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SECONDA PARTE Dalla parte della metrica

5. U NA NUOVA METRICA STA NASCENDO

5.2 Un esempio da Zanzotto

In un saggio dedicato alle Questioni metriche novecentesche, Mengaldo esponeva alcune difficoltà circa la possibilità di pronunciarsi a proposito delle ipotesi fortiniane «in assenza di (non agevoli) indagini sistematiche».51 Argomentando nei suoi saggi la proposta, lo

stesso Fortini rilevava d’altronde non pochi ostacoli, relativi soprattutto alla distinzione del numero degli accenti forti distribuiti all’interno di un verso tendenzialmente “libero”.52

50 Endecasillabo ricorrendo a una difficile sinalefe tra due vocali accentate («La verità^è che^il mòndo si fa

piccolo» -+-+-+-+-+--), che egli legge come una pentapodia giambica, intensificando la percussività della dizione rispetto a una più “naturale” lettura effettuata da un locutore italiano. L’elemento costituisce di fatto un indizio non indifferente per ricostruire l’orecchio dell’autore, impegnato in quel momento nella traduzione delle Poesie e canzoni di Brecht.

51 Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del novecento. Terza serie, Einaudi, Torino 1991, p. 40. 52 SI, pp. 803-804.

Riprendendo l’ipotesi accentuale nel saggio di «Paragone», l’autore poteva inoltre confessare – forse spinto da alcune critiche sollevate da Pasolini53 – l’«elevato grado di

arbitrio e di incertezza» contenuto in alcune sue considerazioni sulla materia.54 Per questa

e altre ragioni che più avanti approfondiremo, sarebbe opportuno evitare di leggere nei suoi saggi una formulazione compiuta da applicare in maniera forzata ai suoi versi. Non si tratta soltanto di prudenza. Come vedremo, costruendo le sue argomentazioni Fortini non sceglie mai di esaminare a campione i propri versi, ma attribuisce ai poeti contemporanei una precisa direzione compositiva a partire da alcune tendenze che egli crede di individuare come critico-lettore; misure che, come riconoscerà in Attraverso

Pasolini, aveva tentato al contrario di sperimentare in proprio.55 In questo paragrafo vorrei

provare a condurre un’analisi di un componimento suggerito dall’autore nel suo saggio, al fine di vagliare progressivamente l’applicabilità della nuova “norma” e isolare, allo stesso tempo, le linee generali di un metodo che ritengo indispensabile restituire per una buona comprensione dei suoi interventi sulla metrica.

Secondo Fortini, i versi apparentemente “liberi” della produzione italiana contemporanea sono formalmente riconducibili a tre tipi, a seconda del numero di accenti che reggono il segmento orizzontale del componimento. Il primo tipo, «quello di Maia», costruito su tre accenti forti, viene da lui individuato nei testi di Cardarelli, del Quasimodo degli anni Trenta, in De Libero, in Volponi e in Zanzotto.56 Di quest’ultimo, Fortini

riporta alcuni versi di Epifania, poesia d’apertura della raccolta Vocativo (1957) contenuta nella sezione Come una bucolica, che qui proverò a esaminare. La lettura “metrica” del componimento consentirà di enucleare i tratti della proposta accentuale, sottoponendo al vaglio critico i punti principali dell’ipotesi fortiniana. Riporto di seguito il testo, indicando a margine la scansione secondo il criterio sillabico tradizionale, accompagnata – tra parentesi quadre – dalla possibile distribuzione dei tre accenti forti, che qui proverò a classificare osservando le premesse teoriche fornite da Fortini. Evidenzio inoltre in grassetto i versi riportati dall’autore nel saggio del ’58:

53 Cfr. P. P. Pasolini, Lettera a Fortini, 31 ottobre 1957, in AP, p. 87; cfr. infra, 8.3. 54 SI, p. 809.

55 AP, p. 84.

56 Di quest’ultimo dirà altrove: «Cominciò con un acceso, tumultuoso metro pindarico che gli viene – via

Punge il pino i candori dei colli Decasillabo [3/4]

e il Piave muscolo di gelo Novenario [3] nei lacci s’agita, nel bosco. Novenario [3] Ecco il mirifico disegno Novenario [3]

5 la lucente ferma provvidenza Decasillabo [3] la facondia che esprime Settenario [2/3] e riannoda e sfila Settenario [2] echi, gemme, correnti. Settenario [3] Tra voi parvenze e valli appena Novenario [3/4]

10 sollecitate dal soffio del claxon, Endecasillabo [3] mormorate dall’alba, Settenario [2] valgo come la foglia che riposa Endecasillabo [3] col vivo cardo col bozzolo e l’oro, Endecasillabo [3] valgo l’onda minuscola Settenario [3] 15 che fu tua sete scoiattolo un giorno, Endecasillabo [3/4]

valgo oltre il dubbio oltre l’inverno Novenario [3] che s’attarda celeste ai tuoi balconi, Endecasillabo [3] […]57

In ossequio al criterio dell’isocronismo degli accenti e alla regola secondo la quale il metro utilizzato per il componimento è fissato dal primo verso della serie che fa da modello ai successivi, un evidente problema di scansione si presenterebbe già al v. 7, classificabile, secondo le regole della metrica tradizionale, come un senario a due accenti forti in 3a e, naturalmente, in 5a posizione («e riannòda e sfìla»). Secondo Fortini, «le libere

sillabe» del v. 5 («la lucente ferma provvidenza») possiederebbero la stessa durata e gli stessi tre accenti «delle sette (o sei, se fossero inserite in una serie di senari)» sillabe del verso «e riannoda e sfila», per il quale sarebbe più problematico determinare una struttura a tre accenti forti, al contrario della serie dei versi precedenti. Per risolvere questa impasse, Fortini propone di scindere il verbo riannodare con una dieresi che conferisce alla parola un doppio accento: «e rì|annòda-e|sfìla». In questo modo, la e iniziale del v. 7 verrebbe ad assumere il medesimo valore temporale di la lu del v. 5, così come ma-provvi equivalgono a da-e. Come si nota, la prominenza dell’accento forte rende le sillabe – logicamente o retoricamente meno importanti che lo precedono e lo seguono – enclitiche o proclitiche,

57 Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, con due

così come indicato dalla nozione di centroide avanzata da LaDrière. Nella proposta di lettura fortiniana, i vv. 5-7 andrebbero così scanditi:

la lucèn|te fér|ma provvidènza la facón|dia ché^es|prìme e rì|annòda^e|sfìla

Nella difficoltà di presentare un modello compiuto, Fortini si premura a dichiarare l’iniziale incertezza della nuova metrica rispetto al limite che «la metrica tradizionale mantiene ben fermo tra una forma e l’altra e che concede alla coscienza metrica di tendersi e di giocare».58 In questo modo, egli rileva il carattere eteronomo e convenzionale della

metrica, intesa come norma comunemente accettata e condivisa.59

Come già indicato per i versi precedenti, anche il v. 16 «valgo oltre il dubbio oltre l’inverno» presenta ulteriori difficoltà di scansione. Secondo Fortini, infatti, nulla ci dice che la lettura debba richiedere tre accenti (valg-òltr-il-dùbbi-oltre-l’invèrno) o non piuttosto quattro (valg-òltr-il-dùbbio-òltre-l’invèrno).60 La stessa posizione degli accenti

riportata da Fortini risulta a mio giudizio discutibile. Da parte mia, sarei favorevole ad accentare il verbo «valgo», con una scansione che privilegia la prima posizione del verso; un’ipotesi di lettura che può essere confermata dalla ripresa anaforica del verbo ai vv. 12 e 14, accentato, in entrambe le occorrenze, in prima battuta.

Nell’analisi condotta su Epifania, è possibile isolare inoltre un dettaglio non indifferente: Fortini riporta il componimento in una versione “acefala”, privandolo cioè del primo verso; lo stesso verso che, stando al criterio dell’isocronismo accentuale dichiarato in apertura – «condizione necessaria per la stessa riconoscibilità di tale misura»61 –, avrebbe

il compito di costituire il modello per i versi successivi. L’operazione potrebbe apparire in un certo senso “strategica”, considerando che proprio il primo verso – «Punge il pino i candori dei colli» – risulta meno disposto a essere inquadrato entro i confini della scansione a tre accenti proposta per la serie dei versi successivi. Nulla ci vieta infatti di leggere il primo verso non già rispettando uno schema a tre accenti ritmici – a tripodia

58 SI, p. 804.

59 Cfr. infra, capitoli sesto e settimo. 60 SI, p. 804.

anapestica ( - - + - - + - - + - ) – ma a quattro ( + - + - - + - - + - ), dove l’accento tonico del verbo d’apertura permette di veicolare nella lirica un diverso valore semantico. D’altra parte, distribuendo sul primo verso tre soli accenti forti verrebbe in un certo senso disattivata l’intensità dell’accento lessicale in battere, con la conseguenza di indebolire la carica espressiva dell’azione veicolata dal verbo «pungere» a favore di una più marcata prominenza semantica del soggetto della frase («il pino»).

Nel rispetto delle regole della teoria metrica “tradizionale”, nessun problema di scansione sussiste per il primo verso del componimento. Stando al criterio di classificazione sillabica, sarebbe infatti relativa – da un punto di vista strettamente “metrico” – la distribuzione degli accenti all’interno del verso, dal momento che proprio l’accento in nona posizione consente di classificare il verso come decasillabo (a cambiare è semmai l’esecuzione). Riconoscendo al primo verso un numero di quattro accenti forti e rispettando di conseguenza l’isocronismo tonico, la proposta fortiniana di lettura a tre accenti verrebbe in un certo senso indebolita, data l’importanza che il primo verso assume nel “dirigere” l’ordinamento degli accenti successivi.62 Forse consapevole di questo

ostacolo, Fortini riporta il componimento di Zanzotto facendolo iniziare – al contrario degli esempi successivi presenti nel saggio – dal secondo verso («e il Piave muscolo di gelo»), meno problematico rispetto al primo della serie.

L’osservazione non intende qui essere frutto di eccessiva pedanteria. Il sospetto di una effettiva validità della lettura a tre accenti permette di orientare la nostra analisi verso una zona d’ombra in cui è possibile confrontare il componimento di Zanzotto in diffrazione con il celebre coro manzoniano del secondo atto del Carmagnola, che presenterebbe in apparenza lo stesso problema di scansione. Ecco l’incipit:

S’ode a destra uno squillo di tromba; a sinistra risponde uno squillo: d’ambo i lati calpesto rimbomba da cavalli e da fanti il terren.

62 Un criterio non totalmente dissimile di organizzazione metrica verrà adottato, come vedremo, da Amelia

Rosselli, ma a partire da una concezione radicalmente diversa rispetto all’impostazione teorica fortiniana; cfr. infra, 9.3.

Com’è noto, il coro manzoniano è composto da centoventotto decasillabi con un andamento regolare scandito da un “piede” tendenzialmente anapestico, che fissa gli accenti in 3a, 6a e 9a posizione (è l’andatura del cosiddetto “decasillabo manzoniano”).

Rispetto al componimento metricamente “asimmetrico” di Zanzotto e alla lettura accentuale di Fortini, è evidente nell’esempio di Manzoni una maggiore regolarità – ineluttabile – che assorbe l’esecuzione del lettore in una forte monotonia provocata dalla cadenza isoritmica.63 Evitando certo di livellare le profonde differenze fisionomiche tra i

due campioni, potremmo ugualmente chiederci – come del resto fa anche Menichetti64

se sia possibile o meno ammettere una lettura del primo verso manzoniano con accento in prima battuta («S’ode a destra uno squillo di tromba»), ovvero rispettando, come nel primo verso di Epifania, i quattro accenti linguistici della frase. A questa domanda, Menichetti risponde che nel coro:

l’inerzia ritmica fa sì che questo accento venga metricamente svalutato; anche se riteniamo che non si abbia il diritto di sopprimerlo nell’esecuzione, esso viene mentalmente come assorbito nell’uniformità globale del movimento anapestico.65

Applicare l’osservazione di Menichetti ai versi di Zanzotto risulta tuttavia un procedimento più impervio, poiché è assente, rispetto al coro del Carmagnola (tutti e centoventotto i versi sono, come si è detto, decasillabi anapestici), una regolarità metrica e, di conseguenza, una marcata inerzia ritmica. Nel testo manzoniano l’andatura più o meno meccanica dei decasillabi mostra infatti chiaramente un’astrazione metrica volta a creare, nella voce del lettore, una cavità pronta ad accogliere i versi successivi. L’identità metrica risulta nettamente più forte sia rispetto alle connessioni con gli altri versi della serie (più simili, quindi rispondenti al criterio identitario) sia in relazione al flusso semantico che scorre sotto ogni forma di componimento in versi. Dopo aver interiorizzato la carica allusiva di una più marcata astrazione metrica, il lettore del Carmagnola “correggerà” l’ipotetica scansione a quattro accenti del primo verso con il filtro normativo

63 Aldo Menichetti, Metrica italiana: fondamenti metrici, prosodia, rima, Antenore, Padova 1993, p. 364. 64 «Se esaminiamo meglio il primo verso, osserviamo che in realtà un accento linguistico colpisce anche

«ode», Ibidem.

dello schema a tripodia anapestica. Non sarà inoltre da sottovalutare, come vedremo, la memoria metrica dello stesso lettore.

Detto altrimenti, rispetto al componimento di Zanzotto – ma con ciò si rischia di cadere nell’ovvio – è più evidente in Manzoni il potere allusivo-organizzativo esercitato dalla metrica tradizionale, la quale, applicando uno schermo simbolico nello scioglimento temporale dei versi del coro, permette all’orecchio del lettore di raddrizzare una dizione non anapestica, in funzione di un’identità ritmica che ricorda – ma certo con differenze notevoli che fra poco presenteremo – quella che Pavese aveva definito, parlando dei suoi versi a carattere “anapestico”, una «certa tiritera di parole».66 Starà al «buon senso» del

lettore sottrarsi alla “tirannia” identitaria dei versi, cercando di fuggire quanto più possibile l’inerzia ritmica ed evitare di rimanere intrappolato nella scansione aritmetica della metrica.67 Tutt’al più, egli potrà rispettare il registro patriottico del coro «fremente di

commossa indignazione» (semantica del metro), liberandosi a un’esecuzione che «richiede una decisa enfasi risorgimentale, ora guerresca ora carica di mesto pathos».68 Bisogna

tuttavia fare attenzione alla differenza tra un’ossatura metrica (temporalità oggettiva) e una scansione prodotta dall’esecuzione del discorso in versi (temporalità soggettiva): comunque si legga ad alta voce il primo verso del coro manzoniano, questo e i successivi rispondono con ogni evidenza al criterio normativo della metrica, garantito, come si è detto, dall’accento in nona posizione.

La “monotonia” della scansione a tre accenti suggerita da Fortini può essere confrontata con un giudizio su Zanzotto che l’autore pubblica sulle pagine della rivista di Olivetti all’uscita di Dietro il paesaggio, che qui vale la pena riportare:

Zanzotto ha due qualità minori: la bravura di orecchio, e una certa unità eidetica; e una maggiore, che gli deve aver valso il premio S. Babila e che Pampaloni m’ha fatto notare: un robusto senso del ritmo. La bravura è nei giochi stupiti delle analogie; l’unità eidetica è data dal paesaggio – monti, alberi, nevi, acque di torrenti – lucido e mentale, continuo pretesto o stimolo. […] La novità ritmica tiene insieme il mazzo d’aculei di queste immagini sapientemente «automatiche»: dapprima, quasi

66 Cesare Pavese, Il mestiere del poeta (a proposito di Lavorare stanca), in Id., Lavorare stanca, Einaudi, Torino

19434 (prima edizione: 1936), p. 128.

67 Senza «esagerare il “taratàtara”», il lettore «si lascerà guidare dal buon senso – e dal senso e colore delle

frasi – per non cadere nella monotonia», Aldo Menichetti, Metrica italiana. Fondamenti metrici, prosodia, rima, cit., p. 364.

trascrizioni “barbare” di alcaiche; poi, nella 2a e nella 3a parte del libretto (la migliore, quest’ultima), strofe di versi di due o tre accenti che rompono ogni accenno di canto e si seguono rigidi, sincopati dall’a capo, quasi privi di punteggiatura, staccati, ma composti nella lassa, che risponde davvero al respiro della dizione […]. Ma, soprattutto, Zanzotto ci dà gli esercizi di agilità di uno strumento dal timbro agro, ricco di dissonanze.69

Ancor prima della stesura dei saggi sulla metrica, Fortini formulava nel ’52 delle riflessioni in qualche modo preparatorie ai suoi saggi sulla metrica accentuale. Il giudizio su Zanzotto ci permette di ricostruire le basi per un apparato lessicale che connota la scrittura saggistica fortiniana riferita ai problemi metrici. La questione del passaggio dalla metrica barbara alla versificazione per accenti verrà da lì a qualche anno più analiticamente discussa nei tre saggi in questione. Va notata inoltre l’insistenza di Fortini nel collegare il verso per accenti alla rottura con un «canto» di memoria ungarettiana – e, più generalmente, associato a un’estetica post-mallarmèana – che egli stava tentando definitivamente di liquidare nella seconda metà degli anni Cinquanta.70

La lettura metrica del componimento di Zanzotto, a tratti rovinosamente aritmetica, rimane fin qui tutt’altro che esaustiva. La disposizione degli accenti more geometrico rischierebbe di ridurre la portata di altri fattori che intervengono nella costruzione formale e semantica del componimento, quali i colori vocalici, le giustapposizioni timbriche, gli attriti tra versi non necessariamente uniformi in una serie, secondo le intenzioni del poeta che le forma. Applicare la formula dell’isocronismo degli accenti ai testi poetici composti in una lingua a carattere sillabico bloccherebbe il discorso in una rigida impalcatura numerica a tratti forzata. È pur vero, tuttavia, che lo stesso Fortini presentava i suoi saggi in termini di proposta, consapevole del carattere parzialmente verificabile delle sue riflessioni. Sull’esigenza di rintracciare nella poesia italiana ipotetici schemi a carattere accentuale, Paolo Giovannetti ha osservato:

la sensazione […] è che, ogni volta che si praticano queste analisi, proprio l’ibridazione dei criteri messi in gioco produca risultati tutto sommato insicuri,

69 F. Fortini, Zanzotto: Dietro il paesaggio, «Comunità», VI, 14, giugno 1952, p. 76, citato da Andrea

Cortellessa, Il sangue, il clone, la “madre norma”. Zanzotto e Fortini, corrispondenze e combattimenti, in Francesco Carbognin (a cura di), Andrea Zanzotto, un poeta nel tempo, Petali 2, Aspasia, Bologna 2008, p. 99 (c. vo mio).

produca cioè scansioni difficili da percepire, in qualche modo estranee all’orecchio italiano.71

Bisognerà allo stesso tempo cogliere le ragioni e le urgenze che spingono i poeti – nel caso specifico, Fortini – a dotarsi in sede teorica di un ordine strutturale per assecondare un preciso indirizzo di poetica. Le analisi stilistiche devono pertanto essere condotte non per puro vezzo «deliquescente e gustativo», ma per portare agli estremi il discorso di Fortini e verificare fino a che punto possa risultare valido, prima ancora di applicare acriticamente la metrica accentuale ad altre composizioni. Come si può intuire, infatti, lo statuto di un verso con tali caratteristiche si presenta, almeno al lettore italiano, assai debole, non solo nel caso del primo tipo a tre accenti, ma anche per quei componimenti fondati su versi a quattro accenti principali – utilizzati secondo Fortini da Pavese e, spesso, da Montale, “erroneamente” confusi con endecasillabi ipermetri – e a cinque. Alle incertezze evidenziate con gli esempi di poeti a lui contemporanei (non fornisce in questi saggi esempi direttamente attinti dai suoi componimenti, e vedremo il perché), Fortini risponde, riconoscendo la necessità dei tempi lunghi per lo sviluppo dei fenomeni linguistici:

la nuova metrica sta formandosi, sta uscendo fuori dalla ritmica del verso libero, ma è un processo relativamente lento; né d’altra parte è detto che tale metrica debba avere tutti insieme i caratteri cogenti della metrica tradizionale.72

A difesa delle sue argomentazioni egli aggiunge inoltre che «la promozione di un accento tonico [di parola] ad accento ritmico si ha, esattamente come nella metrica tradizionale, quando si sia creata una convenzione di attesa»,73 che ancora, nello stato di

incertezza in cui versava la metrica accentuale, certo mancava al lettore italiano. Fortini paragona lo stato di incertezza della nuova metrica all’intervallo cronologico compreso tra

71 P. Giovannetti, G. Lavezzi, La metrica italiana contemporanea, cit., p. 273.

72 SI, p. 805 (il corsivo è dell’autore). Si pone in questo passaggio un problema terminologico che

cercheremo di indagare nelle pagine successive, e che rappresenta un inciampo delle argomentazioni presentate analiticamente dall’autore. Marcando in corsivo il termine “metrica”, Fortini oppone, almeno in questi saggi, l’aspetto necessariamente normativo dell’astrazione contro una «ritmica» associata ai moti soggettivi del poeta che si esprime in versi liberi. Come vedremo, lo scopo principale di questi saggi è di demistificare, a partire dalla metrica, un’estetica che crede possibile rifiutare qualsiasi criterio di metricità; una scelta estetica che Fortini associa a un ethos carente di prospettiva storica e di proposte per il futuro.

la metrica quantitativa e quella romanza, processo di trasformazione che «richiese lunghe incertezze e quindi lungo periodo di apparente “libertà” o arbitrio».74 È interessante notare

– come diremo meglio più avanti – che anche Alfredo Giuliani, non certo in linea con la poetica di Fortini, aprirà il suo saggio in appendice all’antologia dei Novissimi argomentando quasi allo stesso modo il passaggio dalla metrica tradizionale alla nuova forma di verso.75 In definitiva, il panorama poetico italiano degli anni ’50-’60 sembra per

Fortini attraversato da alcune tendenze atte a preparare la nascita di una nuova metrica per accenti:

a) sul piano del cosiddetto «pseudotradizionalismo», le forme di versi tradizionali hanno ormai un carattere proprio «solo nella misura in cui la ripetizione di ognuno di essi o delle loro combinazioni non è inferiore ad una “soglia” al di là della quale il loro carattere metrico cede di fronte a quello ritmico».76 Fortini allude a quei componimenti liberi in cui

versi canonici – per esempio endecasillabi – si alternano senza ordine preciso a decasillabi, settenari o altre misure, perdendo la loro fisionomia in funzione di un’organizzazione ritmico-sintattica. Il corollario di questa trasformazione compositiva e percettiva è lo spostamento di valore dal principio sillabico allo “schema” per accenti, pur con le difficoltà sopra elencate (esempi di questo tipo si possono ricavare nelle prime raccolte di Sereni; o