• Non ci sono risultati.

Forma, linguaggio, figura

4. C OSTANTE FIGURA

4.1 Metrica e biografia

Dieci anni prima della pubblicazione in Verifica dei poteri dell’intervento sulla fine del mandato sociale dello scrittore e l’uso formale della vita,7 Fortini esordiva su «Officina»

con una scelta di quattro poesie successivamente raccolte – con varianti più o meno considerevoli – in Poesia ed errore (1959): Metrica e biografia, Ai poeti giovani, American

Renaissance e I destini generali.8 L’esordio poetico su «Officina» era stato preceduto da uno

scambio di lettere con Pasolini, il quale aveva suggerito a Fortini di accompagnare i suoi primi versi con uno scritto programmatico in forma di allegato – L’altezza della situazione,

3 NSI, p. 289.

4 UDI, p. 263.

5 cfr. supra, capitolo terzo. 6 DIS-II, p. 123; SE, p. 1674. 7 VP, pp. 130-86; cfr. supra, 3.3.

8 F. Fortini, Versi con l’Allegato: L’altezza della situazione, o perché si scrivono poesie, in «Officina» n. 3,

o perché si scrivono poesie9 – definito in seguito da Leonetti e da Roversi «un sorprendente

atto di coscienza […], un esempio quasi perfetto per gli altri, che verranno».10 La prima

delle quattro poesie pubblicate sulla rivista bolognese porta lo stesso titolo di un intervento discusso venticinque anni dopo presso l’Università di Ginevra e pubblicato successivamente sui «Quaderni Piacentini».11 Riporto qui di seguito il testo, nella versione

presentata su «Officina»:

In alto, all’aria erta, ai fili d’erba, ai voli esili e ripidi dei rami; nelle grotte più chiuse dove cupa molto contro le mura, onda, tu tuoni; dentro l’afa di calce media e merce dove l’ossido falso si disfà;

una ho portata costante figura,

storia e natura, mia e non mia, che insiste; derisa impresa, ironia che resiste,

e contesa che dura.12

Metrica e biografia è costruita sullo schema di misure canoniche appartenenti alla tradizione prosodica italiana, allo stesso modo della poesia successiva – Ai poeti giovani – composta da due quartine di doppi settenari non rimati (ad eccezione dei vv. 2-4 dove si

9 cfr. in particolare P. P. Pasolini, Lettera a Franco Fortini, Roma, 17 aprile 1955, in Id., Lettere, vol. 2

(1955-1975), a cura di Nico Naldini, Einaudi, Torino, 1988, p. 57 (cfr. anche AP, p. 57 e ss.).

10 Ivi, p. 115.

11 F. Fortini, Metrica e biografia, conferenza tenuta presso l’Università di Ginevra nel maggio 1980, in

seguito pubblicata su «Quaderni Piacentini», n.s. 2, 1981, pp. 105-121, ora in I confini della poesia, a cura di L. Lenzini, Castelvecchi, Roma 2015, pp. 39-74 (MB). Cfr. infra, capitolo 10.

12 F. Fortini, Versi, in «Officina», 3, settembre 1955, cit., p. 96. La stessa punteggiatura (fatta eccezione per

i due punti che sostituiscono il punto e virgola a conclusione del v. 2, a partire dalla prima edizione di Poesia ed errore del 1959) è mantenuta fino alla versione definitiva pubblicata nel volume di Versi scelti del 1990 – quindi dell’Oscar Mondadori curato da Lenzini (TP) – dove verranno eliminati i segni di interpunzione a conclusione di ogni distico, lasciando allo spazio bianco il compito di segnalare le pause, che da logico- sintattiche diventano grafiche. Crediamo – come sarà più chiaro nel corso di questo lavoro – che la componente tipografica, caratteristica del corpo della poesia stricto sensu, sia preferita alla punteggiatura logica in accordo a un mutamento percettivo e simbolico dello spazio poetico, in seguito all’esperienza di Paesaggio con serpente (1984). La sola differenza che si evidenza nella versione definitiva del componimento, rispetto alla prima edizione del ’55, riguarda l’aggiunta del trattino lungo a inizio del v. 9, incaricato di separare il verso precedente, che altrimenti rischierebbe di essere letto con un enjambement.

registra la rima alternata «discorso-percorso»).13 I due restanti componimenti apparsi su

«Officina», retoricamente vicini a stilemi montaliani, risultano al contrario estranei a un disegno prosodico più o meno regolare. I quattro testi condensano una scissione tra due macro-opzioni formali che più avanti l’autore distinguerà con maggiore nitore, nell’omonimo intervento di Ginevra degli anni Ottanta:

Quasi tutti i miei versi tra il 1940 e il 1955 rientrano, credo, in una delle seguenti due situazioni metrico-prosodiche: sillabati ungarettiani, proclami, manifesti, versi che paiono intenzionali traduzioni da qualche lingua germanica o slava oppure sequenze di endecasillabi, strofe di endecasillabi e settenari, quartine rimate, persino sonetti regolari, strofe lunghe e di rime complesse.14

Metrica e biografia si compone di cinque distici di endecasillabi non rimati, ad eccezione dell’ultimo, costituito da un endecasillabo e un settenario che arresta la rapida sequenza di “scivolamento” dell’enunciazione, suggellando un conflitto tra storia e natura mantenuto aperto nella durata. In Poesia ed errore del 1959, la poesia verrà inserita nella penultima sezione indicata dalle sole date 1956-1957; sezione che, nella riedizione del ’69 – privata della «d» eufonica del titolo – diventerà conclusiva ed eponima della raccolta. In entrambe le edizioni, Metrica e biografia viene collocata di seguito a Distici, componimento che allude nel titolo alla misura “classica” impiegata per organizzare la materia verbale di un percorso di “precipitazione” simbolica della voce scandito da undici gruppi di due versi che si concludono – anche in questo componimento – con l’effrazione dell’endecasillabo di chiusura dell’ultimo distico. Quest’ultimo viene infatti sostituito non da un settenario – come in Metrica e biografia – ma da un verso lungo di quindici sillabe composto da un settenario sommato a un novenario («la vena della notte il giorno realmente disseti»), molto simile al verso utilizzato da Ungaretti nelle sue traduzioni dei sonetti di Shakespeare pubblicate nel 1946 (cfr. per esempio il v. 12 del sonetto XV: «Per deturpare in notte il vostro giorno giovanile»).15

13 PE, p. 157.

14 MB, p. 54 (c. vo dell’autore).

15 Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Traduzioni poetiche, a cura di Carlo Ossola e Giulia Radin,

I primi tre distici di Metrica e biografia sono circostanziali: permettono al lettore di situarsi in un paesaggio che – per ricorrere a una metafora cinematografica – dal campo lungo, anzi lunghissimo, sfuma progressivamente verso il dettaglio, come se la macchina da presa cadesse rapidamente verso il basso fino ad arrivare, nel terzo distico, non più a toccare gli oggetti nello spazio, ma a penetrare la realtà fin sotto la materia, dentro quell’«afa di calce media e merce / dove l’ossido falso si disfà». Nel primo distico, la «costante figura» è gettata nel tempo, ha una consistenza gassosa, quasi fosse vento, respiro. Il movimento dei distici è verticale, discensivo, penetrativo, e ricorda ancora – nel movimento dell’azione – i vv. 10-11 di Distici: «così precipito sempre, così / tremo, così esito, così temo».16 Per utilizzare una terminologia canonica, diremmo che i primi due

endecasillabi hanno un incipit tendenzialmente “giambico”, con accenti principali in seconda e in sesta posizione.

Nel secondo distico il respiro si fa tuono: la dimensione è di pervasione totale e il movimento si sviluppa orizzontalmente. Sul piano della metrica il terzo verso non pone gravi difficoltà: si tratta di un endecasillabo canonico con incipit anapestico, che velocizza e scioglie la cadenza più serrata del primo distico. Tra il terzo e il quarto verso si verifica una frattura nell’andamento discorsivo del componimento. Il secondo distico è infatti caratterizzato da una violenta inarcatura che accentua la scissione esplicitamente fissata nei tre versi conclusivi («storia e natura, mia e non mia, che insiste / derisa impresa, ironia che resiste, / e contesa che dura»). A determinare l’attrito della dizione non è soltanto il brusco mutamento prosodico causato dall’accento in battere al v. 4; tra i due versi è presente inoltre una figura di inversione marcata – l’iperbato «…cupa / molto contro le mura, onda, tu tuoni» – che, insieme alla personificazione simbolica dell’«onda», richiama volutamente, in vista di un superamento, gli stilemi retorici dell’ermetismo, con una chiara ripresa della poesia liminare di Foglio di via, E questo è il sonno («cupa tua, l’onda vaga tua

del niente»).17 Quest’ultimo componimento funziona come indice di assorbimento e

negazione di una fase giovanile caratterizzata dall’assunzione di modelli poetici sempre osteggiati – ma sedimentati e mai del tutto rimossi – nella memoria fortiniana (si pensi ancora al testo che chiude la parte “seria” di Composita solvantur, la cui ripresa dei versi in

16 PE, p. 188. Sul significato del verbo “tremare” cfr. Remo Pagnanelli, Fortini, Transeuropa, Ancona 1988,

p. 12 e ss.

limine di Foglio di via è frutto di un’operazione pienamente controllata).18 Un confronto

tra gli ultimi due distici di E questo è il sonno e i primi due di Metrica e biografia potrebbe rivelarsi utile per evidenziare analogie e attriti formali tra i due modelli:

Metrica e biografia

In alto, all’aria erta, ai fili d’erba, ai voli esili e ripidi dei rami; nelle grotte più chiuse dove cupa molto contro le mura, onda, tu tuoni;

E questo è il sonno [...]

E quel che odi poi, non sai se ascolti 5

Da vie di neve in fuga un canto o un vento O è in te e dilaga e parla la sorgente 7

Cupa tua, l’onda vaga tua del niente.

Oltre all’impiego di allitterazioni e di timbri scuri al v. 4 di Metrica e biografia e al v. 8 di E questo è il sonno – in quest’ultimo l’effetto di durezza viene raddoppiato dalla geminatio dell’aggettivo possessivo «tua», rispettivamente riferito alla «sorgente cupa» e all’«onda vaga» – è possibile rintracciare ulteriori analogie tra i due testi sul piano prosodico. Dopo i primi tre versi caratterizzati da un andamento ritmico più melodico (i vv. 5-7 di E questo

è il sonno hanno un passo tendenzialmente giambico) in entrambi i componimenti si

verifica una brusca inversione ritmica, caratterizzata da una contiguità di accenti che rende più faticosa la dizione piana dei segmenti precedenti, in particolar modo per il quarto verso di Metrica e biografia dove per rispettare lo schema endecasillabico diventa necessario compiere una sinalefe ardita «mura^onda», resa ancor più problematica dalle virgole che isolano il sostantivo «onda» in un inciso. Le due liriche risultano pertanto correlate anche sul piano della costruzione formale e della distribuzione ritmica. L’onda allude inoltre a un “canto” ermetico, misterico, che raggiunge gli anfratti più remoti della terra, personificando il respiro ineffabile di un “soggetto” che, distaccandosi da una forma di “lamento” autonomo e separato, è ora cosciente della necessità di mediare dialetticamente i due poli della storia e della natura, pur mantenendo come eco nella forma l’esperienza poetica vissuta nella Firenze degli anni giovanili, dove il distacco dell’arte dal mondo

18 cfr. supra, 1.1.

veniva giustificato dall’adozione di modelli poetici europei che proclamavano fughe là-bas o là-haut.19

Tutta la natura è chiamata a partecipare a questo processo di agnizione dell’anima nella storia. Il paesaggio di Metrica e biografia – scandito nei tre distici iniziali da un complemento di luogo introdotto dalla preposizione «in» o dall’avverbio «dentro» – viene descritto in ogni suo elemento naturale: dalle alture tratteggiate per metonimia da un’«aria erta» che si fa vento e soffia sulla vegetazione dell’erba e dei rami; alle grotte più profonde dove il rumore dell’onda si infrange sugli scogli, provocando un suono più cupo; fino alla terra convertita in «calce media» e utilizzata come intonaco per imbiancare le facciate di un paesaggio urbano afoso, mercificato, dove l’ossido di calcio è trasformato in materiale da impiegare per le costruzioni edilizie.20 La contrapposizione tra una natura non ancora

corrotta – tutt’al più antropizzata in paesaggio rurale come in Racconto, ambientato in un luogo sull’Appennino vicino a Firenze chiamato «Casa al Vento»21 – e un paesaggio

urbano in rapida trasformazione è il tema dominante di quest’ultima sezione di Poesia e

errore; una scissione sulla quale se ne innesta una seconda che oppone, sul piano diretto

della storia, la pietra dei palazzi di Firenze, allegoria del passato e della tradizione, alla gresìte e il vetroflex delle nuove facciate milanesi, progettate nel dopoguerra per ripristinare gli edifici bombardati. Significativo risulta a questo proposito il componimento posto al centro della sezione, dove un Dante esiliato da Firenze in epigrafe a La forme d’une ville dialoga con il Baudelaire di Le cygne citato direttamente nel titolo, che osserva Parigi mutare in seguito alle pianificazioni urbanistiche del Barone Haussmann.22

È soltanto in seguito ai primi tre distici di Metrica e biografia che Fortini specifica l’oggetto della sua lirica: ad essere condotta – «portata» – nel paesaggio tratteggiato nei versi precedenti è una «costante figura», sintesi di una lotta tra storia e natura, tra un io e

19 MB, p. 45.

20 cfr. I destini generali, in PE, p. 117: «Secolo di calce e fluoro, bava / di aniline e corpi come lava / di visceri

[…]»; ma anche Al di là della speranza, PE, p. 181: «[…] In queste lente / sere di fumo e calce la città // che mi porta s’intorbida nei viali»; Aprile italiano, PE, p. 198: «e vola aprile e va /sulle città di calce».

21 PE, p. 187.

22 PE, p. 199. In esergo è citata la VII Epistola di Dante ad Arrigo VII di Lussemburgo («Tu Mediolani

tam vernando quam hiemando moraris», Ep. VII, 20). Per Le cygne di Baudelaire da cui è estrapolato il titolo della lirica cfr. C. Baudelaire, Œuvres complètes, vol. I, a cura di Claude Pichois, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, Paris 1975, p. 86; cfr. anche Una traduzione da Baudelaire, in NSI, p. 378 e ss.

un altro da sé come doppio o alterità concreta. Una figura o un «fantasma» entro cui si consuma un intero ordinamento dell’esistenza, i cui schemi vengono suggeriti dall’uso del linguaggio letterario, come preciserà nella seconda prefazione a Verifica dei poteri in risposta alle critiche mosse all’«uso formale della vita».23 Secondo Fortini, infatti, «solo

nell’arte, intesa nel significato più vasto, e, per essa, nell’uso letterario della forma, quell’adempimento assume la forma appunto di un oggetto a funzionamento simbolico, in cui la proposta e il proponente coincidono».24 Guardando alle riflessioni teoriche sulla

metrica di poco successive alla stesura del componimento, si potrebbe leggere la coppia del titolo in termini di endiadi. Sulla base di questa interpretazione, la biografia risulta possibile solo a patto di riconoscere la presenza di una norma astratta – la metrica – quale garante di un’impalcatura collettiva. A questo proposito, egli potrà dichiarare, in un saggio interamente dedicato alla tecnica compositiva degli stessi anni, che «non esiste nessuna “verità” ritmica prima della “menzogna” metrica».25 O ancora, estendendo i termini della

composizione a un orizzonte etico, e correggendo un’espressione di Adorno con Lenin, dirà che «non si dà vera vita se non nella falsa».26

Per Fortini, la messa in forma della biografia attraverso il linguaggio poetico pone il “soggetto” di fronte a una dissociazione che lo rende irriconoscibile di fronte a se stesso. All’interno di questa frattura, la metrica – in quanto storicità che passa attraverso una forma sedimentata nella memoria collettiva – fornirebbe al soggetto della Spaltung un dispositivo artificiale di reintegrazione nel mondo e nella memoria, un ancoraggio alla realtà, pur mediata attraverso la finzione. In un appunto scritto durante le riprese

Fortini/Cani di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet e riportato in una nota alla seconda

edizione di I cani del Sinai del 1979, Fortini declinava il rapporto tra metrica e biografia all’interno dell’esperienza cinematografica: «sono ammalato, stanchezza, nevralgia al trigemino, capogiri. Succede, se si vuol rientrare nella propria biografia. Ma i due amici morti viventi mi hanno data in questi giorni una straordinaria lezione di metrica».27 Il film

23 VP, p. 385; cfr. supra, 3.3. 24 VP, pp. 385-86

25 SI, p. 790, cfr. infra, capitolo 6.

26 F. Fortini, Non si dà vera vita se non nella falsa, in Contro l’industria culturale. Materiali per una strategia socialista, a cura del CESDI (Centro di Documentazione e di Studi sull’Informazione) diretto da Giovanni Bechelloni, Guaraldi, Bologna 1971, pp. 113-118.

di Straub e Huillet può essere letto come ulteriore attivazione del dispositivo “metrico” utilizzato nel processo di riscrittura della biografia, nella possibile reintegrazione e presentificazione di quest’ultima nella realtà per mezzo di una messa in forma straniante, fornita adesso dalla tecnica del montaggio cinematografico dei due registi francesi. Fortini/Cani è un lungometraggio del 1976 realizzato quasi interamente sulla figura di Fortini che legge sullo schermo il testo scritto «con ira, a muscoli tesi, con rabbia estrema» nel ’67, allo scoppio della Guerra dei Sei Giorni tra Israele e i Paesi Arabi. La lettura de

I cani del Sinai viene intervallata da lunghissime e silenziose sequenze di un paesaggio

proposto come rovine di un passato da interrogare: sono le Alpi Apuane, luoghi in cui si sono verificati gli eccidi nazisti in Italia. Per Fortini però, la panoramica effettuata mediante il piano straubiano «non “dice” soltanto quello che vi è accaduto e quanta calma copra i luoghi delle stragi antiche e moderne. “Dice” anche che questa terra è il luogo abitabile per gli uomini, è quello che dobbiamo abitare».28 La natura mediata

dialetticamente con la storia si fa figura di un’abitabilità, di una proposta d’azione che dal «qui» possa indicare un «altrove», e che in verità significhi: «non oggi ma ieri e domani».29

La possibilità di condurre un discorso figurale è garantita inoltre da un’astrazione morfologica che nella traduzione per immagini del libretto fortiniano si compone dell’insieme di elementi e tecniche cinematografiche – dalla regia al montaggio – impiegate come strategie formali per sviluppare un discorso esplicitamente politico, teso a manifestare una chiara dialettica tra natura e storia. Il riconoscimento della storia all’interno della natura – gli eccidi nazisti risultano per il poeta inscritti all’interno del paesaggio delle Alpi Apuane – avviene su una doppia contraddizione formale: da una parte si verifica un’opposizione netta tra figura piena e sfondo naturale, tra dizione del testo e silenzio delle rovine (sono i momenti in cui la voce di Fortini tace, e si ascolta soltanto il canto degli uccelli sovrapposto ai lunghi piani delle montagne); dall’altra, lo straniamento emerge dagli interstizi e i silenzi di una voce che parla, la cui dizione è ora trasformata in segno per mezzo dell’immagine fissata sulla pellicola. In quest’ultimo caso, la dissociazione supera la polarità voce-silenzio per collocarsi all’interno dell’enunciazione come emissione vocalica sullo schermo, restituendo nelle immagini una figura che è

28 SE, p. 1769. 29 Ibidem.

autore, attore e spettatore insieme del testo scritto circa un decennio prima. Mentre Fortini legge I cani del Sinai, la sua voce gli appare «stridula proprio perché nell’atto medesimo in cui parla di “realtà” è soverchiata dall’assenza».30 La messa in forma

cinematografica produce allora una possibilità di reintegrazione e superamento del passato, una risemantizzazione del soggetto che in quelle pagine dice «io» di fronte al dissidio natura-storia.

Ancora nella Nota del 1978 a Jean-Marie Straub Fortini riconosceva nella panoramica delle Alpi Apuane e il paesaggio attorno alla terrazza di Ameglia una calma apparente in cui «qualcosa chiedeva aiuto, da un profondo».31 La natura chiedeva – o l’autore chiedeva

attraverso il paesaggio – qualcosa come un «supplemento d’anima». La realtà inscritta nel paesaggio naturale doveva pertanto essere decifrata attraverso una finzione come la scrittura, la poesia, la “metrica” («La natura / per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.» sono i versi conclusivi di Traducendo

Brecht). A questo proposito, Fortini scrive:

Tutta la realtà della lotta «materialistica» delle classi era inclusa in quei colori di idillio ed era per noi inseparabile da quei canti di uccelli… Nelle istruzioni che Danièle e Jean-Marie mi proponevano, il testo mi si estraniava sotto gli occhi; la mia difesa era debolissima, lasciavo che liaisons inattese alterassero la punteggiatura e la sintassi. Capivo che l’operazione filmica, proprio modificando quanto recava la mia firma, proprio disfacendo il tessuto dei miei pensieri, li sormontava, li conservava. Non so se in quelle parole ci fosse quel che si dice «valore», ma certo in quella loro distruzione-rinascita uno ve n’era.32

L’importanza della dialettica tra metrica e biografia è allo stesso modo testimoniata pochi anni dopo la stesura dell’omonimo componimento di «Officina» da una lettera che

30 Ibidem.

31 Ivi, p. 1770.

32 SE, p. 1770. In Metrica e biografia del 1980 Fortini dichiarerà che l’opposizione morte-resurrezione è una

costante formale del patrimonio culturale occidentale (MB, p. 61 e ss.; cfr. infra, capitolo 10). L’antitesi tra passato biografico e rinascita nell’avvenire viene inoltre intesa come lotta simbolica – che da un orizzonte storico-culturale viene assorbita su un piano etico-esistenziale e psicanalitico – tra le figure della madre e del padre: «come mio padre era in una certa misura l’ebraismo, la minoranza, mia madre era al contrario l’aspetto cristiano, più ancora che cattolico, ed è stata anche il momento dell’accentuazione morale e quindi