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N ASCITA ED EVOLUZIONE DI UN MODO PER COMUNICARE

La forza dell’uso e la forza del diritto: il banchetto come pratica sociale e giuridica

1. N ASCITA ED EVOLUZIONE DI UN MODO PER COMUNICARE

Gli esseri umani sono animali, e con gli animali condividono gli istinti di base.

L’istinto di sopravvivenza, che implica anche la necessità quotidiana di nutrirsi, questo soprattutto hanno in comune gli uomini con ogni altra forma di vita. Ma differentemente da tutti gli animali, gli esseri umani hanno giovato di un processo evolutivo che ha permesso loro di acquisire le conoscenze per dominare la natura, almeno in parte, e dunque svincolarsi dalla dipendenza verso i frutti spontanei della terra. Il primo campo arato, che, come insegna il mito biblico124, ha cominciato a sovvertire l’ordine naturale delle cose, ha segnato un punto di svolta verso un’esistenza in cui, dopo secoli e millenni di esperienza e progressi tecnologici, infine l’uomo è riuscito perfino ad associare alla sfera della nutrizione un significato che inizialmente era più

124 Gen 4:1-15. Sintomatico il fatto che Caino, il fratricida, sia un agricoltore, mentre suo fratello Abele, la

vittima, sia un pastore. La dicotomia natura/cultura, che oggi tendiamo a non definire più una contrapposizione, ma che nella storia dell’uomo ha sì rappresentato anche un conflitto, è uno dei temi più celebri trattati dagli storici e dagli antropologi per via della sua capacità di descrivere l’evoluzione del rapporto degli esseri umani con il mondo che li circondava e i modi in cui essi lo concepivano e recepivano. La tavola e il cibo sono naturalmente oggetti privilegiati di tale indagine, poiché il legame che unisce l’uomo a ciò che mangia per sopravvivere non è mai casuale. Celebri, a riguardo, sono gli studi di C. Lévi-Strauss (Le cru et le cuit, Paris 1964; Du miel aux cendres, Paris 1966; L’origine des manières de table, Paris 1968). Si vedano anche: F. Braudel, Le strutture del quotidiano, in id., Civiltà materiale, economia e capitalismo, 2 voll., I, Torino 1982; Id., Quando le cose erano vive. Miti della natura, Torino 1991. Per quanto riguarda un’analisi storica della questione, si veda M. Montanari, Alimentazione e cultura nel Medioevo, Roma-Bari 1988; id., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Roma-Bari 1993; id., Il cibo come

cultura, Roma-Bari 2004. Più in generale, le opere che hanno fatto da costante supporto alla presente analisi

sono: M. Montanari, L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo, Napoli 1979; M. Wilkins - D. Harvey - M. Dobson (ed.), Food in antiquity, Exeter 1995; M. Fiano, Il banchetto regio nelle fonti altomedievali. Tra

scrittura ed interpretazione, in Mélanges de l’École Frainçaise de Rome, Moyen Âge, 115, 2003, pp.

637-682; Y. Hen, Food and drink in Merovingian Gaul, in B. Kasten (ed.), Tätigkeitsfelder- und

Erfahrungshorizonte des ländlichen Menschen in der frühmittelalterlichen Grundherrschaft bis ca. 1000,

Stuttgart 2006, pp. 99-110; A. Dierkens - L. Plouvier (éd.), Festins mérovingiens, Bruxelles 2008.

Infine, interessanti per un approfondimento risultano anche il volume di E. Hyams, E l’uomo creò le sue

piante e i suoi animali. Storia della domesticazione, Milano 1973, nonché i miti di fondazione raccolti nei

volumi di G. Filoramo, In principio. I miti delle origini, Torino 1990.

Per le citazioni bibliche, salvo quando diversamente indicato, ho utilizzato La Sacra Bibbia, Edizione ufficiale della CEI, Conferenza Episcopale Italiana, Roma 1974.

nascosto, e molto indietro nel tempo quasi inconsapevole125. Ciò non vuol dire che che i fattori ambientali e geografici siano stati nel frattempo superati (l’importanza delle «piante di civiltà»126, per usare l’espressione di Fernand Braudel, è fuori discussione), ma semplicemente che l’uomo ha iniziato ad associare al cibo e ai modi di consumo un valore altro, che prescinde dal mero aspetto nutritivo.

Quando reperire il cibo non è più la preoccupazione primaria e quotidiana (cosa che in una certa misura rimarrà una costante fino all’epoca moderna, ma di certo in proporzione progressivamente minore rispetto agli albori dell’umanità), emerge un’altra componente: il gusto127. Non solo: si cominciano a studiare gli alimenti anche sotto l’aspetto delle loro proprietà naturali, tanto riguardo al loro apporto nutrizionale quanto agli effetti che possono avere sull’organismo umano128. Non si mangia più solo quello che si trova ma, nei limiti del possibile, si sceglie cosa mangiare e, ancora più importante, come cucinarlo129.

Non tutti gli alimenti hanno lo stesso valore culturale. Erodoto (V sec. a.C.) così raccontava delle abitudini dei Massageti, un popolo nomade di stirpe iranica: «Non praticano l’agricoltura ma vivono di allevamento e di pesca»130, identificando immediatamente in cosa non erano simili ai Greci.

125 Cfr. Il breve ma brillante saggio di Jean-Louis Flandrin dal titolo L’umanizzazione dei comportamenti

alimentari, il quale fa da introduzione a id. - M. Montanari, Storia dell’alimentazione, 2 voll., Roma-Bari 2003,

I, pp. 5-11. Tuttavia, è bene porsi una domanda: può davvero essere mai stata slegata la dimensione nutritiva del cibo da quella socio-culturale? Trovare il cibo, sceglierlo, crearlo, consumarlo da soli o in gruppo sono tutti gesti che racchiudono in seno una consapevolezza che va oltre l’istinto di sopravvivenza.

126 F. Braudel, Le strutture del quotidiano cit., p. 83.

127 Per un approfondimento di tale aspetto in relazione all’epoca medievale, si veda ad esempio M.

Montanari, Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola, Roma-Bari 2012.

128 Da segnalare, al riguardo, il volume di F. Pucci Donati, Dieta, salute calendari. Dal regime stagionale

antico ai regimina mensium medievali: origine di un genere nella letteratura medica occidentale, Spoleto

2007.

129 Cfr. C. Lévi-Strauss, Anthropologie structurale, Paris 1958. In quest’opera divenuta celebre, lo studioso

sviluppa una teoria del crudo, del cotto e del putrido che in qualche modo ribalterà molti degli approcci convenzionali al tema dell’alimentazione. Egli fu tra i primi a individuare a una relazione tra cibo e linguaggio, dove gli alimenti rappresentano le parole, e le relazioni – come per esempio le tecniche di trasformazione, le abitudini e i modi di consumo – corrispondono alla struttura sintattica della lingua. In questo modo, Lévi- Strauss mise in luce numerose corrispondenze tra la cucina, come linguaggio, e la complessità sociale. Sulla stessa linea Roland Barthes, in Elementi di semiologia (pubblicato nel 1965), scriveva che «il nutrimento non è solo una collezione di prodotti soggetti a studi statistici e dietetici, ma anche, nello stesso tempo, un sistema di comunicazioni». Fondamentale è anche il saggio si C. Lévi-Strauss, Le triangle culinaire, in Food

and History, 2/1, 2004, pp. 9-19.

Per un più recente approccio antropologico al problema, si veda anche J. Goody, Cooking, cuisine and class:

a study in comparative sociology, Cambridge 1982. Inoltre, è da segnalare: C. Fischler, L’onnivoro: il piacere di mangiare nella storia e nella scienza, Milano 1992; J.-P. Corbeau - J.-P. Poulain, Penser l’alimentation. Entre imaginaire et rationalité, Toulouse 2002.

Parimenti, degli Sciti scriveva che «non vivono di agricoltura ma di allevamento»131. L’inclinazione a sottolineare i propri valori alimentari emerge anche quando lo stesso Erodoto fa pronunciare a Serse, il nemico giurato degli elleni: «Siamo in guerra contro popoli [i Greci] di agricoltori, non di nomadi»132.

La tecnica narrativa degli storici del passato si è sovente appoggiata su osservazioni di questo tipo. «Come bevanda hanno un liquido ricavato dall’orzo o dal frumento»133, scriveva Tacito a proposito delle tribù germaniche. Si riferisce alla cervogia, la bevanda tipica delle genti del nord, corrispettivo del vino per i Romani e i popoli mediterranei. Subito di seguito, infatti, aggiunge il suo personale riferimento culturale: «fermentato in modo analogo al vino»134. Poi continua: «Il loro cibo è semplice: frutti selvatici, selvaggina appena cacciata, latte cagliato; riescono a soddisfare la fame senza elaborati preparativi e senza ghiottonerie»135; che quest’ultima osservazione sia in riferimento critico ai costumi dissoluti dei suoi compatrioti? Il tenore generale dell’opera ci suggerisce proprio questo. Ma ciò che mi interessa è il fare storia, il raccontare e il raccontarsi attraverso il cibo, l’associare la propria identità a ciò che si cucina e si trova sulla tavola, perché, come appunto si diceva, le scelte alimentari hanno ragioni (e radici) profonde. Non è casuale, allora, la dichiarata preferenza di Carlo Magno per le carni arrosto, a detta del suo biografo Eginardo: «Caena cotidiana quaternis tantum ferculis praebebatur, praeter assam, quam venatores veribus inferre solebant, qua ille libentius quam ullo alio cibo vescebatur»136. Questioni di gusto, di status-symbol, di tradizione. Nell’alto Medioevo occidentale, i ceti dominanti avranno proprio la tendenza a conferire alla carne un valore ben maggiore rispetto ai cereali e alle verdure, che diventeranno invece cibi culturalmente più adatti a monaci ed ecclesiastici, ribaltando così i valori alimentari della romanità; l’astinenza dal consumo di carne sarà segno di penitenza e umiliazione137.

131 Ivi, IV, 2. 132 Ivi, VII, 50.

133 Tacito, Germania, ed. cit., 23. 134 Ibidem.

135 Ibidem.

136 Eginardo, Vita Karoli Magni, ed. O. Holder-Egge, MGH SSRG, Hannoverae-Lipsiae 1911, 25. Per il

significato culturale del consumo di carne per i potentes del Medioevo, si veda M. Montanari, Alimentazione

e cultura nel Medioevo cit., pp. 24 e sgg.

Lo stesso vale per i modi di consumo degli alimenti, o meglio, per le forme di convivialità138. Ben oltre l’istinto di sopravvivenza, si sceglie cosa mangiare, e si sceglie come e quando. «Generalmente si pensa che il comportamento alimentare dell’uomo si distingua da quello delle bestie non soltanto in virtù della cucina - più o meno strettamente legata a una dietetica e a precetti religiosi - ma per la convivialità e per le funzioni sociali della mensa» scrive Jean-Louis Flandrin. «A partire dal terzo millennio tra i sumeri, e al più tardi nel secondo in altre regioni della Mesopotamia e della Siria, innumerevoli testi confermano l’esistenza di banchetti con una precisa ritualità. Benché descrivano soprattutto banchetti di dèi o di principi, essi citano altresì i festini dei privati. Mangiare e bere assieme serviva a rafforzare l’amicizia fra eguali e le relazioni del signore con i suoi vassalli, i suoi tributari, i suoi servitori, e persino i servitori dei suoi servitori. Egualmente, a un minore livello sociale, i mercanti suggellavano i loro accordi commerciali in una bettola, davanti a un boccale»139.

Il punto è proprio questo: mangiare insieme a qualcun altro, condividere i pasti e la tavola, hanno un ruolo di primo piano nella costruzione delle relazioni sociali, nella manifestazione dei rapporti tra persone (che siano di uguaglianza o di dominio/sudditanza), nell’ostentazione della cultura di appartenenza ma anche della condizione sociale; «noi non ci invitiamo l’un l’altro per mangiare e bere», scriveva Plutarco, «ma per mangiare e bere insieme»140.

La forma stessa della tavola non è casuale, nelle società antiche: egualitaria è quella rotonda dei cavalieri di Artù, gerarchica quella rettangolare, che ha un posto a capotavola, e dove il prestigio degli invitati si misura dalla distanza da esso. Nel suo mordace ritratto della corte costantinopolitana, Liutprando non lesina osservazioni taglienti riguardo al trattamento riservatogli da Niceforo II Focas, e non ultimo in fatto di cibo e bevande. Sbarcato il 4 giugno 968 a Costantinopoli, il vescovo di Cremona si reca dal Basileùs in veste di ambasciatore dell’imperatore tedesco Ottone I. La sua missione è cercare di ottenere da Niceforo il consenso a un’alleanza

138 J.-L. Flandrin - J. Cobi (éd.), Table d'ici, table d'ailleurs: histoire et ethnologie du repas, Paris 1999. Si

veda anche M. Aurell - O. Dumoulin - F. Thelamon (éd.), La sociabilité à table. Convivialité et commensalité à

travers les âges. Actes du colloque de Rouen 14-17 novembre 1990, Rouen 1992; M. Rouche, Les repas de fête à l’epoque carolingienne, in D. Menjot (éd.), Manger et boire au Moyen Âge. Actes du Colloque de Nice,

Paris 1984, pp. 265-296; P. Schmitt Pantel, I pasti greci, un rituale civico, in J. L. Flandrin - M. Montanari,

Storia dell’alimentazione cit., pp. 112-123; F. Dupont, Grammatica dell’alimentazione e dei pasti romani, in J.

L. Flandrin - M. Montanari, Storia dell’alimentazione cit., pp. 144-160; E. Gower, Loaded table, Oxford 1993; M. Montanari, Convivio. Storia e cultura dei piaceri della tavola dall’antichità al Medioevo, Roma-Bari 1989; G. Althoff, Obbligatorio mangiare: pranzi, banchetti e feste nella vita sociale del Medioevo, in J. L. Flandrin - M. Montanari, Storia dell’alimentazione cit., pp. 234-242.

139 J.-L. Flandrin - M. Montanari, Storia dell’alimentazione cit., p. 10. Contestualizzando il discorso nel quadro

altomedievale, si veda per esempio B. Effros, Creating Community with Food and Drink in Merovingian

Gaul, New York, 2002.

matrimoniale che avvicini i due imperi e legittimi l’esistenza di quello d’Occidente agli occhi di quello d’Oriente141. Il racconto della sua ambasceria presso la corte bizantina si dipana anche attraverso le vicende (o sarebbe meglio dire disavventure) gastronomiche in cui Liutprando e i suoi incappano. Tra queste, oltre il disgusto per i cibi e i condimenti di un mondo tanto diverso da quello continentale da cui proveniva, il disprezzo mostrato da Niceforo nei suoi confronti proprio per la collocazione a tavola: «Hac eadem die convivam me sibi esse iussit. Non ratus autem me dignum esse cuipiam suorum praeponi procerum, quintus decimus ab eo absque gausape sedi; meorum nemo comitum, non dico solum mensae non assedit, sed neque domum, in qua conviva eram, vidit»142. Quindici posti di distanza dal Basileùs (e a lui andò bene; i suoi compagni nemmeno ebbero il permesso di entrare nella reggia!), seduto a quelle tavole che a lui dovevano sembrare anche più lunghe e strette di quanto racconta, proprio per l’abissale distanza dall’Imperatore a cui veniva fatto accomodare ogni volta143.

Una missione diplomatica con scopo un’alleanza matrimoniale: come appena visto, questo genere di affari si discuteva anche a tavola.

A tal proposito, «nessun altro popolo si dedica più smodatamente a banchetti e a cerimonie di ospitalità»144, dice ancora Tacito dei Germani. «Non è lecito escludere chicchessia dalla propria casa: secondo i mezzi a disposizione, ciascuno, preparato il banchetto, accoglie l’ospite»145. La società che descrive lo storico romano sembra essere particolarmente avvezza alla condivisione delle esperienze quotidiane durante pranzi e cene. Subito dopo aggiunge che una volta destatisi e consumata la colazione, i Germani non disdegnano di ritrovarsi a discutere delle questioni più

141 Riguardo al contesto storico-politico della vicenda, rimando al saggio introduttivo presente in Liutprando

da Cremona, Tutte le opere, a cura di A. Cutolo, Milano 1945.

142 Liudprandi relatio de legatione constantinopolitana, in Die Werke Liudprands von Cremona, ed. J. Becker,

MGH SSRG, Hannover-Leipzig 1915, pp. 175-212, XI.

143 Ivi, XXXIII: «Residentibus itaque nobis ad mensam sine latitudine longam, pallingi latitudine tectam,

longitudine seminudam [...]».

144 Tacito, Germania, ed. cit., 21.

145 Ibidem. Un approfondimento delle consuetudini conviviali nell’Antichità e nell’alto Medioevo è in B.

Cabouret, Les rites d’hospitalité chez les élites de l’Antiquité tardive, Pratiques et discours alimentaires en

Méditerranée de l’Antiquité à la Renaissance, Actes du colloque de la villa Kérylos 6-7-8 octobre 2007, J.

Leclant, A. Vauchez, M. Sartre éd., fasc. Cahiers de la Villa « Kérylos , n° 19, 2008, pp. 187-222; J. Leclant, A. Vauchez et M. Sartre (éd.), Pratiques et discours alimentaires en  Méditerranée de l’Antiquité à la

Renaissance, Paris, 2008; A. McGowan, Ascetic Eucharist: Food and Drink in Early Christian Ritual Meals,

Oxford 1999; K. Dunbabin, The Roman Banquet, Images of Conviviality, Cambridge 2004; D. E. Smith,

From Symposium to Eucharist: The Banquet in the Early Christian World, Minneapolis 2003; B. Effros, Creating Community with Food and Drink in Merovingian Gaul cit.; J. Voisenet, Le banquet Chrétien au haut Moyen Âge (Ve-XIe s.): Un plaisir encadré, in Banquets et manières de tables au Moyen Âge, Aix-en-

importanti davanti a una tavola imbandita: «Poi escono di casa per dedicarsi agli affari e - altrettanto spesso - ai conviti [...]. Nessuno considera un disonore trascorrere il giorno e la notte in continue bevute»146. Questa consuetudine doveva sembrare eccessiva a un Romano, in quanto secondo le usanze a Roma non si cominciava a bere se non dopo il tramonto147. Ciò che però ci interessa di più è nel periodo che segue: «Ma nei banchetti per lo più discutono anche di come riconciliarsi con i nemici, come contrarre matrimoni, per procurarsi alleanze, della scelta dei capi, della pace, e infine della guerra: come se in nessun altro momento l’animo possa aprirsi a riflessioni semplici o accendersi per grandi pensieri. Inoltre questa gente, non astuta d’indole né accorta, scopre i più riposti segreti nella libertà dell’occasione conviviale: perciò il pensiero di ognuno è svelato e come messo a nudo»148.

Al di là dell’atteggiamento di Tacito, che di certo non rimane imparziale di fronte a quanto riporta, il dato storico è che presso quei popoli con cui Roma condivide ora il limes, presto tutti i territori occidentali, il banchetto è una pratica sociale radicata e quotidiana. Non che dalle sue parti non fosse lo stesso, ben inteso; vedremo come anche nella Romania molti racconti, e quindi molti momenti importanti, prendessero forma attorno a un convivio.

Ma nella fattispecie, qui ci interessa un particolare: «de iungendis affinitatibus [...] in conviviis consultant»149. «Non è un’esagerazione affermare che nel matrimonio anche la dimensione festiva è essenziale», scrive l’antropologo Joan Carreras. «[...] In ogni epoca e cultura esiste la festa nuziale. Ciò è talmente vero che si è potuto dire, con espressione sorprendente, che la “prima festa dell’umanità” è antica quanto l’uomo, poiché viene identificata con il primissimo incontro gioioso [...] tra Adamo ed Eva, cioè tra il primo uomo e la prima donna»150. Il matrimonio, in un certo senso, è l’istituto umano che dà all’accoppiamento una sua dignità sociale, distinguendo quest’ultimo dalla sua origine di mero istinto naturale.

È da queste considerazioni, che qui ho appena abbozzato, che la ricerca si muoverà. E per cominciare il mio percorso, azzarderò un passo in avanti di molti secoli, in un altro contesto storico e culturale, dove però ritroveremo un simile uso del linguaggio del cibo e della convivialità.

146 Ivi, 22.

147 Tacito, Germania, ed. cit., nota 78, pp. 73-74. 148 Ivi, 22.

149 Ibidem.

150 J. Carreras, Le nozze. Festa, sessualità e diritto, Milano 2001, pp. 20-21. Il riferimento è alle parole