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Letteratura e industria culturale

Forma, linguaggio, figura

3. D ARE FORMA ALL ’ ESISTENZA

3.2 Letteratura e industria culturale

Sin dalle prime pagine dell’introduzione del 1965 a Verifica dei poteri, della coppia «lirica e società» Fortini lamenta la sparizione del secondo termine. Se la figura alla quale «Ragionamenti» si ispirava era quella del «critico come il diverso dallo specialista, come colui che discorre sui rapporti reali fra gli uomini, la società e la storia loro, a proposito e in occasione della metafora di quei rapporti, che le opere letterarie sono»,35 agli inizi degli

anni Sessanta, pur rimanendo in parte fedele a questo atteggiamento, Fortini è obbligato a mutare strategia, indagando i motivi che avevano portato alla scomparsa di un ambiente entro cui inserire tali riflessioni. In un contesto politico-culturale dove gradualmente si affermava una società concepita come il «risultato passivo della disgregazione d’ogni particolarità», fondata sul profitto e sull’alienazione degli strumenti del lavoro e della stessa esistenza degli uomini nel tempo, quale spazio poteva darsi per il critico-saggista e – in generale – per lo scrittore-poeta un tempo investito da un mandato storico e sociale, tanto più che, continuando a praticare una quanto mai ridotta azione letteraria nella nuova società industriale, egli rischiava persino di venir inteso come pensatore reazionario? A quale interlocutore rivolgersi, senza cadere nella finzione dei giornali e dei volumi di

34 «Quella che potremmo chiamare letteratura in servizio permanente effettivo ha dichiarato morta la

letteratura engagée fin dal ’47. I miei coetanei militanti nei partiti di sinistra o che occupano una posizione di sinistra letteraria hanno proclamato la sua morte intorno al ’55-56. Credo che come moda degli anni ’45- ’50 sia totalmente scomparsa, ma che come esigenza tenda a riproporsi continuamente nel nostro secolo come nel corso dell’Ottocento. La nuova letteratura italiana nasce quasi tutta dall’esperienza dell’impegno politico o comunque da una presa di posizione nei confronti dei grandi avvenimenti politici», UDI, p. 47.

critica confinati in uno spazio “civile” e settoriale, e dunque esclusi dall’azione diretta di trasformazione del reale ridotto ora a mondo «generalizzato e scientifico»?

Ridurre la poesia al silenzio dichiarando la sconfitta di un credo militante significava per Fortini esporsi di nuovo alla minaccia del disimpegno politico, retrocedendo a una forma di ermetismo che negli anni della guerra era stato per lui colpevole di connivenza col regime fascista, avendo preferito un estetismo delle lettere alternativo alla prassi politica, in luogo di un’opposizione formale etica ed estetica. Per dirla con Lenzini, «chi aveva per tempo diagnosticato la “fine del mandato sociale degli scrittori”, criticando le facili consolazioni del cosiddetto “impegno”, non per questo poteva aderire a una nozione puramente estetica dell’arte, e tanto meno la sua riduzione a entertainment».36 Tuttavia –

precisa Fortini – non bisogna intendere le ipotesi d’azione di Verifica dei poteri come “speranze” a breve scadenza, dal momento che è impossibile situare la speranza in un immediato presente ed essa parla semmai a un futuro di altri che verranno (nei versi indirizzati a Pasolini di circa dieci anni prima, la speranza veniva declinata come un «convulso passo / di bestia, entro di noi, che viene e va»).37

Alla domanda «com’è possibile la letteratura?» Fortini invitava un destinatario non più in maniera chiara e omogenea collettivo, ma relegato «al confine fra certezza e precarietà, fra partecipazione all’esistenza e diniego di essa», a strappare a quell’apparente Altro e Diverso «la maschera incantevole e repulsiva del Sacro»,38 al fine di svelare la più autentica

natura di uomini:

non trasfigurati da lontananze storiche o geografiche o sociali, anzi fatti simili, anche se da quelle provengono, ai visi quotidiani che incontriamo, al nostro aspetto stesso: in un loro complesso, articolato, talora contraddittorio agire verso una finalità ora soggettivamente cosciente ora oggettivamente determinata da una coscienza non individuale.39

36 Confini, p. 6.

37 F. Fortini, Al di là della speranza (Risposta a Pasolini), in VPD, p. 794; cfr. infra, 8.3.

38 VP, pp. 379-380. Si veda a tal proposito il saggio di Ernesto De Martino antologizzato da Fortini in Profezie e realtà del nostro secolo nel 1965 (Profezie, pp. 531-551). Ma anche e soprattutto Profezie, p. XIX: «Sembra finalmente probabile – seppure con le cautele consigliate da questo genere di ipotesi – che il “conflitto storico cui si accennava in principio sia tornato a fondarsi ideologicamente come “conflitto del riconoscimento”; per impiegare un classico termine hegeliano. Si direbbe che mai come nella nostra età il tema del Riconoscimento e quello dell’Altro e del Diverso siano diventati i temi stessi delle nostre esistenze».

Il compito del poeta non sarebbe più stato quello di guidare il popolo in vista di una rivoluzione attuabile nell’immediato domani, ma di combattere per gli uomini vicini o lontani contro una riduzione della dialettica a «formicolio che può rifarsi inarrestabile», contro un silenzio che rischiava di confondere i destini generali in una «oscurità che altri secoli avrebbero chiamata “notte dell’anima”».40 Detto altrimenti, si trattava per lo

scrittore di indicare – a partire dall’organizzazione dell’opera in versi – una nuova meta

futura, ovvero una direzione storica alternativa della cultura, senza per questo abbandonare

il momento estetico dell’azione utilizzando la forma non soltanto come strumento di contestazione dell’ordine socioeconomico informale – come voleva Adorno – ma come indice figurale di una realtà verso cui tendere. Una forma che – lo vedremo nel capitolo successivo – era da intendersi anche come figura.

Tramontata la funzione sociale dello scrittore – recensendo circa vent’anni dopo

Aracoeli di Elsa Morante, Fortini dichiarerà che dopo quello sociale e politico, alla

letteratura era stato tolto anche il mandato etico e religioso41 – “rimaneva” al poeta il

dovere di individuare le istanze di liberazione degli oppressi e portarle alla luce dalle regioni in cui l’oblio del potere li aveva collocati; e da quel luogo porsi in ascolto di un moto di liberazione che – scrive l’autore – possiede una sua legge interna, «organizza il proprio rischio secondo una metrica, ha un suo modo di protendersi in clausole e cadenze, che sembra e forse è quello stesso delle opere di poesia, scritte o da scrivere».42 Sulla base

di tali riflessioni, Fortini formulava nelle pagine di Verifica dei poteri quell’«uso formale della vita omologo all’uso letterario della lingua» accolto nello scritto che ha attirato le critiche più aspre al volume.43 Una conferma – aggiungerei – che quelle dichiarazioni

avevano toccato un punto nevralgico dell’organizzazione culturale dell’Italia del miracolo economico, la cui classe intellettuale era pronta a rifiutare, con una forma di razionalismo, il valore politico della letteratura, e per la quale le formulazioni di Fortini apparivano dogmatiche e, in un certo senso, reazionarie, eredi del formalismo borghese.

40 Ibidem.

41 SE, p. 1599.

42 VP, p. 380 (c. vo mio).

43 Tra tutti, cfr. Alberto Asor Rosa, L’uomo, il poeta, «Angelus Novus», 1965, nn. 5-6; ora in Id., in Le armi della critica. Scritti e saggi degli anni ruggenti (1960-1970), Einaudi, Torino 2011, pp. 95-138, cfr. anche Id., Intellettuali e classe operaia. Saggi sulle forme di uno storico conflitto e di una possibile alleanza, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 231-271.

La possibilità di conservare la dimensione estetica dell’azione sul reale veniva interrogata in Al di là del mandato sociale senza del resto oltrepassare il limite insidioso dell’estetismo soggettivistico, nonché contestando, allo stesso tempo, la trasformazione dell’intellettuale a intellettuale-massa assorbito entro gli stessi schemi riprodotti da una società fondata sul «principio di prestazione» come «forma storica prevalente del principio

di realtà».44 In altre parole, diventava prioritario ridefinire il significato di una funzione politica della poesia, non necessariamente relegata ai soli contenuti dell’impegno, quanto

piuttosto imbevuta di una tensione tra dominanti e dominati nella forma, da riconoscere in vista di una libera coesistenza tra singoli e collettività.45 Data la natura problematica

dell’operazione, risulta quasi del tutto impossibile non registrare – come vedremo – la presenza di un’ambiguità di fondo nell’equazione proposta da Fortini. Del resto, si trattava di elaborare per l’autore una via d’uscita a un’evidenza posta a margine dell’intervento di

Verifica dei poteri di cui ci occuperemo: «davanti al tribunale della ragione teorica e pratica

che ha formato il mondo del principio di prestazione, l’esistenza estetica è condannata».46

Nelle pagine che seguono, vorrei prendere in esame alcune dichiarazioni contenute nella terza e ultima parte del Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, il cui significato paradossale risiede «nella difesa del potere dell’estetico come piano della formalizzazione del negativo e della costruzione critica del soggetto».47 La lettura del saggio permetterà di

valutare retrospettivamente la portata delle riflessioni sul metro e sul ritmo entro i confini di una prospettiva critica e filologica trasversale, aperta a una “nuova” idea di prassi formulata negli interventi raccolti nel volume del ’65.