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E SPRIMERSI ATTRAVERSO IL CIBO U N ESEMPIO DAL BASSO M EDIOEVO

La forza dell’uso e la forza del diritto: il banchetto come pratica sociale e giuridica

2. E SPRIMERSI ATTRAVERSO IL CIBO U N ESEMPIO DAL BASSO M EDIOEVO

Come accortamente dichiara Gerd Althoff, «se dunque il mangiare e il bere assieme era di fondamentale importanza per la vita dei gruppi sociali del Medioevo e segnatamente per quelli fondati su legami di cooperazione e di amicizia, è indiscutibilmente importante anche un’altra cosa: l’essenziale è mangiare e bere assieme e non ciò che si mangia e si beve. Per questo disponiamo di rare informazioni sui dettagli delle portate o delle bevande servite in tali occasioni. L’unica certezza è che veniva richiesto tutto ciò che cucine e cantine potevano offrire»151. La sua osservazione è quanto mai puntuale: le fonti altomedievali, a differenza di quelle posteriori all’undicesimo o dodicesimo secolo, non indugiano quasi mai nel descrivere ciò che esattamente accadeva durante i numerosi convivi che riportano, ma si soffermano piuttosto sulla centralità di queste pratiche consuetudinarie che coinvolgevano la società a tutti i livelli. «Nella gamma delle forme di comunicazione non verbale del Medioevo», continua lo studioso, «il pranzo (convivium) era uno dei segni principali con i quali si rendevano note decisioni, novità e cambiamenti [...]. Simili pranzi venivano organizzati in molteplici occasioni e avevano luogo quando singoli personaggi o gruppi di persone stipulavano una pace oppure un’alleanza; quando dei gruppi celebravano in forma rituale, a scadenze fisse, il mantenimento del loro legame; quando un’occasione particolare (battesimo, matrimonio, investitura, insediamento) offriva il motivo per manifestare in modo visibile i legami esistenti e per rafforzarli attraverso comportamenti idonei»152. Ovvio che questo, come naturale conseguenza, pone dei limiti ai margini di analisi dello storico, che potrà d’altro canto cogliere l’importanza culturale del rituale in sé e per sé.

Ma per cominciare, prenderò come esempio proprio una cronaca che si colloca cronologicamente oltre ai confini temporali che mi sono imposto, e non senza motivo. I particolari che riuscirò a cogliere da questa, infatti, risulteranno senz’altro utili per le osservazioni che svolgerò in seguito.

Nel 1478, come riportato dalla Historia di Bologna di Cherubino Ghirardacci, si stipulò il contratto per il fidanzamento di Annibale II Bentivoglio e Lucrezia d’Este153, quando i due avevano rispettivamente 9 e 8 anni. Un’alleanza tra due delle famiglie signorili più potenti dell’epoca

151 G. Althoff, Obbligatorio mangiare: pranzi, banchetti e feste nella vita sociale del Medioevo cit., p. 237. 152 Ivi, p. 235.

153 Della Historia di Bologna, Parte terza del R. P. M. Cherubino Ghirardacci bolognese dell’Ordine

prendeva forma attraverso un legame matrimoniale, come da consuetudine. Nove anni dopo, nel 1487, Bologna si preparava ad accogliere la sposa154: «Disponendo, come è detto, il signor Giovanni [Bentivoglio] le cose per ricevere la sposa del figliuolo, egli fa rinovare li banchi et botteghe di legno che erano intorno la piazza de’ signori [...]; rimosse ancora li banchi di legnami che erano per le strade et rendevano le vie anguste et impedite, opera veramente bella e laudevole»155. Certi dettagli danno la misura della grandiosità dell’evento, manifestando la pompa che l’aristocrazia signorile riservava a occasioni di questo tipo: «Poscia fece rovinare molte case avanti il suo palagio per farli una bella et spaciosa piazza, soddisfacendo a pieno li possessori di esse. In somma abbellì di tal maniera le strade della città, che era cosa da tutti molto lodata, et pareva Bologna al doppio bella et dilettevole»156. La stessa cura venne riservata alle strade in cui la sposa sarebbe passata in corteo: «Et in questo tempo [Giovanni] fece addobbare tutte le vie di panni di razza et coprirle con panni di lana, per le quali doveva passare la sposa, et vi fece fare sette archi trionfali alla rustica, tanto ben fatti, che sendo su le tavole dipinte, parevano di marmo. Fece anco coprire tutta la piazza avanti il suo palagio con bellissima verdura, panni, festoni, frutti, fiori et compassi, che essendo di gennaro, pareva di maggio». Il volto di Bologna cambia, e anche attorno ai suoi palazzi sembrano venire cuciti degli abiti degni della magnifica festa che sta per aver luogo. Perfino la durezza dell’inverno sembra smorzarsi al cospetto di un fasto che inonda di colori e profumi la piazza antistante il palazzo del signore.

Questo per quanto riguarda gli adeguamenti architettonici e le migliorie estetiche alla città. Ma quando la cronaca scende nel dettaglio dei preparativi della festa nuziale vera e propria, solo allora tocchiamo con mano l’effettiva importanza sociale di un matrimonio d’alto rango. «Fatto questo, egli [Giovanni] mandò ad invitare tutti li signori, cardinali et altri nobili alla sua festa, et a questo fine, per alloggiarli con ogni maniera di honore et pompa, fece ornare molte camere sì nel suo palagio come nelle case de’ gentilhuomini»157. L’etichetta e la tradizione (e la legge? Lo vedremo poi) richiedevano la partecipazione di tutte le personalità più influenti legate alle famiglie degli sposi, il maggior fasto possibile nei festeggiamenti e lo svolgimento di tutti i rituali nuziali canonici: solo così un matrimonio poteva dirsi solenne. Ed essendo questo una delle occasioni in cui

154 Della Historia di Bologna, Parte terza del R. P. M. Cherubino Ghirardacci cit., p. 235. Da intendere come

sponsa, quindi “fidanzata”.

155 Ibidem. 156 Ibidem. 157 Ibidem.

maggiormente la dignità di una famiglia signorile poteva palesarsi alla città e ben fuori dalle sue mura, è presumibile che per organizzare il tutto non si badasse affatto a spese.

L’importanza del cerimoniale è così tipica e radicata nella cultura medievale che le nozze tra Annibale e Lucrezia non sono solo il coronamento di un’alleanza diplomatica, ma anche un momento in cui rendere omaggio a Giovanni da parte dei potenti della città attraverso il dono di immense quantità di beni: «Mentre che questo si faceva, furono fatti innumerabili doni et presenti al signor Giovanni da tutti li gentilhuomini, cittadini, artefici et arti, come dalle castella, ville et comuni del contà di Bologna»158. Ebbene, questo che stiamo per osservare è il primo esempio di come il cibo entri nei rituali nuziali in numerosi modi, ben oltre ciò che ci aspetteremmo, e di come la società medievale ne facesse uso al pari di un vero e proprio linguaggio159.

Per cominciare, il cibo è appunto un omaggio al potere. L’Historia di Bologna riporta l’imponente lista di doni che vennero appunto indirizzati a Giovanni, e forse non deve stupire l’imperante presenza di cibarie, che la fa assomigliare piuttosto a un inventario di provviste160. A parte il denaro, la cera e suppellettili varie (come opere in bronzo e tappezzeria), Giovanni si vide consegnare in dono una cospicua quantità di selvaggina, maiali, vino, cereali, formaggi, sale e zucchero, e sappiamo quanto soprattutto gli ultimi due fossero prodotti di lusso. Questi regali sono il ritratto della società del tempo, la sua più genuina fotografia: sono le primizie di un centro urbano che si fonda economicamente sul suo contado e sulle foreste circostanti, e che allunga le sue braccia fino al mare, preziosa e inesauribile riserva di sale. Ma non soltanto questo: è anche la manifestazione che l’uomo del tempo associa ai prodotti alimentari un significato forte, in conseguenza del loro grande valore commerciale, e non solo a quelli più ricercati (come appunto zucchero e sale). Quando si vuole rendere omaggio al proprio signore tramite la donazione di un presente, si ricorre plausibilmente a quanto di più gradito ci sia per lui, nei limiti delle proprie possibilità: questo non può non offrirci uno specchio, seppur parziale, della società del tempo.

158 Ibidem.

159 Un eccellente quadro di come il cibo sia stato in innumerevoli modi parte delle celebrazioni nuziali lo si

trova in A. De Gubernatis, Storia comparata degli usi nuziali in Italia e presso gli altri popoli indoeuropei, Milano 1878, su cui avremo modo di ritornare.

160 Della Historia di Bologna, Parte terza del R. P. M. Cherubino Ghirardacci cit., pp. 235-236: «E prima vino

corbe 396, orzo corbe 137, spelta corbe 3343, cera in pani libre 257, capponi para 1621, pernici para 317, fagiani para 218, tapezzaria di più sorti pezzi 405, salsiccia grossa copie’ 378, candele di cera bianca libre 800, scatole di confetti 161, conigli 44, lepori 29, opere di maestro di legnami 600, bicchieri 1000, bronzi 300, proci grossi 600, fieno carra 1000, paglia carra 800, pomi ranzi 700, torchi di cera 500, pesce some 57, forme di formaggio libbre 5000, danari in contanti ducati 900, sale et salina corbe 5, marzapani 83, aceto forte corbe 16, frutti di più sorte some 40, zuccaro fino pani 78, tortore, quaglie, piccioni para 1000, caprioli para 13, capretti capi 200, ove 2525, porchette numero 18, vitelli 380, argenti in più opere libbre 300, capi 50; la compagnia de’ muratori gli donò un bronzo d’argento di onze 26 e tre quarti di valuta di scudi 95 [...]».

Il 28 gennaio del 1487, domenica, Annibale e Lucrezia ritornarono da Ferrara (dove lo sposo era andato a prendere la futura moglie) ed entrarono a Bologna, accolti dai personaggi politici più eminenti dell’epoca, tra cui Lorenzo de’ Medici e il marchese di Mantova, o dai loro prossimi e legati, nonché il vescovo di Urbino. La sposa venne condotta al palazzo dove, giunta la sera, si allestì un sontuoso banchetto:

«Giunta al palaggio, il signor Giovanni et Ginevra la vennero ad incontrare con un bel drappello di gentildonne riccamente addobbate et la riceverono con faccia lieta conducendola di sopra al suo alloggiamento; et gionta l’hora della cena entrò nella sala grande, che tanto magnificamente era addobbata, che niente meglio veder si poteva»161.

Ricevuta con grandi onori, Lucrezia viene quindi introdotta in quella che sarà la sua nuova dimora. I festeggiamenti per le incombenti nozze possono finalmente cominciare.

«Pendevano nel mezzo di sala due candelabri o lumiere tutti d’argento, et ciascuno sosteneva sei torchi di cera bianca accesi che illuminavano tutta la sala ove, apparecchiate le tavole, si appresentorno sei nobilissimi scalchi generali [...]. Oltre a questi v’erano altri 25 scalchi che sotto loro havevano 6 giovani per servitio delle tavole [...]. Erano in tutto li servitori di questi 25, scalchi 150, ornati, come si è detto, di nobili et pretiose vesti [...]»162. La sala principale è gremita di ospiti e servitori, ed è tempo che il cibo venga servito. O almeno, questo è quello che ci aspetteremmo. Ma come osservavo poc’anzi, il cibo non ha uno scopo meramente alimentare. Il banchetto stesso che sta per essere consumato ne è già una prova, essendo l’occasione per condividere con gli invitati un momento fondamentale per la famiglia signorile. Eppure, il ricco menù del convivio diventa qui anche strumento d’ostentazione della potenza dei Bentivoglio da mostrare alla città:

«Fu cominciato il convito a hore 20 et durò fino alle 3 hore di notte. Hora data l’acqua artificiata alle mani et con sottilissimi drappi assignati posti a tavola, che erano 14 tavole, si cominciarono a portare le vivande. Vero è che prima che fossero presentati avanti, erano portate con grandissimo onore intorno la piazza

161 Ivi, p. 237. 162 Ivi, pp. 237-238.

del palazzo per istendere con ordine li servi et anche per farne mostra al popolo, accioché egli si vedesse tanta magnificenza»163.

Prima di essere serviti a tavola, i prelibati piatti della cena vengono esposti dalla servitù al popolo nella piazza del palazzo, perché l’onore e il potere di un casato passano anche per la cucina e la tavola, specie in un mondo, quello urbano del XV secolo, ancora dipendente dai capricci della natura e dalle rese agricole, e che le mura di cinta non rendevano necessariamente immune dalla fame. Il lusso, così come in tutte le culture, si misurava anche sugli eccessi alimentari, e la quantità delle portate elencate da Cherubino Ghirardacci giustifica appieno le sette ore della durata della cena164.

163 Ibidem.

164 Non dimentichiamo che già in quest’epoca erano state emanate normative apposite (la cosiddetta

legislazione suntuaria) atte a disciplinare le spese in occasioni quali i banchetti di nozze. Si veda La

legislazione suntuaria. Secoli XIII-XVI. Emilia Romagna, a cura di M. G. Muzzarelli, Roma 2002; M. G.

Muzzarelli - A. Campanini, Disciplinare il lusso. La legislazione suntuaria in Italia e in Europa tra Medioevo

ed Età moderna, Roma 2003. La Chiesa probabilmente non si sottraeva a simili manifestazioni di lusso. La

Corte pontificia di Avignone ce ne dà un esempio: sontuoso è il banchetto nuziale dato da Giovanni XXII nel 1324 per le nozze di una sua pronipote. In quell’occasione si consumarono 4000 pani, 8 buoi, 55 montoni, 8 maiali, 4 cinghiali, 200 capponi, 700 polli, 580 pernici, 270 conigli, 4 gru, 2 fagiani, 2 pavoni, 3 quintali di formaggio, 3000 uova, e via dicendo (Cfr. E. Müntz, L'argent et le luxe à la cour pontificale d'Avignon, in

Non solo quantità, ma anche fini preparazioni e raffinate ricette165. Anzi, il convito sembra diventare un vero e proprio trionfo della fantasia gastronomica dei cuochi. Salta così tanto all’occhio la spettacolarità e la ricerca del colpo a effetto che la qualità (sicuramente prelibata) delle vivande diventa quasi accessoria. Questo è parlare con il cibo, perché non tutti possono permettersi, oltre alla quantità dei prodotti, un personale di cucina così capace ed efficiente. In particolare, nella sontuosa sequenza di piatti, per lo più a base di carne, il centro della scena pare spesso riservato a delle costruzioni in miniatura che esaltano le singole portate e omaggiano la cultura nobiliare: così il castello di zucchero, scolpito finemente con tanto di torri e merli, pieno di uccelli vivi che vengono poi liberati; così anche il castello pieno di conigli, anch’essi liberati nella sala per il divertimento dei convitati; infine, un ultimo castello con prigioniero un maiale grugnante, preludio di vassoi di porchette. Anche l’occhio vuole la sua parte, insomma. Allo stesso scopo vengono servite cacciagione e selvaggina rivestite delle proprie penne e pelli e presentate come ancora in vita: ecco i pavoni che fanno la ruota e altre varie specie di uccelli, ecco le lepri che stanno in piedi da sole, e i caprioli.

165 Della Historia di Bologna, Parte terza del R. P. M. Cherubino Ghirardacci cit., pp. 238: «Furono in mensa

prima presentati li pignocati indorati, cialdoni et malvasia dolce et garba et moscatelli in vasi d’argento. Poi piccioni arrosti, fegatelli, tordi, pernici, con ulive confette et uva in 125 piatti d’argento ponendo fra due et due un sol vaso, et siccome di queste cose anche degl’altri cibi. Presentorno poi una cesta dorata con il pane distribuendolo a ciascuno delle mense. Poi fu portato un castello di zuccaro con li merli e torri molto artificiosamente composto pieno di uccelli vivi; il quale, come fu posto nel mezzo della sala, uscirono fuore volando tutti gl’uccelli con gran piacere et diletto de’ convitati. Venne poi nella sala un capriolo et uno struzzo, dietro alli quali vennero li pasteletti coperti, teste di vitello con il collo in piatti d’argento dorati, capponi alessi, petti et lonze di vitelli, capretti, salciccioni, piccioni, minestra et sapori, pure ne’ vasi d’argento dorati. Poi appresentarono pavoni vestiti con le loro penne a guisa che facessero la ruota, et a ciascuno de’ signori ne fu presentato uno, havendo uno scudo al collo con l’arme sua. Poi mortadelle, lepri vestiti con la lor pelle, che stavano in piedi, come vivi, con caprioli parimente con la lor pelle. Erano cotti in guazzetto questi animali e tutti gl’animali et uccelli che furono portati in tavola cotti, erano tanto artificiosamente fatti et addobbati con le loro penne et pelli che si mostravano vivi. Dietro a questo vennero le tortore, fagiani, che dal becco loro ne usciva’no fiamme di fuoco, accompagnati con pomi di Adamo et di naranze et sapori. Vennero poi le torte di zuccaro con amandole, giuncate insieme con biscotti; addussero poi teste di capretti, tortore, pernici arrosto et poi un castello pieno di conigli, il quale posato nella sala, uscirono fuore correndo chi qua et là con risa et piacere de’ convitati. Seguitarono poi dietro il castello pasteletti di conigli per cotal modo composti, che non parevano differenti puntino da quelli che dal detto castello erano usciti; poi portarono capponi pure vestiti. [...] Poscia fu portato un artificioso castello ove era un grosso porco, et posto nel mezzo della sala, non potendo uscir fuori del castello, gridando drizzavasi in piedi, guardando per li merli hora uno et hora l’altro ruggendo, et così affaticandosi et gridando per fuggirsi, apparvero li scalchi con li servi con porchette cotte intiere dorate che in bocca tenevano un pomo, poi vennero arrosti di più sorti, anatre salvatiche et simili. Alla fine presentarono coppi di latte et gelatina, pere, paste guaste, zuccherini, marzapani et altre simili gentilezze. Et data l’acqua odorifera alle mani in vasi d’oro et di argento, furono presentate confettioni di varie sorti con preciosissimi vini».

Un primo esempio di come il banchetto di nozze, è evidente, assolveva a numerosi scopi, o meglio: di come il cibo, questa volta all’interno di una festa conviviale, diventava strumento comunicativo. Né, d’altro canto, si allestiva necessariamente un solo convivio a ogni matrimonio166.

Nei giorni dedicati ai festeggiamenti per quello di Annibale Bentivoglio e Lucrezia d’Este, infatti, al convito appena descritto ne segue un altro il giorno successivo, appena il corteo fa ritorno dalla messa in cattedrale:

«Giunti alla chiesa di san Petronio, si cantò una solenne messa da eccellenti musici; et finita ritornarono tutti al palagio del signor Giovanni con l’istesso ordine che erano andati. Et gionta l’hora del desinare, con il medesimo ordine del giorno avanti si posero a tavola et lautissimamente convitorno, et finito il convito con suoni et balli passarono buona pezza del giorno»167.

È dunque chiaro che la società medievale (qui dovrei dire bassomedievale) concepiva questi eventi sociali come un momento in cui condividere insieme tempo, spazi, e quindi anche pasti, per rafforzare i rapporti interpersonali e favorire la reciproca conoscenza. A quest’ultimo banchetto, infatti, seguirono dei giochi nella piazza antistante il palazzo e poi delle danze. Il tutto serve ad allietare ulteriormente l’atmosfera fino al momento della cena, seguita a sua volta da altre danze e giochi fino all’ora di coricarsi168. Il mattino seguente, dopo la messa, «fu ordinata una bella collatione a tutti li signori forastieri, accioché agiatamente potessero stare a vedere la giostra ordinata et bandita.»169.

Ora, è dovere dello storico tenere sempre presente che ogni fonte è un racconto della realtà, non la realtà autentica. Dunque è giusto dare a queste descrizioni il peso che compete loro: si tratta di una

166 «[...] pranzi e banchetti fungevano in qualche modo da rituali atti a creare fiducia e confidenza nel

momento in cui si stabiliva il legame e spesso abbiamo notizia di uno di questi convivia durato a lungo e talvolta anche per un tempo eccessivo. Di solito si mangiava e si beveva assieme per molti giorni» (G. Althoff, Obbligatorio mangiare: pranzi, banchetti e feste nella vita sociale del Medioevo cit., p. 236). Ovvio che nel caso di Annibale e Lucrezia, la ripetizione di banchetti è in accordo alle più comuni norme d’ospitalità, visto l’elevato numero di ospiti accorsi da luoghi lontani, ma questo era in accordo alla natura stessa della festa, che rappresentava in prima istanza la celebrazione di un’alleanza diplomatica e di un momento associativo: di conseguenza, il condividere quest’esperienza per più giorni era in un certo senso funzionale alle finalità dell’evento, e la convivialità era uno dei modi che più naturalmente adempivano a esse.

167 Della Historia di Bologna, Parte terza del R. P. M. Cherubino Ghirardacci cit., p. 239.

168 Ivi, p. 240: «Dove nella sala del signor Giovanni si diede principio al danzare insino all’hora della cena; la

quale giunta, et posti a tavola, non meno che per avanti furono lautamente ricevuti, et finita la cena si ritornò al danzare et a’ suoni. Et poscia si andarono a riposare al loro assignati alloggiamenti».

cronaca scritta alla fine del XVI secolo da un frate agostiniano che basava la propria documentazione su carte archivistiche (non più dunque, come in passato, su informazioni più o meno attendibili di vari testimoni). Presa così com’è, l’Historia sembra assegnare un ruolo centrale