c’era per loro, contro Einaudi, che la liberazione non doveva seguire il canovaccio del vecchio liberalismo che aveva fatto della formula «il sacrifizio

da parte del proletariato»382 il proprio cavallo di battaglia.

381 SP, p. 191.

382 Gramsci, Tre principii, tre ordini, in La città futura, 1917

96 2. La rivoluzione meridionale

Introduzione

La illibertà, sottesa prima ai metodi del processo di unificazione dell’Italia e operante successivamente nelle transazioni parlamentari dell’Italia unita, era per Gramsci e Gobetti particolarmente evidente e recriminabile nell’atteggiamento che lo Stato liberale continuava a tenere nei confronti del Sud, dimostrando una essenziale incomprensione del problema agrario meridionale. Nel Mezzogiorno, infatti, non erano state investite energie e capitali utili ad impiantare un’industria; l’imperversante economia agricola dava pochi frutti a causa degli scarsi accorgimenti tecnici che la borghesia rurale adottava per migliorare la produzione: essa era più direttamente interessata ad approfittare del lavoro coatto dei contadini sul suolo di sua proprietà e, contemporaneamente, a farsi proteggere da parte del deputato ministeriale di turno cui, in cambio, elargiva laute ricompense.

Il problema della privatizzazione delle terre e dei profitti illeciti che da esse i proprietari terrieri, grandi e piccoli, continuavano a trarre, era direttamente collegato con quello, più generale, dell’isolamento economico, politico e culturale del Mezzogiorno italiano dal resto della penisola.

Oltretutto, i riflessi della politica di trascuratezza adoperata nei confronti del Meridione sarebbero stati ben più immediatamente visibili nella disintegrazione cui il corpo sociale soggiaceva nelle campagne. Negli anni, i diversi schieramenti politici avvicendatisi alla guida del Parlamento avevano collezionato una serie di errori che avevano fatto sì che si accumulasse nella psicologia dei contadini un desiderio di sovversione che, più avanti, solo il fascismo avrebbe efficacemente saputo raccogliere. Il Partito socialista, abilmente corteggiato da Giolitti, era stato soprattutto l’espressione di quelle aristocrazie operaie impiegate nelle industrie più fiorenti del Paese che godevano della protezione dello Stato, sottovalutando d’importanza l’apporto dei lavoratori agricoli per i benefici dell’economia nazionale. Il Partito popolare, seppure tentò, al contrario, di candidarsi alla rappresentanza delle economie agricole locali, in particolare di quelle che non godevano della protezione dello Stato, rimase sconfitto per la sua insufficiente penetrazione entro le maglie più strette del parassitismo proprietario agricolo.

Dal Risorgimento in poi la tendenza generale era stata quella a considerare la situazione del Sud Italia agricolo come distinta, e quasi inesorabilmente votata all’isolamento, dalla situazione del resto della penisola. Guido Dorso383, assieme a Gramsci e Gobetti, smascherò

abilmente le contraddizioni insite in questo falso pregiudizio, volutamente assurto a legge immodificabile e propagandato dalla politica istituzionale per delegittimare qualsiasi

383

Guido Dorso, intellettuale meridionalista, fu per alcuni mesi del 1915 collaboratore del Popolo d’Italia e, proprio in quell’occasione, fu notato da Piero Gobetti, il quale lo volle successivamente nella sua redazione de La

Rivoluzione Liberale, rivista per la quale, maturato il definitivo distacco da Mussolini e dal fascismo, Dorso

cominciò a scrivere dal 1923. I suoi contributi ebbero come riferimento costante la questione meridionale, la cui soluzione egli, con Gramsci, riteneva possibile solo realizzando un fronte unico dei contadini del Sud coi proletari del Nord. Associatisi, i lavoratori avrebbero potuto porre le premesse per una rivoluzione di livello nazionale.

97 tentativo da parte dei contadini meridionali di risollevarsi dallo stato di prostrazione in cui erano stati intenzionalmente tenuti.

Al contrario di quanto le élite politiche volevano far passare, che cioè il Mezzogiorno fosse «la palla di piombo» che impediva all’economia italiana di progredire, il rapporto asimmetrico stabilizzatosi fra Nord e Sud della penisola stava al cuore del problema culturale italiano. Gobetti constatava come l’immaturità politica degli italiani fosse tale che vi era addirittura l’«impossibilità di porre il problema nostro che determinerebbe ogni chiarezza, il problema dell’antitesi tra Nord e Sud»384.

L’isolamento delle classi produttrici agricole dalle vicende politiche ed economiche dell’Italia moderna aveva lasciato scoperta dalle tutele dello Stato liberale proprio quella che, per Dorso, si rivelava essere anche l’unica riserva umana rimasta estranea alle opportunistiche mediazioni politiche385. La classe lavoratrice contadina, tanto più isolata ed

oppressa quanto più potenzialmente unificatrice e rinnovatrice, rappresentava la sola possibile iniziatrice di una rivoluzione per la conquista della libertà nazionale.

Nel documento Piero Gobetti. Un liberale rivoluzionario (pagine 92-98)