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Forma, linguaggio, figura

1. C ON LA STORIA CONTRO LA STORIA

1.1 La sfida al lettore

In una nota su Manzoni scritta sul finire degli anni Settanta,2 Fortini accenna alla

presenza di un «bellico / coltivator di Haiti» collocato nella quattordicesima strofa di una

1 «Perché i vinti di oggi sono i vincitori di domani / e il mai diventa: oggi!», Bertolt Brecht, Lode alla dialettica, in Id., Poesie e canzoni, (a cura di) Ruth Leiser e Franco Fortini, Einaudi, Torino 1959, p. 127. 2 NSI, pp. 26-35.

variante del 1819 della Pentecoste; figura successivamente estromessa nella stesura definitiva del 1822. Secondo l’analisi condotta da Fortini, quel personaggio così caratterizzato, «denotato direttamente nell’inno e non per sineddoche», arrivava a Manzoni dalla lettura di una recensione di Sismondi a un libro di un funzionario reale francese in stanza ad Haiti – tale barone de Vastry – apparsa sul «Conciliatore» poco prima della composizione della Pentecoste e che l’autore milanese doveva aver letto nel corso della stesura dell’inno. Nella sua ricostruzione filologica, Fortini situa sullo sfondo del bellico

coltivator d’Haiti la frequentazione parigina di Manzoni di circoli attivi durante la

Rivoluzione Francese, come la Société des Amis des Noirs fondata due anni prima della presa della Bastiglia da Brissot, Seyès e Condorcet (lo stesso Condorcet da poco marito della ventenne Sophie de Grouchy, futura amica di Giulia Beccaria). Tralasciando la complessa ricostruzione storica del saggio – oggetto di numerose obiezioni in campo filologico3

sarà sufficiente per il momento evidenziare, ai fini del nostro percorso, la scelta di Fortini di affiancare all’ideologia liberale degli Inni sacri quel presente vissuto dallo stesso autore che di quella nota sta scrivendo. A circa metà saggio, Fortini interrompe la sua analisi letteraria per osservare:

è come se negli anni della guerra fredda, dopo il 1954 e le scomuniche marxiste di Pio XII, un poeta cattolico avesse, anche solo in una variante, esaltato i comunisti vietnamiti vincitori a Dien Bien Fu; ipotesi assurda, tanto più che quei patrioti non erano cattolici come il generale De Lattre de Tassigny.4

A partire da questo accenno parentetico, è possibile isolare un atteggiamento discorsivo costantemente adoperato da Fortini nella sua scrittura saggistica, teso a marcare la stretta connessione di rapporti col tempo al fine di formulare, a partire dal testo, una promessa

per il futuro declinata a seconda delle tensioni che si stabiliscono tra dominati e dominanti.

L’operazione viene compiuta dall’autore in nome di una «assoluta sincronicità tendenziale del mondo presente e passato e delle nostre esistenze in esso, sincronicità che deve essere conquistata e che comincia ad esistere intanto come rivendicazione della contemporaneità di tutti i viventi».5

3 Cfr. Luca Badini Confalonieri, «Nova franchigia»: attenzione ai popoli e alla loro liberazione negli Inni Sacri,

in Giovanni Bardazzi (a cura di), I «cantici» di Manzoni «Inni Sacri», cori, poesie civili dopo la conversione, Atti del Convegno dell’Università di Ginevra, 15-16 maggio 2013, Pensamultimedia, Lecce 2015, pp. 65-108.

4 NSI, p. 29. 5 VP, p. 124.

La sovrapposizione sincronica dei piani temporali genera nel saggio su Manzoni una deliberata ambiguità discorsiva, destinata a diventare la caratteristica principale della forma-saggio adottata dall’autore. Secondo Fortini, infatti, «bisogna sfidare il lettore a trovare nella pagina che legge altro da quello che il titolo della pagina sembra promettergli. La verità di un giudizio politico può essere scritta parlando di Proust, e un consiglio di poetica può nascondersi in una valutazione del dissenso dell’Est».6L’ambiguità di piani

temporali non si limita alla sola forma saggio; essa può essere riscontrata anche nella produzione poetica dell’autore, fittissima di rimandi extratestuali e di riferimenti diretti a

figure storiche che irrompono nella costruzione discorsiva del testo, per arrestarlo e

interrogarlo. Un esempio di questo meccanismo retorico è fornito dal componimento conclusivo del percorso poetico fortiniano, inserito come «epitome autobiografica»7

appena prima di quella Appendice di light verses e imitazioni di Composita solvantur (1994), che qui vale la pena citare per intero:

«E questo è il sonno…» Come lo amavano, il niente, quelle giovani carni! Era il ‘domani’,

era dell’‘avvenire’ il disperato gesto… Al mio custode immaginario ancora osavo

5 pochi anni fa, fatuo vecchio, pregare

di risvegliarmi nella santa viva selva.

Nessun vendicatore sorgerà, l’ossa non parleranno e non fiorirà il deserto.

10 Diritte le zampette in posa di pietà,

manto color focaccia i ghiri gentili dei boschi lo implorano ancora levando alla luna le griffe preumane. Sanno

che ogni notte s’abbatte la civetta

15 affaccendata e zitta.

Tutta la creazione…

Carcerate nei regni dei graniti, tradite a gemere fra argille e marne sperano in uno sgorgo le vene delle acque.

20 Tutta la creazione… 6 UDI, p. 195.

Ma voi che altro di più non volete se non sparire

e disfarvi, fermatevi. Di bene un attimo ci fu.

25 Una volta per sempre ci mosse.

Non per l’onore degli antichi dèi, né per il nostro ma difendeteci. Tutto ormai è un urlo solo.

Anche questo silenzio e il sonno prossimo.

30 Volokolàmskaja Chaussée, novembre 1941. «Non possiamo più, – ci disse, – ritirarci. Abbiamo Mosca alle spalle». Si chiamava Klockov.

Rivolgo col bastone le foglie dei viali.

35 Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia.

Proteggete le nostre verità.8

Nella disgregazione forzosa degli eventi imposta dalle condizioni esterne – «si dissolva

quanto è composto, il disordine succeda all’ordine»9 – il presente torna a interrogare il passato

per aprirsi, pur nella parziale immobilità dell’operare, a un ipotetico avvenire di redenzione («Proteggete le nostre verità»). Quel passato rievocato in chiave testamentaria rimanda a un contenuto intertestuale esplicitamente esibito nel primo verso di questo ultimo componimento “serio” di Composita solvantur, che riprende – letteralmente citandolo – l’incipit del testo liminare della prima raccolta di Fortini («E questo è il sonno,

edera nera, nostra / Corona […]»).10 Ai versi 30-33 si innesta inoltre un passato di memoria

“infraindividuale”, di storia collettiva. Il procedimento di costruzione formale risulta pertanto analogo a quello utilizzato per il saggio su Manzoni. Complementare, diremmo, ma inverso: lì era il presente appena trascorso della Guerra d’Indocina a inserirsi nella crepa degli eventi rivoluzionari ottocenteschi; qui, al contrario, di fronte all’apparente stasi

8 CS, pp. 561-562. 9 CS, p. 581.

10 «In corsivo e senza titolo come quello d’apertura, lo scritto che posto prima dell’appendice conclude la

raccolta piuttosto che una sequenza di versi mi pare una epitome autobiografica: “E questo è il sonno” sono le prime parole del primo verso di Foglio di via, lo scrissi cinquant’anni fa, “custode immaginario” è quello, di mutevole identità, della poesia che qui s’intitola, appunto, Il custode. Una volta per sempre è titolo di una raccolta di versi del 1963. La selva è quella del già ricordato canto del Purgatorio. “Tutta la creazione [geme insieme e patisce doglie]” richiama un tormentato passo dell’Epistola ai Romani, 8, 21», in CS, pp. 581- 582.

discorsiva, è la memoria storica a creare una frattura nel testo, nell’intenzione di riattivare, in un presente quasi del tutto paralizzato, un possibile slancio palingenetico. Come ha osservato Felice Rappazzo, «la stesura del testo è affidata ad un montaggio di strofe e di citazioni […], per lo più in corsivo, e al corsivo, appunto, si affida la soggettività del poeta- locutore; solo due strofe e un segmento di verso sono in tondo», che potrebbero rinviare a quella «voce esterna, dell’oggettività, della lucida razionalità storica, dell’Altro, della “realtà”».11

La circolarità del componimento non è riscontrabile soltanto a un livello intertestuale, ovvero nella ripresa del verso liminare della raccolta del ’46; essa può essere individuata nella struttura stessa del testo, che svolge la funzione di riabilitare una dialettica dal meccanismo inceppato. D’altra parte, in quest’ultima fase poetica, il moto dialettico viene riaffermato senza necessariamente subordinare – com’era accaduto all’altezza di Foglio di

via – il processo storico a un progetto politico organico, o meglio, a una compiuta

trasformazione del tessuto socioeconomico più facilmente realizzabile o situabile nell’immediato presente. Il segnale di resistenza viene lanciato, al contrario, tenendo conto della contrapposizione – ora più netta – tra storia e natura, spingendo l’interlocutore ad agire per riscattare il presente in un futuro di altri che verranno. La stessa

Ringkomposition macrostrutturale tra la prima e l’ultima raccolta suggerisce solo in

apparenza una forma perfettamente conclusa: di seguito a quest’ultimo componimento di

Composita solvantur viene infatti collocata da Fortini un’Appendice di light verses e imitazioni, quasi a significare l’impossibilità di serrare, in un ordine razionale compiuto,

un’esperienza in movimento da proiettare verso un orizzonte avvenire, aperta nel cammino irrisolto di un destino in continua distruzione e costruzione. L’irruzione della storia nella biografia dell’io-poetico si esplicita con chiarezza ai vv. 30-33, che permettono di individuare nel testo «un brusco effetto di montaggio, una violenta giustapposizione tematica, un secco scarto, stilistico e “tonale”»:12

Volokolàmskaja Chaussée, novembre 1941. «Non possiamo più, – ci disse, – ritirarci. Abbiamo Mosca alle spalle». Si chiamava

11 Felice Rappazzo, «E questo è il sonno…». Temi, montaggio, figuralità, in «L’ospite ingrato. Rivista online

del Centro Interdipartimentale di Ricerca Franco Fortini», 16 giugno 2009

http://www.ospiteingrato.unisi.it/e-questo-e-il-sonno-temi-montaggio-figuralita/ 12 Ibidem.

Klockov.

La precisione diaristica contrassegnata dalla presenza di luogo, mese e anno intralcia la lettura più agevole dei versi precedenti, costringendo il lettore a rallentare la dizione e a seguire il movimento del testo nel suo arresto prosastico: ad intenderlo, cioè, mentre viene interrogato. La stessa torsione del linguaggio poetico – ora diventato, fatta eccezione per gli a capo, brutalmente referenziale – introduce una frizione nella struttura verticale del testo, estraniando di fatto la strofa dal discorso, per integrarla contemporaneamente attraverso quel meccanismo di irruzione della storia di cui abbiamo poco sopra discusso.13

Va inoltre registrato il violento cambio di soggetto – «ci disse», nell’inciso – come se l’io scrivente stesse partecipando (e chiedendo al lettore di partecipare) attivamente a quell’azione compiuta cinquant’anni prima in Russia, durante la Seconda Guerra Mondiale. In questo modo, l’autore è in grado rivendicare la pretesa «che il registro non si chiuda / che si cerchi ragione, che si vinca», affidando ai destini generali il compito di una redenzione “immortale”: «…il disordine succeda all’ordine (ma anche, com’era nel vetusto precetto alchemico, si dia l’inverso)».14 Lo strappo del testo ai versi 30-33 giunge

d’improvviso a risvegliare il lettore dal sonno della “storia che è finita”, chiamando a testimoniare nel presente quel Klockov di cui Fortini riporta in nota il riferimento puntuale:

Klockov è il nome del commissario politico che, insieme ai «ventotto» eroi di Panfilov, fino alla propria morte volontaria contrastò vittoriosamente fanterie e carri armati tedeschi all’incrocio fra lo stradale di Volokolamsk e quello di Duboskovo, nel giorno e nel luogo dell’estrema vicinanza della Wehrmacht alla capitale sovietica. Pare avesse detto: «La Russia è grande ma non abbiamo più dove ritirarci perché dietro di noi c’è Mosca».15

13 «Se “contemporaneamente” è inteso in senso discorsivo, nella scrittura critica il tempo è una durata, ha

un prima e un dopo, uno svolgimento, una dialessi. Se invece si intende una istantanea divergenza interiore al verbo e all’effato, si parla in realtà di uno status metastorico e metatemporale del linguaggio (dove […] il variare dello spazio intercorrente fra segno e significato originerebbe di volta in volta esiti “simbolici” o “allegorici”). Anzi: si parla soprattutto della funzione autoriflettente del linguaggio, detta “poesia”», cfr. F. Fortini, Benjamin, l’allegoria e il postmoderno, in «Allegoria», III, 7, 1991, pp. 125-126 (ora in Romano Luperini (a cura di), Teoria e critica letteraria oggi: atti del Convegno internazionale 1960-1990: la teoria letteraria, le metodologie critiche, il conflitto delle poetiche, Siena, 10-12 maggio 1990, Franco Angeli, Milano 1991, pp. 263-264).

14 CS, p. 581. 15 CS, p. 582.

Anche in Valdossola (16 ottobre 1944) il senso della fine era stato enunciato dal poeta nella stessa impossibilità di indietreggiare. Tuttavia, allora come adesso, la salmodia “di coloro che verranno” – caratteristica di buona parte dei testi di Foglio di via (1946), impregnati di evidenti stilemi biblici – aveva il compito di respingere la minaccia della fine («Qui siamo giunti / Siamo gli ultimi noi / Questo silenzio che cosa. // Verranno ora

/ Verranno»).16 Un’ulteriore spia allusiva che ci porta – secondo Lenzini – a ripercorrere il

cammino iniziato da Fortini a partire dalla sua prima raccolta, senza tuttavia intendere il testo di Composita solvantur come un ritorno patetico sui luoghi di un tempo: «è un grande istante, piuttosto, in cui entra in gioco l’umano, di fronte all’inumano e preso tra il “non più” e il “non ancora”; rischio, chance, crisi, svolta».17

Ricordando il poeta in occasione del centenario della nascita, lo stesso Lenzini invitava alla lettura della poesia conclusiva di Composita solvantur per interrogare il destinatario del testo sull’eredità fortiniana nel presente.18 Un’eredità che va configurata entro un ordine

di tempo rivoluzionario, all’interno cioè di una specifica idea di storia non progressiva, dove le cose composte si dissolvono, diventando le rovine del sottotitolo di un saggio di quegli anni.19 Sono rovine che somigliano – anche se non ancora fredde, e di cui per questo

bisogna sconsigliare un cattivo uso20 – alle stesse sorvolate dall’Angelo descritto da

Benjamin nelle sue note Tesi di filosofia della storia, la cui seconda recita, nella versione estesa riportata nel volume Sul concetto di storia:

Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute? […] Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi

siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una ‘debole’ forza messianica, a cui il passato ha diritto.21

16 FV, p. 20; cfr. Luca Lenzini, Da un seminario su Foglio di via, in Id., Un’antica promessa: studi su Fortini,

Quodlibet, Macerata 2013, pp. 77-127.

17 L. Lenzini, Un’antica promessa, cit., p. 127.

18 L. Lenzini, L’appuntamento. Sull’eredità di Franco Fortini, in «Le parole e le cose», 10 settembre 2017, http://www.leparoleelecose.it/?p=28874

19 Cfr. F. Fortini, Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Garzanti, Milano 1990 (infra: ER). 20 Cfr. F. Fortini, Benjamin, l’allegoria e il postmoderno, cit., p. 129 (in R. Luperini [a cura di], Teoria e critica letteraria oggi, cit., pp. 261-268).

21 Walter Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Einaudi, Torino

La stessa coincidenza di una corresponsabilità universale che travalica le epoche e attraversa le generazioni si legge in un componimento di Poesia e errore intitolato

Complicità, le cui tre strofe corrispondono a una scansione temporale rispettivamente

riferita al passato, al presente e al futuro: Per ognuno di noi che dimentica c’è un operaio della Ruhr che cancella lentamente se stesso e le cifre

che gli incisero sul braccio i suoi signori e i nostri.

Per ognuno di noi che rinuncia un minatore delle Asturie dovrà creder e a una sete di viola e d’argento e una donna d’Algeri sognerà d’essere vile e felice.

Per ognuno di noi che acconsente vive un ragazzo triste che ancora non sa quanto odierà di esistere.

195522

Il senso di essere nella storia – o, come corregge lo stesso Fortini citando il volume di Paul Sweezy, di essere nel «presente come storia»23 – risultava a tal punto problematico

da costringere l’autore ad annotare «puntigliosamente ogni data; fino al ridicolo».24 La

storia si configura per Fortini quanto di più “naturale” possa dirsi per gli uomini: vivere significa partecipare nel tempo senza fiducia nell’immediato domani, ma con minuziosa cura verso un presente in grado di preparare un futuro di riscatto sociale e di redenzione collettiva; una prospettiva temporale che il postmodernismo modificherà radicalmente, con esiti vistosi nella stessa scrittura fortiniana, orientata sin dagli esordi alla ricerca di interlocutori con i quali condividere un progetto di trasformazione politica.

22 PE, p. 167.

23 Paul M. Sweezy, The Present as History: Essays and Reviews on Capitalism and Socialism, Monthly Review

Press, New York 1953 (trad. it. Ruggero Amaduzzi, Il presente come storia: saggi di ricerca marxista, Einaudi, Torino 1962).

24 «Interpretare simbolicamente il proprio passato prossimo giova a poco e a pochi. Meglio assumere la fede

razionale degli storici, che amano civettare con lo scetticismo. O anche parlare di un passato remoto tutto ridotto ad allegoria; per combattere con quelle antiche armi lotte d’oggi», IN, pp. 21-22.

Alla domanda sulla necessità di una poesia accessibile a tutti, formulata agli inizi degli anni Ottanta, l’autore rispondeva: «non sono per l’immediatezza, sono per la mediazione […]. Se quindi si parla di capacità naturale o acquisita, io non so cosa sia una capacità naturale. Non lo so, ignoro cosa sia una capacità naturale. Tutto quello che mi è stato insegnato è la lingua di mia madre […]. Di naturale c’è solo la storia. Quando si dice capacità naturale, si dovrebbe dire una capacità storica. Siamo in un fiume storico, una corrente, un filo».25 Fortini rifiuta d’altra parte una concezione temporale basata sul processo unidirezionale della storia come continuum e perpetuum, privo di salti qualitativi,

che genera scientismo, ottimismo tecnologico, riformismo, prediligendo viceversa «il paradosso della simultanea realtà della durata e degli intervalli»;26 che implica – per dirla

con una formula – un modo di essere «con la storia contro la storia»:

Restituiti oggi, come siamo, a uno stato dove fraternità, solidarietà e amicizia sembrano sopravvivenze o fossili e dove neppure sussiste il legame delle “cose” che “dicono l’uomo all’uomo”, vien fatto di ricordare una profezia “di queste città resterà quel che le attraversa ora: il vento”. Infatti, le case delle nostre periferie, il Bronx, Notre Dame, le luci del tramonto sull’Aventino, le celle delle galere, tutto sembra ancora e per sempre lì; ma la religio profana della democrazia liberal-illuministica e poi social-scientistica si è dissolta lungo tutto il secolo o, peggio, si è conversa nell’universale e presente tritacarne. Sartre ci ricorda che autenticità e libertà possono nascere solo dal riconoscimento di quelle soluzioni di continuo, nella storia ma in urto con la storia, dall’attimo abbagliante in cui la certezza della fine di ogni falsa solidarietà diventa inizio di un’azione vera, o più vera. Tutto è da contemplare. Tutto è da fare.27

Nella frase conclusiva della prosa pubblicata su L’ospite ingrato è inscritta una contraddizione tra contemplazione e azione – tra poesia ed errore – che resterà solida nel pensiero e nell’opera di Fortini; una contraddizione che deve certo essere interpretata alla

25 F. Fortini, I poeti, la città, interventi poetici nella città (1981), in Fabrizio Podda, Il senso della scena: lirica e iconicità nella poesia di Franco Fortini (con un inedito), Pacini, Pisa 2008, p. 203.

26 VP, p. 126.

27 La frase si trova inizialmente nel saggio Le mani di Radek, VP, p. 128. Il passo citato è un breve testo

contenuto in L’ospite ingrato secondo, intitolato Con la storia contro la storia, cfr. OI, p. 1087. Cfr. anche la quindicesima tesi di filosofia della storia di Benjamin – «La coscienza di far saltare il continuum della storia è propria delle classi rivoluzionarie nell’attimo della loro azione» – riportata da Fortini nella nota al saggio di Verifica dei poteri (VP, pp. 126-127). Anche Marcuse cita lo stesso passo di Benjamin in Eros e civiltà, ricordando che «il fluire del tempo è il più naturale alleato della società nel suo intento di conservare legge e ordine, posizioni conformiste e istituzioni che relegano la libertà nel campo delle eterne utopie; il fluire del tempo aiuta gli uomini a dimenticare ciò che è stato e ciò che potrebbe essere: esso fa sì che essi dimentichino un migliore passato e un futuro migliore», cfr. Herbert Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1964, p. 184 (la tesi di Benjamin è citata in Ivi, p. 186). Cfr. anche UDI, p. 267.

luce di una dialettica “in cammino”, mediante la quale è possibile integrare il movimento del singolo nella costruzione di una collettività, e viceversa. La stessa espressione conclusiva della prosa del 1981 veniva anticipata da un componimento in versi intitolato

L’apparizione, contenuto nella sezione La posizione (1962-1968) di Questo muro (raccolta

suggellata – come vedremo meglio più avanti – da L’ordine e il disordine, testo che esibisce al massimo grado la scissione tra i due poli):28

Continua a sparire e apparire un uomo innominabile. È come nel video. Non lo senti