II. LIBERTÀ E UGUAGLIANZA: GOBETTI E GLI AUTORI DEL LIBERALISMO CLASSICO
2. Mill: Sulla libertà individuale
«La libertà, come principio, non si applica a quelle situazioni che precedono il momento in cui gli uomini diventano capaci di progredire in virtù della discussione libera e tra uguali»: facendo derivare la libertà dall’uguaglianza, Mill sembrava segnare una inversione di tendenza rispetto a Locke. Ma l’apparente coincidere del concetto di libertà con quello di uguaglianza che asserzioni come questa il Saggio sulla libertà sembrava veicolare era subito smentito dal proseguire del ragionamento: «Fino a quel momento, gli uomini non possono far altro che prestare obbedienza assoluta a un Akbar245 o a un Carlo Magno», sovrani assoluti
entrambi che guidarono le popolazioni di cui erano a capo con il metodo della «costrizione». Invece, le «nazioni di cui dobbiamo qui occuparci»246, continuava Mill, sono progredite nei
loro metodi di governo in virtù della «convinzione» o della «persuasione»247. Dunque, solo
una ristretta cerchia di regioni del mondo occidentale – quelle che erano giunte ad affermare un regime politico rappresentativo del volere del popolo (Inghilterra, Stati Uniti, Francia in
primis) – poteva vantare agli occhi di Mill di trovarsi nella condizione atta a far coincidere la
libertà con l’uguaglianza.
Senonché, tale plauso evolveva in una critica al dispotismo in cui anche la sovranità popolare aveva finito per trasformarsi. Mill metteva in guardia dal considerare le situazioni in cui la libertà venga a coincidere con l’uguaglianza come latrici per ciò stesso di benessere.
L’approfondimento degli aspetti insidiosi dell’uguaglianza allorché con essa si pretenda di esaurire il concetto di libertà era mutuato dalle riflessioni di Tocqueville sulla «tirannia della
244 Laski, op. cit., p. 115.
245 Imperatore moghul dell’India nella seconda metà del XVI secolo.
246 Mill escludeva a priori quelle «società arretrate in cui la razza stessa può essere considerata come
minorenne» (cfr. Id., Sulla libertà, Bompiani, Milano 2015, p. 57).
67 maggioranza»248: tale considerazione fungeva da base per la dimostrazione del distinto e
superiore valore della libertà. La «sola libertà degna di questo nome», infatti, per Mill è quella «di perseguire il nostro bene a modo nostro»249. A tal punto la sfera individuale è considerata
quella privilegiata per l’affermazione e la difesa della libertà, che Mill sottoscriveva la massima di Humboldt per cui «fine dell’uomo […] è il potenziamento e lo sviluppo dell’individualità»250. Se l’individuo, con le sue preferenze intellettuali e pratiche, è il solo
autentico promotore dell’idea di libertà, il compito che Mill si assumeva con il suo saggio era di trascrivere i limiti rispetto alla sfera individuale a) dell’interferenza dello Stato; b) dell’influenza dell’opinione pubblica. La questione che lo scritto si propone di risolvere è come «realizzare l’equilibrio migliore tra l’autonomia individuale e il controllo sociale»251. Tuttavia
l’impressione è che la libertà nella sfera sociale non sia più veramente realizzabile, almeno non prima che siano state poste le condizioni per limitare preventivamente l’invadenza del potere della maggioranza sui singoli. La teorizzazione di tali limiti è utile a garantire lo sviluppo dell’«ambito specifico della libertà umana»: il «singolo individuo»252. La coscienza, il
pensiero, l’opinione, il sentimento, l’espressione, il gusto, la ricerca, il progetto e l’azione, l’associazione sono tutte forme in cui la libertà si esplica che devono essere tratte in salvo dall’invadenza della società – come fattore agente tanto a livello istituzionale quanto a livello di pubblica opinione – in modo da svilupparsi secondo la peculiare inclinazione conferita loro dall’individuo.
A questo punto, nella ipotetica situazione in cui a ciascuno fosse riconosciuta una piena autonomia nello sviluppo di tutti questi ambiti della libertà, sarebbe ancora credibile auspicare una derivazione della libertà dall’uguaglianza?
È Mill stesso a ragguagliarci sul significato che, di fatto, l’uguaglianza ha assunto nelle società moderne dotate di organismi rappresentativi: il principio di uguaglianza da essi avallato è fittizio, dal momento che si basa sul criterio della maggioranza, mentre il diritto a tacitare anche una sola opinione contraria non andrebbe legittimamente riconosciuto253 ad
alcuno. Era convinzione di Mill, infatti, che il criterio dell’unanimità non sia mai utile e che, laddove esso viga, rappresenti una falsa presunzione di infallibilità254.
La fiducia che Mill non riusciva a riporre nella volontà e nella libertà collettive era forse frutto della convinzione circa l’esistenza di una sostanziale incomunicabilità fra gli individui? La libertà che lui fu così attento a difendere dagli attacchi del potere esterno della collettività era una libertà soprattutto morale, derivante dalla volontà, per quanto lo stesso Mill nell’introduzione al testo si preoccupasse di precisare che «l’argomento […] non è la 248 Ivi, p. 41. 249 Ivi, p. 63. 250 Ivi, p. 187. 251 Ivi, p. 43. 252 Ivi, p. 61. 253 Ivi, p. 73.
68 cosiddetta libertà della volontà, […] ma la libertà civile o sociale»255. Non si vede come Mill
potesse fornire alla libertà un tale attributo, quando lui stesso, nel corso dell’opera, elencava tutti i fattori utili a sancire una distanza incolmabile tra la sfera della libertà e la sfera della società.
Il presupposto che Mill faceva valere come ragione di una distinzione così netta tra l’ambito sociale e quello individuale è la credenza che la società non sappia e non possa in ogni caso aiutare a perseguire il bene dell’individuo. «Un individuo» infatti «non può essere costretto o impedito a fare qualcosa per il fatto che ciò sarebbe meglio per lui». Questa affermazione sottintende un’altra credenza: che tra la società e l’individuo i rapporti siano all’insegna o della «forza fisica» (quella che si esplica sotto forma di sanzioni legali), o della «pressione morale». In altre parole, solo l’individuo può conoscere cosa sia per lui il bene e disporre i mezzi adatti al suo conseguimento, mentre «Il solo aspetto della condotta per cui si è responsabili di fronte alla società è quello che concerne gli altri»256. Il carattere strumentale
del ricorso ad un rapporto con gli altri membri della società, in quanto a quest’ultima venga assegnato il ruolo di regolatrice di conti fra le libertà reciprocamente invase dagli individui, è parzialmente mitigato dal fatto che Mill elencava, fra le libertà fondamentali che all’individuo devono essere garantite, la libertà d’associazione257. E tuttavia, anche in questo caso,
interviene una limitazione: le persone che devono essere lasciate libere di associarsi sono solo quelle «maggiorenni», dove l’aggettivo assume, in linea con i discorsi che Mill faceva altrove, una connotazione razziale e non solo relativa all’età.
Il fatto di identificare la libertà con il bene dell’individuo sembra, agli occhi di Mill, giustificare un passaggio dall’ambito dell’espressione delle opinioni e delle preferenze in generale all’ambito dell’azione, secondo la massima che agli uomini debba essere lasciata «libertà […] di agire in base alle loro opinioni, cioè di metterle in pratica nel corso della loro vita senza essere ostacolati fisicamente o moralmente dai loro simili»258. Anche il modo di
agire, oltre a quello di pensare e di esprimersi, in modo omologato agli altri non apporta alcun contributo al progresso umano. Tant’è vero che contro il «dispotismo del costume», cioè quell’assoggettamento alle tradizioni che presso alcune comunità inibisce il sorgere di soggettività spontaneamente creative, «l’unica fonte infallibile e permanente di progresso è la libertà, in quanto grazie a essa ci sono tanti possibili centri indipendenti di progresso quanti sono gli individui»259, ad ulteriore conferma del carattere individualistico della libertà
milliana. Del fatto che Mill pensasse ad un particolare ambito di azione ci viene data dimostrazione leggendo, poco più avanti, che la Cina, nonostante possa vantare, riguardo ai costumi, di essere una nazione di «grande talento» e di «grande saggezza», ha indotto i suoi abitanti a rimanere «statici» al punto tale che «se mai faranno ulteriori progressi, sarà grazie
255 Mill, op. cit., p. 43. 256 Ivi, p. 55.
257 Ivi, p. 63. 258 Ivi, p. 181. 259 Ivi, p. 223.
69 agli stranieri»260. A parte la presunzione insita nel presentare gli occidentali – l’impero
britannico, soprattutto – come esportatori di civiltà nel mondo, il senso di tali affermazioni è chiarito poco oltre nel testo. Mill giudicava «criticabili» le «interferenze» dello Stato che ha posto il «veto sull’importazione dell’oppio in Cina»: con provvedimenti come questo sarebbe la «libertà dell’acquirente»261 ad essere messa fuori gioco. Da questo punto di vista, la sfera
d’azione da considerarsi ambito privilegiato di espressione della libertà è il commercio. Dopotutto, Mill mostrava di non discostarsi molto dalla tendenza secondo cui allora, in Inghilterra, «l’energia del carattere non ha quasi altro sbocco oltre il mondo degli affari»262. La
sua visione risultava, come in Locke, essere ancora legata al mondo degli affari della borghesia britannica, sebbene il volontarismo romantico vi conferisse una maggiore autenticità.
Diversamente da Locke, secondo Mill la società non si fonda su di un contratto: egli, anzi, imputava ai contrattualisti di essersi serviti di tale concetto come di una artificiosa deduzione. Il versamento delle imposte contributive e l’assunzione di un comportamento non invadente, se non entro certi limiti, la sfera altrui sono di per sé sufficienti a descrivere il vincolo che lega l’individuo alla società, senza bisogno di ricorrere alla teorizzazione di un patto sociale originario263. L’esigenza sentita da Mill di mettere fuori gioco l’ipotesi contrattualistica
sembra pertanto motivata dalla necessità di privare di presupposti emotivi il rapporto tra il singolo e la collettività. Lo stesso autore che, qualche anno dopo, scriverà nella sua
Autobiografia essere «felici solamente […] quelli che si pongono obiettivi diversi dalla loro
felicità personale: cioè la felicità degli altri, il progresso dell’umanità, perfino qualche arte od occupazione perseguiti non come mezzi ma come fini»264 è ora intento a smussare quanto più
possibile la sostanza del vincolo sociale. E il fatto che fosse sempre Mill a precisare che «Sarebbe un grave fraintendimento di questa dottrina supporre che essa esprima una forma di indifferenza egoistica, per cui gli uomini […] non sarebbero interessati al reciproco benessere, a meno che non sia coinvolto il proprio interesse» non è sufficiente a smorzare l’incisività di asserzioni, fatte poche righe oltre, come quella secondo cui «nessuna persona, né alcun gruppo di persone, ha titolo per dire a un altro uomo di età matura che per il suo bene non dovrebbe fare della sua vita quello che decide di farne» e che «È costui [il singolo individuo] la persona più interessata al proprio benessere: l’interesse che chiunque altro può avere in ciò, se non in casi di forte attaccamento personale, è trascurabile in confronto a quello che egli stesso ha»265. Siamo comunque sempre nell’ambito di rapporti che l’uso
dell’attributo interested rende solo lontanamente ascrivibili ad una volontà sociale costruttiva. Si è visto, dunque, come per Mill la persona matura – cioè razionale – abbia di per sé tutte le capacità per fare autonomamente il proprio vantaggio. Gli elementi per il raggiungimento di
260 Ivi, p. 227. 261 Ivi, p. 295. 262 Ivi, p. 221. 263 Ivi, p. 235.
264 Cfr. Bedeschi, op. cit., p. 218. 265 Mill, op. cit., p. 239.
70 tale stadio di maturità razionale che consente all’uomo di riconoscere e di poter fare da sé il proprio bene vengono forniti all’individuo dall’«educazione». Se essa deve servire ad impedire che i membri della comunità rimangano nello «stadio infantile» della loro esistenza e renderli capaci di «comportarsi sulla base di una valutazione razionale dei fatti non immediatamente presenti»266, è chiaro come l’esercizio di queste facoltà sia prerogativa dell’individuo
indipendentemente dallo stabilirsi di un rapporto di esso con la società.
Tutto l’universo milliano, dunque, si costruisce su una costellazione di libertà autonome rappresentanti altrettanti singoli individui. Inevitabile pensare come questo scenario debba evolvere in una lotta: una lotta fra ideali dalla quale Mill pretendeva di far derivare direttamente una lotta sul piano economico fra privati imprenditori. Data la preponderanza del carattere economico che le volontà libere degli individui giungono ad esprimere, secondo Mill, nulla fa presupporre che la costituzione di un accordo politico-sociale consista in una reale opportunità, e quindi si possa pensare ad una libertà realmente strutturata sul fronte dell’uguaglianza, a meno che non si intenda riconoscere allo Stato la funzione di garante, di arbitro della lotta fra privati cittadini. Non ci siamo, dunque, allontanati di molto dal liberalismo secentesco dell’epoca delle enclosures, se non per il fatto che, ora, lo spirito capitalistico che anima gli individui risulta idealisticamente giustificato dall’impulso romantico a percorrere la strada spianata dalla propria libertà.
Senonché, soffermandoci sulle considerazioni che Mill faceva sulla libertà nel suo risvolto morale, potremmo trovare un punto di contatto con Gobetti, il quale tuttavia, a differenza di Mill, è in grado di fondare sulla libertà come patrimonio spirituale dell’individuo una ideale disciplina sociale. La libertà che Mill definiva come possibilità di «perseguire il nostro bene a modo nostro»267 diventa in Gobetti la libertà del gruppo, in quanto le classi sono da lui
concepite, per usare le parole di Gramsci, come le nuove «individualità collettive»268. In
Gobetti è realmente portato a termine il compito che Mill stesso si prefiggeva: quello di trasformare la «libertà della volontà» in «libertà civile o sociale»269. Come far sì che la vita di
ciascuno possa divenire preziosa grazie al contributo degli altri, e non nonostante la loro presenza270? Come costruire una libertà dello e nello Stato e non dallo Stato?
La lotta di classe che Gobetti auspicava fosse suscitata dal nuovo liberalismo non è pensabile al di fuori del raggiungimento di un equilibrio entro lo Stato. Tant’è vero che quando egli scriveva che le «antitesi» sono «necessarie» attribuiva alla lotta di classe il coordinamento di esse271. L’impressione è che, dunque, la lotta di classe non sia fine a se
stessa, né che tantomeno Gobetti ne intravedesse a breve la fine, ma che essa vada inquadrata
266 Ivi, p. 257. 267 Ivi, p. 63.
268 Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale, in Id. La questione meridionale, a cura di F. De Felice e V.
Parlato, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 158 (da ora in poi QM).
269 Mill, op. cit., p. 33.
270 Scriveva Mill: «Tutto ciò che rende preziosa l’esistenza di ciascuno dipende dall’imposizione di limitazioni alle
azioni degli altri» (ivi, p. 43).
71 nel contesto nazionale, e che il rinnovamento dei suoi presupposti ponga le premesse per il rinnovamento della politica liberale stessa.
Il periodo in cui Gobetti faceva queste riflessioni era quello successivo all’autunno del 1920, quando gli operai delle fabbriche metalmeccaniche torinesi organizzarono uno sciopero che costrinse Giolitti a concedere loro una carta attestante una più ampia autonomia organizzativa all’interno delle fabbriche. Il processo di responsabilizzazione delle classi lavoratrici era giunto, in quell’occasione, ad una maturazione tale da smentire sia le «aberrazioni di una dittatura operaia», sia le «tendenze burocratiche dei Turati, Treves, D’Aragona» (i primi due socialisti riformisti, il terzo sindacalista). Il significato che Gobetti attribuiva alla rivoluzione operaia avvenuta a Torino fra l’estate e l’autunno del 1920 era di aver sgomberato il campo dall’estremismo comunista da una parte e dagli astratti programmi proposti dai socialisti dall’altra, e di aver inaugurato la realtà della nuova volontà: quella delle classi lavoratrici di assumere la dirigenza del processo produttivo, al di là della richiesta di salari più alti o di migliori condizioni di lavoro. «In questo senso la rivoluzione è già fatta», scriveva Gobetti, «e continuerà su questa via». L’idea di Gobetti – destinata presto a venire smentita – era quella che la determinazione e l’assunzione di responsabilità dimostrate da un settore circoscritto della classe lavoratrice industriale potessero portare i loro benefici alla politica nazionale italiana in generale. Gli operai «Non attueranno la dittatura», «Ma conquisteranno il potere politico»: l’impressione suscitata in Gobetti era che a Torino, almeno per un momento, si fosse giunti a parlare di libertà in maniera differente da quanto il liberalismo – incarnato nel Partito liberale giolittiano – aveva fatto fino a quel momento. Che il problema della libertà, insomma, fosse finalmente, in quell’occasione, stato posto a fianco di quello dell’uguaglianza: di questo si trattava, in effetti, dal momento che i lavoratori avevano dimostrato di ambire a vedere riconosciuta per se stessi, come classe, una rappresentanza tale da poter battersi sullo stesso piano delle altre forze politiche. Agli occhi di Gobetti, infatti, c’erano tutti gli elementi perché anche l’offerta di «cooperativizzazione» messa sul piatto degli operai da parte di Agnelli andasse più a vantaggio della dirigenza che non della manodopera. Il fatto di aver rifiutato quella proposta e di essersi messi in moto da sé alla conquista dell’autonomia era un esperimento paradigmatico per la nuova direzione che la politica italiana doveva intraprendere: accorgersi dell’indispensabilità delle masse, e delle masse lavoratrici in modo particolare, sarebbe stato da lì in poi la premessa imprescindibile di qualsiasi riforma. La rivoluzione avviata a Torino «Non sarà contro lo Stato; son gli operai che diventano Stato»272.
Qualora potesse sembrare che tali riflessioni portassero Gobetti lontano dalla prospettiva politica liberale, questo avviene perché quello cui Gobetti pensava di veder incarnato nella classe lavoratrice rivoluzionaria era un diverso tipo di liberalismo: un liberalismo per cui il fine dell’uguaglianza costituiva contenuto imprescindibile al reale godimento della libertà,
72 sulla base della conquista dell’autonomia. Anche di uguaglianza, e non solo di libertà, si trattava perché ciò che i lavoratori rivendicavano, innanzitutto, era di veder legittimato all’interno della fabbrica un Consiglio di rappresentanza i cui membri fossero scelti dai lavoratori e fra i lavoratori stessi. In questo modo, il proletariato avrebbe acquisito una rappresentanza politica di peso pari alle altre proprio perché realmente autonoma, non più tenuta a passare attraverso il filtro delle organizzazioni sindacali e partitiche tradizionali per ottenere le riforme. Quella di cui Gobetti vide l’allestimento nelle fabbriche di Torino era «un’economia della fabbrica […] che si svilupp[a] autonoma ossia liberisticamente in un certo senso, ma con una rigida disciplina interna»273. L’autonomia – che sottintendeva l’ambizione
all’uguaglianza, dal momento che i lavoratori pretendevano di poter ritagliare per sé uno spazio autonomo analogo a quello di cui le altre forze presenti nella società già godevano – costituiva dunque la cifra della nuova presa di posizione da parte del proletariato nel contesto italiano del Primo dopoguerra.
Quello Stato che da Mill era percepito quale autorità ingombrante, ostacolo alla realizzazione della libertà degli individui, diventa in Gobetti l’orizzonte entro cui la lotta di classe, stimolata dalle rimostranze operaie, è chiamata a ristrutturare il peso politico delle masse produttrici. In Gobetti, pertanto, la lotta fra individui, guadagnando il livello più avanzato della lotta fra classi, si mette sulla strada per una sua possibile ricomposizione sociale e, nel far questo, essa assume una profondità maggiore – civile – di quanto avesse la libertà come facoltà di seguire le proprie preferenze teorizzata da Mill.
Se, dunque, Gobetti mutuava da Mill l’esigenza di strutturare la lotta di classe su basi moral-volontaristiche – quindi autentiche, in quanto mosse dalle intime esigenze dei soggetti –, egli faceva un passo oltre l’analisi del pensatore inglese in quanto attribuiva la facoltà di smuovere il contesto liberale dall’inerzia in cui era caduto alle classi – ad una classe in particolare – anziché agli individui. Solo se si fosse fatto garante di una lotta dove le classi confliggenti avevano pari peso politico, il liberalismo avrebbe potuto riacquistare un significato confacente alla libertà che lo sostanziava.