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Oltre il sindacato e il partito: la riconfigurazione politica del lavoro

Nel documento Piero Gobetti. Un liberale rivoluzionario (pagine 88-92)

III. GRAMSCI E GOBETTI: DUE INTELLETTUALI ‘ORGANICI’ A CONFRONTO

1. Due liberali ‘sui generis’

1.2 Oltre il sindacato e il partito: la riconfigurazione politica del lavoro

L’ideale per cui Gramsci e Gobetti si battevano era, dunque, la formazione di uno Stato che valorizzasse innanzitutto la dignità dei lavoratori, tanto delle città quanto delle campagne, in quanto produttori. Se l’«astratto programma di socializzazione nazionale»347 portato

tradizionalmente avanti dalle classi dirigenti liberali era stato definitivamente delegittimato dalla «guerra civile» scoppiata nel ’19, occorreva ripensare la forma da dare alle istituzioni nazionali a partire dagli organismi decentrati della produzione stessa. Affinché uno Stato organico fosse realizzato, era necessario che al centro delle discussioni politiche fossero posti i bisogni della classe lavoratrice, l’unica classe produttrice di una reale «ricchezza sociale». Il lavoro era, per il Gobetti entusiasmato dalla collaborazione all’Ordine Nuovo e dagli avvenimenti del caldo autunno torinese, la sola reale «espressione di un valore, di un’attività»348, la nuova prospettiva da assumere civilmente per ripartire dopo la guerra

mondiale. Il «nuovo Stato» doveva, dunque, «per secondare l’operosità dei lavoratori», poter «aderire plasticamente agli organismi in cui la loro [degli operai] attività si svolge»349.

L’organismo che avrebbe dovuto, nella mente di Gramsci e di Gobetti, fungere da cinghia di trasmissione fra gli ambienti della produzione e lo Stato erano i Consigli. Prescindendo dal considerare gli ostacoli contro cui questa prospettiva, per poter essere realizzata, avrebbe dovuto scontrarsi, ciò su cui è importante soffermarsi è la nuova caratterizzazione del lavoratore come personalità politica che Gramsci e Gobetti proposero. L’idea del Consiglio di fabbrica venne loro, infatti, sulla base della constatazione che il sindacato, come organo rappresentativo dei lavoratori, avesse finito per adeguarsi alla logica capitalistica che faceva 345 SP, p. 478. 346 Ivi, p. 168. 347 Ivi, p. 193. 348 Ivi, p. 188. 349 RL, p. 100.

88 del lavoro un oggetto di scambio e una fonte di profitto per il proprietario privato dei mezzi di produzione. Contrattando per ottenere una adeguata retribuzione salariale, cioè, i rappresentanti sindacali avrebbero accettato come premessa la definizione del lavoro come merce di scambio variamente contesa fra gli uomini dell’industria. Per queste ragioni, il «sindacato» era ancora un «organo di resistenza, non di iniziativa, tende a dare all’operaio la sua coscienza di salariato, non la dignità del produttore». Pertanto, se il lavoratore voleva assumere una rilevanza politica – cioè emanciparsi dalla dipendenza dal modo di produzione capitalistico –, doveva trasformare innanzitutto gli organismi sindacali che lo rappresentavano.

Il lavoratore della fabbrica recentemente convertita al regime tayloristico era diventato un semplice esecutore di ordini, specializzato in una mansione ripetitiva e degradante all’interno di una filiera produttiva di cui il più delle volte lui stesso non era consapevole. Entro quel contesto, il lavoratore, nelle parole di Gramsci, «non è un punto che si muove per creare una linea», dal momento che la dequalificazione delle mansioni a lui affidate lo aveva reso «uno spillo conficcato in un luogo determinato», cosicché «la linea risulta dal susseguirsi degli spilli che una volontà estranea ha disposto per i suoi fini»350. Era la constatazione di come il

proprietario dell’impresa – quello che un tempo si chiamava «imprenditore» – si fosse progressivamente allontanato dai luoghi della produzione e, di conseguenza, di come la regia della produzione stessa fosse divenuta sempre meno dipendente dalla volontà dei concreti produttori, assunti in qualità di meri ingranaggi al servizio dell’idolo astratto del fatturato aziendale. Di fatto, agli occhi di Gramsci e di Gobetti, la natura prevalentemente economica delle rivendicazioni sindacali aveva legittimato questo processo di deemancipazione degli operai e dei tecnici (direttori d’impresa), e il salario era diventato l’indice privilegiato per rilevare il benessere della vita delle persone, senza che si tenesse conto delle condizioni a partire dalle quali esso veniva erogato.

Per il fatto che «[l]a natura essenziale del sindacato è concorrentista»351 essa non

contribuiva in nulla a mutare di forma il valore monetizzato del lavoro: esso restava una merce esposta alle oscillazioni del mercato animato dalle libere forze dei capitalisti in concorrenza. Il sindacato, in questo scenario, non poteva che intervenire, in un secondo momento, per attutire il colpo che le energie creatrici dei produttori, nella concorrenza liberistica che tende ad ottenere i costi più bassi possibili per realizzare i più alti profitti possibili, inevitabilmente subivano.

Nello Stato «organico» – proletario – che Gramsci e Gobetti vedevano realizzarsi, in embrione, nei Consigli di fabbrica torinesi, il sindacato smetteva, invece, di avere una funzione preponderante: il lavoratore era libero in quanto produttore, non in quanto salariato – esposto alle leggi del libero mercato –, e lo era perché aveva assunto il controllo dei mezzi di

350 ON, p. 157. 351 Ivi, p. 36.

89 produzione di cui egli stesso si serviva per produrre. Gramsci vide un parallelismo fra la crisi dello Stato centrale italiano, il Parlamento, e quella degli organi rappresentativi decentrati dei lavoratori, il sindacato: si trattava di una «crisi di potere e di sovranità», per la quale «[l]a soluzione dell’una sarà la soluzione dell’altra»352. Quando Gobetti parlava di «crisi di volontà e

di libertà» pensava al medesimo contesto in termini ideali e vedeva, non diversamente da Gramsci, nel risveglio dello «spirito delle masse popolari» la «via maestra della lotta politica futura»353.

Anche quella organizzazione che avrebbe dovuto fare le veci della classe lavoratrice in Parlamento, il Partito socialista, aveva agito tenendo fermi i presupposti della subordinazione del lavoro alle leggi del capitale. Gobetti individuò nella diversa concezione delle «masse» un particolare punto di dissidio fra il partito e il gruppo de L’Ordine Nuovo. Le distinte posizioni tenute rispetto alla capacità del popolo di esercitare il potere erano sintomo di una differente concezione del ruolo che il lavoro avrebbe dovuto assumere nel nuovo Stato animato dalle masse. Turati, capo della frazione riformista del Psi, paragonava i Soviet (modello dei Consigli di fabbrica in Italia) ad un’orda barbarica354; Serrati, capo della frazione massimalista,

riteneva che le masse non fossero pronte per assumere ruoli dirigenziali all’interno delle fabbriche; ancor meno esse erano, a parer suo, preparate a ricoprire delle cariche a livello istituzionale: tant’è vero egli che pensava «l’occupazione del potere come coronamento dell’elevazione generale delle masse»355. Gramsci sosteneva che, invece, proprio dirigendo i

Consigli di fabbrica e, successivamente, coordinandosi con le leghe contadine presenti nelle campagne, i lavoratori avrebbero guadagnato la opportuna esperienza per assumere ruoli dirigenziali di più alto rilievo356. Le masse erano, per il Psi, ancora le «masse bambine»,

incapaci di esercitare il potere e, quindi, anche di assumere il controllo della produzione. Gli organismi sindacali, in fondo, avevano contribuito a convalidare questo giudizio nei confronti degli strati più bassi della popolazione negoziando coi rappresentanti del padronato affinché il salario da corrispondere fosse di un certo livello senza mettere in discussione la forma stessa del salario, non riuscendo cioè a realizzare quello strappo necessario come premessa per l’instaurazione dell’«ordine nuovo».

Gramsci e Gobetti, al contrario, erano consapevoli di come la guerra mondiale avesse legato i destini della nazione e delle masse in modo irreversibile e che, preso atto di ciò, andavano

352 Ivi, p. 34. 353 RL, p. 105. 354 Cfr. ON, p. 16. 355 RL, p. 104.

356 Si trattava, comunque, tanto per Gobetti quanto per Gramsci di élite, alla cui formazione avrebbe provveduto

quel gruppo di «intellettuali organici» – la coscienza attiva della classe operaia – che, a Torino, coincideva con il gruppo fondatore de L’Ordine Nuovo. Scriveva Gobetti: «L’anima di questo organismo [dello Stato] possiamo dire, ormai, mazzinianamente, che sia il popolo. Ma il nostro popolo non è più quello di Mazzini: può essere una minoranza» (SP, p. 188).

90 pensate delle nuove coordinate per una «politica di massa»357; l’economia si sarebbe dovuta

modellare su questa riconfigurazione politica della società. In particolare, essendo le masse, masse di produttori, andavano ripensati i presupposti politici ed economici del lavoro. Economia e politica liberali avevano fallito perché erano state troppo poco liberali: in entrambi i casi, cioè, la tendenza era stata quella a monopolizzare, e ciò era stato favorito dal fatto che le condizioni di partenza non erano uguali per tutti. Così, la libertà era stata strumentalizzata da una parte della società per sottoporre la parte restante al proprio arbitrio. Il fatto che la libera iniziativa, per i privati che avevano potuto avvantaggiarsene, tendesse a trasformarsi in monopolio358, mostrò la fondamentale contraddizione insita in

quella stessa libertà. Il carattere protezionistico, che si era rivelato esserne il cuore pulsante, infatti, aveva finito per erigere attorno ad essa un muro sempre più imponente. Se di libertà si voleva parlare, nel contesto economico italiano, lo si poteva fare, dunque, solo riferendosi a quelle organizzazioni (i consorzi industriali) che avevano tratto i maggiori profitti economici per la spinta propulsiva dello Stato. Le rappresentanze politiche (partiti e confederazioni dei lavoratori) che, dentro e fuori il Parlamento, si proponevano di opporsi a questo accentramento, avevano fallito per mancanza di unità e di intransigenza. Comune era, dunque, la considerazione di Gramsci e di Gobetti che fosse necessario ripensare il concetto di libertà, e che lo si dovesse fare a partire dai vantaggi che la classe lavoratrice poteva trarne. A questo scopo le riviste di entrambi gli intellettuali nacquero come gruppi culturali di opposizione ai movimenti che tradizionalmente avevano rappresentato i lavoratori, il sindacato ed il Partito socialista.

Le proteste dei lavoratori torinesi erano lì a testimoniare di come lo Stato liberale non fosse stato capace di rispondere ai bisogni del popolo. Il giudizio sintetico di Gramsci nel febbraio del 1921 sul «problema che più urge nel periodo attuale» era che «[i]l popolo non [avesse], a sua disposizione, nessun istituto in cui si attu[asse] la sua volontà»359. La crescente

autoreferenzialità delle istituzioni liberali italiane non faceva che acuire la crisi sociale in atto, perché «una classe [borghese] che si difende e fa della difesa l’unico principio suo di governo cessa, per questo solo fatto, di essere una classe liberale, cessa di avere nel proprio seno l’aspirazione allo sviluppo di ogni energia senza altro limite che non sia la stessa libertà»360. A

questo problema etico evidenziato da Gramsci, Gobetti pareva rispondere prospettando la soluzione in un rinnovamento della combattività politica che trasformasse i rapporti sociali: «fuori della lotta politica manca il criterio del rinnovamento etico»361. La trasformazione dei

357 Espressione usata da Michele Filippini per caratterizzare l’essenza della teoria politica gramsciana (cfr. Id.,

Una politica di massa. Antonio Gramsci e la rivoluzione della società, cit.).

358 A causa della spinta del capitale alla propria incessante accumulazione e centralizzazione, secondo il Gramsci

allievo di Marx, la situazione italiana rispondeva, economicamente e politicamente, a movenze attive a livello internazionale: «La concorrenza, la lotta per l’acquisto della proprietà privata e nazionale, […] tende a sopprimere se stessa nel monopolio» (ON, p. 252).

359 ON 2, p. 74. 360 Ivi, p. 163. 361 RL, p. 173.

91 rapporti sociali implicava, a detta di entrambi, una parallela trasformazione dei rapporti di produzione, tale da far sì che il nuovo Stato «predisponesse di organismi che aderissero agli strati della produzione»362.

Nel documento Piero Gobetti. Un liberale rivoluzionario (pagine 88-92)