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C ENNI DI DIRITTO MATRIMONIALE NELL ’ ALTO M EDIOEVO L A PUBBLICITÀ DELLA CELEBRAZIONE

La forza dell’uso e la forza del diritto: il banchetto come pratica sociale e giuridica

3. C ENNI DI DIRITTO MATRIMONIALE NELL ’ ALTO M EDIOEVO L A PUBBLICITÀ DELLA CELEBRAZIONE

Così come in tutte le epoche, anche nell’alto Medioevo il matrimonio è stato oggetto di numerose attenzioni da parte delle autorità legislative, che fossero esse laiche o ecclesiastiche. Tra gli aspetti che più sovente emergono da uno studio delle disposizioni dei canoni conciliari e dei testi normativi vi è senza dubbio il problema della pubblicità delle nozze. Ancora all’epoca del Concilio di Trento uno degli elementi centrali delle tematiche relative al matrimonio riguardava le nozze celebrate clandestinamente178, già combattute e vietate dalla legge canonica, ma ritenute nella concezione comune comunque valide, tanto da rendere vane tali proibizioni179. Per lungo tempo, la Chiesa si limitò dunque a tentare di circoscrivere un fenomeno, una consuetudine, che aveva radici affondate nel remoto passato. Uno dei tentativi più energici di intervenire a riguardo fu il Concilio Lateranense IV (1215), che proibiva ai sacerdoti di celebrare le nozze in assenza di previe pubblicazioni180. Ciò comportava che, in mancanza di esse, e nel caso fosse poi stato trovato qualche impedimento all’unione degli sposi, i figli della coppia sarebbero stati ritenuti illegittimi. Elevando così il ruolo del sacerdote a ufficiale pubblico con l’autorità per garantire davanti alla legge la legittimità dell’unione, la Chiesa tentava di estendere definitivamente la propria giurisdizione sull’istituto matrimoniale.

Provvedimenti più chiari e decisi vennero presi oltre tre secoli più tardi, nel 1563. Anche durante le sessioni del Concilium Tridentinum il problema dei matrimoni clandestini è tra le questioni di maggior spicco, e questo già suggerisce che, se è vero che a ogni norma corrisponde un reato, celebrare nozze in forma non pubblica (o quantomeno non canonica) fosse una pratica piuttosto diffusa e comune fino almeno al XVI secolo. Ciò che effettivamente distingueva la normativa tridentina contenuta nel decreto Tametsi era il fatto di riconoscere come ufficialmente validi solo i matrimoni celebrati pubblicamente, spogliando dunque di qualsiasi sussistenza legale ogni unione

178 H. Jedin, Storia del Concilio di Trento, III, Brescia 1982, pp. 201 e sgg.

179 G. Kadzioch, Il ministro del sacramento del matrimonio nella tradizione e nel diritto canonico latino e

orientale, Pontificio Istituto Biblico 1997, pp. 58-59.

180 Concilium Lateranense IV, De Poena contrahentium clandestina matrimonia, 11-30 nov. 1215, in

Conciliorum Oecumenicorum decreta, ed. J. Alberigo, P. Joannou, C. Leonardi e P. Prodi, Friburgo 1962,

cost. 51, in COD, 258: «Unde praedecessorum nostrorum inhaerendo vestigiis, clandestina coniugia penitus inhibemus, prohibentes etiam ne quis sacerdos talibus interesse praesumat. Quare specialem quorundam locorum consuetudinem ad alia generaliter prorogando, statuimus ut cum matrimonia fuerint contrahenda, in ecclesiis per presbyteros publice proponantur, competenti termino praefinito, ut infra illum qui voluerit ligitimum impedimentum opponat».

che non si conformasse a tale formula181. Nello specifico, la forma (che d’ora in avanti sarebbe diventata canonica) prevedeva la presenza di un parroco e di almeno due testimoni e rendeva necessaria la benedizione della coppia da parte dello stesso o di un altro sacerdote competente182, all’interno della chiesa, perché gli sposi potessero cominciare la convivenza nella propria dimora183. Nella stessa sede si identificava anche una precisa formula per l’interrogazione dei contraenti e la consacrazione dell’unione da pronunciare in facie ecclesiae (quindi, letteralmente, “di fronte alla chiesa”), ma si consentiva tuttavia l’uso di formule alternative in accordo ai riti dei singoli paesi:

«[...] ad celebrationem matrimonii in facie Ecclesiae procedatur, ubi parochus, viro et muliere interrogatis, et eorum mutuo consensu intellecto, vel dicat: ‘Ego vos in matrimonium coniungo, in nomine Patris, et Filii et Spiritus Sancti’, vel aliis utatur verbis, iuxta receptum uniuscuiusque provinciae ritum»184.

L’innovazione che più di tutte si dovette avvertire in senso pratico fu proprio la promozione del parroco a ruolo di primo piano nella costituzione dell’unione matrimoniale, quando nel passato egli non aveva avuto rilievo particolare rispetto agli altri testimoni, non dovendo far altro che assistere allo svolgimento dei rituali nuziali. Ora, invece, «a lui spettava accertare che i futuri sposi scegliessero liberamente la vita matrimoniale, senza costrizioni da parte delle famiglie, ed eventualmente mediare i conflitti tra padri e figli»185; inoltre, egli aveva l’incarico di registrare il matrimonio nelle carte parrocchiali premurandosi di annotare i nomi degli sposi e quelli dei testimoni che avevano presenziato alla cerimonia.

La svolta rispetto al passato è evidente. Il decreto Tametsi mirava a trascinare fuori dell’uscio di casa quei matrimoni che, per inerzia della consuetudine, erano rimasti atti privati per lunghissimo tempo, collocandoli nel luogo pubblico per eccellenza: lo spazio antistante la chiesa. Usando le

181 J. Gaudemet, Le mariage en occident. Le mœrs et le droit cit., pp. 290-295.

182 Con tale termine ci si riferiva non a un parroco qualsiasi, ma a quello che risiedeva nella parrocchia di

uno o di entrambi gli sposi.

183 Concilio di Trento, sessione XXIV, Decretum Tametsi, 11 nov. 1563, cap. I, in COD, 756: «Praeterea

eadem sancta synodus hortatur, ut coniuges ante benedictionem sacerdotalem, in templo suscipiendam, in eadem domo non cohabitent. Statuitque, benedictionem a proprio parocho fieri [...]». Come precisa Daniela Lombardi, a seguito dell’emanazione del decreto Tametsi, i «matrimoni clandestini sono quelli in cui mancano parroco e testimoni, non più quelli contratti senza l’approvazione dei genitori» (D. Lombardi,

Matrimoni di antico regime, Bologna 2001, p. 112).

184 Concilio di Trento, IV. schema, Canones super ref. circa matrimonium, 11 nov. 1563, in CT 9, 968. 185 D. Lombardi, Matrimoni di antico regime cit., p. 96.

parole di Gabriella Zarri, «da azione prettamente laicale [il matrimonio] diviene clericale, da insieme di gesti a carattere quasi esclusivamente profano assume carattere sacro»186.

Ma, come accennato, i tentativi di imporre celebrazioni pubbliche risalivano già a secoli prima del Concilio di Trento.

Nell’alto Medioevo si era tornati più volte sul problema.

Già nel VII secolo Ervig, re dei Visigoti, aveva stabilito quanto segue:

«Ne sine dote coniugium fiat, et ut de quibuscumque rebus dos conscripta fuerit, firmitatem obtineat.

Nuptiarum opus in hoc dinoscitur habere dignitatis nobile decus, si dotalium scripturarum hoc evidens precesserit munus. Nam ubi dos nec data nec conscripta, quod testimonium esse poterit in coniugii dignitate futura, quando nec coniunctionem celebratam publica roborat dignitas, nec dotalium tabularum hanc comitatur honestas? [...]»187.

In sostanza, la norma stabiliva che un matrimonio avrebbe dovuto prevedere il versamento di una dote, e la documentazione relativa al pagamento avrebbe di fatto certificato l’unione. Analogamente, nella Collectio canonum Hibernensis, compilata tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII secolo188, ritroviamo un’epistola del V secolo di papa Leone Magno a Rustico, vescovo di Narbona, in cui si specificava che le nozze dovevano essere celebrate pubblicamente189.

Il Concilio di Verneuil, tenutosi durante il regno di Pipino il Breve (755), si rivolgeva a tutti i laici, a prescindere dalla classe sociale di appartenenza:

«Ut omnes homines laici publicas nuptias faciant, tam nobiles quam innobiles»190.

186 G. Zarri, Il matrimonio tridentino, in Il concilio di Trento e il moderno, a cura di P. Prodi e W. Reinhard,

Bologna 1996, pp. 437-483, p. 462.

187 Lex Vis., 3.1.9.

188 T. O’Loughlin, Celtic theology: humanity, world, and God in early Irish writings, London 2000, pp. 109-127;

U- R. Blumenthal, Canon law, religion, and politics: Liber Amicorum Robert Somerville, Washington 2012, pp. 81 e sgg.;

189 K. Ritzer, Le mariage dans les Églises chrétiennes du Ier au XIe siècle cit., pp. 319-320.

190 Concilium Vernense, ed. A. Werminghoff, MGH Capit., 1, Hannover-Leipzig 1906, 15, p. 36. Cfr C. Vogel,

Les rites de la célébration du mariage: leur signification dans la formation du lien durant le haut Moyen Age

C’erano ragioni ben precise per cui si insisteva così tanto al riguardo. Dal punto di vista della Chiesa, una delle più importanti era appunto quella di limitare le unioni incestuose: già nota pressoché a tutte le culture, la proibizione dell’incesto è stata assunta dagli antropologi come elemento distintivo tra le società umane e quelle animali191. Nell’alto Medioevo, in particolare, erano considerate illecite le nozze contratte entro il 7° grado di parentela192. A tal proposito il

Concilium Baiuwaricum, tenutosi tra il 740 e il 750, così prescriveva:

«Ut et nuptiae caveantur, ne inordinate neque inexaminatae non fiant, neque quisquam audeat ante nubere, antequam presbitero suo adnuntiet et parentibus suis et vicinis, qui eorum possint examinare propinquitatem, et cum eorum fiat consilio et voluntate»193.

Il requisito di un’indagine preliminare da parte del parroco per verificare eventuali impedimenti alle nozze coinvolgeva parentes et vicini, facendo del matrimonio un fatto prettamente pubblico; solo con il benestare di questi, d’altronde, il contratto poteva essere portato a termine.

Nella già citata Collectio canonum hibernensis vengono riprese le parole di Agostino:

«Qualis esse debet uxor, quae habenda est secundum legem, id est, si uirgo casta, si desponsata in uirginitate, si dotata legitime et a parentibus tradita, et a sponso et paranymphis eius accipienda.

Ita secundum legem et euangelium publicis nuptiis honeste in coniugium legitime

191 J. Carreras, Le nozze. Festa, sessualità e diritto cit., p. 29.

192 Limite che venne abbassato al 4° grado in occasione del citato Concilio Lateranense IV (1215). Ma già

nell’undicesimo secolo Ivo di Chartres aveva contribuito a risollevare il problema delle nozze incestuose (G. Duby, Matrimonio medievale. Due modelli nella Francia del dodicesimo secolo, Milano 1981, pp. 41 e sgg.). Si vedano anche: J. Gaudemet, Le mariage en occident. Le mœrs et le droit cit., pp. 204-212 per la questione della consanguinetà come impedimento alle nozze; P. L. Reynolds, Marriage in the western

Church cit., pp. 401 e sgg. per la contestualizzazione del problema in epoca altomedievale; J. Goody, Famiglia e matrimonio in Europa, Roma-Bari 1991, pp. 160-172 circa il ruolo del parroco nell’accertamento

dei gradi di parentela fra i due contraenti e il problema della convivenza di due sistemi di computo, germanico e romano; J. L. Flandrin, Un temps pour embrasser. Aux origines de la morale sexuelle

occidentale (VIe-XIe siècle), Paris 1983, p. 127 riguardo alle difficoltà pragmatiche dell’accertamento, visto il

ruolo fondamentale che ricoprivano le testimonianze.

193 Concilium Baiuwaricum (AD 740-750), ed. A. Warminghoff, MGH Conc., 2, 1, Hannover-Leipzig 1906, 12,

sumenda est, et omnibus diebus uitae suae, nisi ex consensu et causa uacandi Deo, nunquam a uiro suo separanda est, excepto fornicationis causa»194.

La forma più legittima di matrimonio è, dunque, quella in cui la donna è casta, vergine al momento di contrarre gli sponsalia, dotata (il che implica, lo abbiamo visto195, la presenza di testimoni e documenti), e infine consegnata allo sposo dai propri parenti in compagnia dei paraninfi.

È esattamente lo stesso concetto, espresso con quasi i medesimi termini, che Incmaro di Reims esprime nel suo trattato De divortio Lotharii et Tetbergae:

«Et secundum sacram auctoritatem, legaliter desponsatam, dotatam, et publicis nuptiis honoratam, uxorem esse nemo qui dubitet»196

Siamo nel IX secolo, la Chiesa franca ha posto come cardine del processo-matrimonio la pubblicità, e Incmaro è uno dei massimi artefici di questa rinnovata attenzione alla formalità e alla liturgia. Così viva, infatti, era stata ed era ancora la considerazione del matrimonio come realtà privata, o meglio dire domestica, almeno per quanto riguardava le famiglie meno agiate, che la consuetudine di celebrare le nozze senza alcuna pompa o formalità costituiva evidentemente un problema comune a tutto l’Occidente altomedievale197. Da parte delle autorità, «si avvertiva con sempre più urgenza la necessità di rendere pubbliche le nozze»198, e la Chiesa intendeva regolamentare un rito di grande importanza per una società via via più profondamente cristiana199.

Ancora più esplicito di Incmaro, Papa Leone IV (847-855) ordinava:

«Nullus uxorem nisi publice celebratis nuptiis accipiat. Raptum nullus faciat. Nullus proximam suam accipiat. Nullus sponsam alterius ducat»200.

194 Canones et paenitentialia Hiberniae, ACLL, Collectionis canonum Hibernensis recensio A, L&S, B612,

DMLCS (2009), compiled from Wasserschleben (1885), p. 185.

195 Cfr. supra le nostre osservazioni in merito a Lex Vis., 3.1.9.

196 Incmaro di Reims, De divortio Lotharii et Tetbergae, PL 125, pp. 623-771, p. 708A. 197 Cfr. G. H. Joyce, Matrimonio cristiano. Studio storico-dottrinale, Alba 1955, pp. 110-111. 198 J. Carreras, Le nozze. Festa, sessualità e diritto cit., p. 77.

199 Cfr. R. H. Helmholz, Marriage litigation in Medieval England, Cambridge 1974, pp. 5 e sgg. 200 Leo IV Papa, Homiliae, PL 115, p. 678, XLIII.

Qui vengono anche spiegate le motivazioni di una simile norma: perché la sposa non venga presa per ratto; perché non si verifichino unioni incestuose; infine, perché non vi siano relazioni adultere. Questi tre elementi basilari giustificano l’insistente attenzione delle autorità di tutta l’epoca medievale riguardo alla pubblicità delle celebrazioni nuziali.

Tra l’altro, non era nemmeno la prima volta che veniva richiesto al clero di vigilare affinché le nozze fossero celebrate pubblicamente. Papa Eutichiano (275-283) così ordinava ai sacerdoti:

«Nullus vestrum ad nuptias eat: omnibus denuntiate ut nullus nisi publice celebratis nuptiis uxorem ducat»201.

La prassi, evidentemente, doveva essere così diffusa e radicata da richiedere continui interventi legislativi a riguardo.

Tale insistenza verso una dimensione sociale del matrimonio risalta maggiormente in un canone emanato durante il Concilio del Friuli202 (798), che stabiliva dovesse trascorrere un certo lasso di tempo dopo il fidanzamento (interventis pactis sponsalibus) prima che la coppia convolasse a nozze, tempo necessario al vicinato (che doveva conoscere molto bene la linea generationum degli sposi) per accertarsi della liceità del legame; ugualmente, anche al sacerdote spettava essere informato dell’unione incombente. Per contro, è ovvio che il canone dichiarasse illecite (che comunque non significa non valide) le nozze contratte furtim raptimque, che appunto sovvertivano il senso comunitario delle nozze.

Un capitolare emanato da Carlo Magno quattro anni più tardi (802) tornava a occuparsi della questione:

201 Euticianus papa, Exhortatio ad presbyteros, PL 5, 16, c. 167.

202 Concilium Foroiuliense, ed. A. Werminghoff, MGH Conc., 2, 1, Hannover-Leipzig 1906, 8, pp. 191-192:

«De his autem, qui propinqui sanguinis adfinitatem sibi in matrimonium sociare temptaverint, quis valde gravis nimisque asperrima in prisco canone ab antiquis patribus de hoc negotio iudicialis sententiae elimata sub paenitentiae flagello persistit vindicta, idcirco tanti praecaventes flagitii periculum, ut melius cautiusque prospeximus, dignum diximus diffinire, ita dumtaxat, ut nemini liceat furtim raptimque nuptias contrahere, ne forte per erroris ignaviam vel certe, quod peius est, diabolico instigati amore inlicita conubia celebrentur, sed interventis pactis sponsalibus, per aliquam dilationis moram, requisiti quin etiam diligenti cura vicini vel maiores natu loci illius, qui possint scire lineam generationum utrorumque, sponsi sciliscet vel sponsae, in eo etiam, ut sine notitia sacerdotis plebis illius nullatenus fiat, quatenus nulla deinceps separationis tribulatio intercedat. Si vero hoc ordine cuncta peragantur ac probatum sine fraude testium fuerit et causa contigerit, quod postea aut ipsi recordati fuerint, qui primum se nescire professi sunt, aut certe per aliorum veratium hominum testimonium inventi fuerint in eo gradu consanguinitatis, quo segregari solent, segregentur quidem ab invicem et agant paenitentiam et, si fieri potest, perseverent utrique innupti [...]».

«Ut omnes omnino episcopus et presbiteros suos omni honore venerentur in servitio et voluntate Dei. Ne incestis nuptiis et se ipsos et caeteros maculare audeant; coniunctiones facere non praesumat, antequam episcopi, presbyteri cum senioribus populi consanguinitatem coniungentium diligenter exquirant; et tunc cum benedictionem iungantur. Ebriatatem devitant, rapacitatem fugiant, furtum non faciant; lites et contentiones adqua blasphemia, sive in conviviis sive in conplacito, omnino devitentur, sed cum caritate et concordia vibant»203.

La norma stabiliva che per allontanare la possibilità di contrarre nozze incestuose, dovevano essere condotti accertamenti da parte di vescovi, sacerdoti e degli anziani laici della comunità, sempre nell’intento di condurre un’inchiesta circa la consanguinitatem della coppia. Accertata la liceità dell’unione, la coppia avrebbe dovuto ricevere la benedizione sacerdotale perché le nozze fossero suggellate definitivamente204.

Quello che emerge dal confronto critico di tali documenti normativi è senz’altro una necessità di fondo connessa all’istituto matrimoniale: la condivisione dell’evento in seno alla parrocchia, al villaggio, alle vicìnie. Secondo il Brandileone, essa derivava da un’antica consuetudine di stampo germanico che faceva della celebrazione nuziale un rito essenzialmente pubblico: «Se è vero che le antiche popolazioni germaniche celebravano i loro matrimoni davanti al popolo radunato, quando dopo vediamo che in Italia, dalla dominazione longobarda in poi, non poche unioni sono contratte alla presenza dei giudici o dei tribunali, non possiamo non trarne la conseguenza, che questi organi, o rappresentanti della potestà pubblica si erano sostituiti, in quella come in tante altre attribuzioni, alle assemblee del popolo, le quali a poco a poco erano cadute in desuetudine»205. Ciò che, dunque, in passato era stato un costume diffuso, ora veniva promosso dalle autorità religiose cristiane come

203 Capitulare missorum generale (AD 802), ed. A. Boretius, MGH Capit., 1, Hannover 1883, 33, p. 98. Già

nella Admonitio generalis del 789, emanata anch’essa da Carlo Magno, si trattavano i matrimoni illeciti: «Omnibus. Item et furta et iniusta conubia necnon et falsa testimonia, sicut saepe rogavimus, prohibete diligenter, sicut et lex Domini prohibet» (ivi, 68, p. 59). Sulla benedizione sacerdotale, si vedano C. Vogel in

Les rites de la célébration du mariage: leur signification dans la formation du lien durant le haut Moyen Age

cit., pp. 433 e sgg., e K. Ritzer, Le mariage dans les Églises chrétiennes du Ier au XIe siècle cit., pp. 323 e sgg.; come sottolinea Reynolds, «benediction had become a legal requirement for valid marriage, but we do not know how effective these reforms were even among the nobility. It is unlikely that benediction became customary among the lower social orders» (P. L. Reynolds, Marriage in the western Church cit., pp. 402-403).

204 Un piccolo dettaglio: nella presente normativa compare anche una prima menzione dei banchetti come

pratica sconsigliabile per un uomo di chiesa. Più avanti, constateremo come canoni più specifici si concentreranno su tale aspetto, soprattutto relativamente ai convivi nuziali.

una condizione funzionale al corretto compimento del legame matrimoniale. Sposarsi significava unire due rami parentali, e coinvolgeva già di per sé molte persone; ma in aggiunta a questo, in culture che evidentemente nutrivano un più spiccato senso comunitario, un matrimonio doveva essere un vero e proprio fatto sociale.

Le cronache non smentiscono questa ipotesi. Se esse non scendono in dettagli riguardo al principale oggetto d’indagine di questa ricerca, nondimeno forniscono delle indicazioni utili a comprendere la cornice in cui esso era inquadrato. Per esempio, racconta Gregorio di Tours (VI secolo) che quando Sigeberto, re dei Franchi, chiese in sposa la figlia del re visigoto Atanagildo, chiamò i grandi del regno per celebrare solennemente le nozze:

«Ille vero, congregatus senioribus secum, praeparatis aepulis, cum inminsa laetitia atque iocunditate eam accepit uxorem»206.

Si potrà obiettare che, trattandosi di nozze regali, sia più che lecito aspettarsi una celebrazione in pompa massima, ma nostro malgrado le fonti di cui disponiamo non raccontano che raramente di ciò che riguardava il popolo. Tuttavia, dobbiamo considerare che un re, come ogni figura dotata di grande autorità, è di per sé un esponente della cultura di appartenenza, nonché un modello per i suoi sudditi. Un sovrano può forse esaltare alcuni gesti, ma raramente li attinge da un bacino di costumi estraneo alla propria cultura.

Il matrimonio tra Sigeberto e Brunilde, di grande importanza politica, è un evento che viene condiviso con i seniores del regno, ossia le personalità più influenti che attorniano il re. Questo dà legittimazione alle nozze, ed è anche un modo per rafforzare e riconfermare i rapporti con gli esponenti dei gradini più alti della gerarchia sociale. Una festa nuziale serve proprio a tutto ciò: rendere pubblica la celebrazione, rinvigorire i legami con gli invitati allietandoli e non risparmiandosi in generosità (in altri termini, “ricomprando” la loro lealtà), fare partecipi i potenti di un evento importante dando loro dignità di testimoni.

Peraltro, i festeggiamenti vengono sintomaticamente identificati con il termine aepulae, che letteralmente indica la pratica del banchetto. In sostanza, Gregorio di Tours sintetizza l’intera

206 HF, IV, 27: «Porro Sigyberthus rex cum videret, quod fratres eius indignas sibimet uxores acciperent et

per vilitatem suam etiam ancillas in matrimonio sociarent, legationem in Hispaniam mittit et cum multis muneribus Brunichildem, Athanagilde regis filiam, petiit. Erat enim puella elegans opere, venusta aspectu, honesta moribus atque decora, prudens consilio et blanda colloquio. Quam pater eius non denegans, cum magnis thesauris antedicto rege transmisit. Ille vero, congregatus senioribus secum, praeparatis aepulis,