• Non ci sono risultati.

Il fantasma dell’arte, l’ironia della forma

Forma, linguaggio, figura

4. C OSTANTE FIGURA

4.2 Il fantasma dell’arte, l’ironia della forma

Nell’allegato che accompagna le quattro poesie pubblicate su «Officina», la contraddizione tra «poesia» ed «errore della poesia» viene espressa in uno stile tanto perentorio da confermare il peso che ha agito sulla stessa scrittura fortiniana la vulgata – ancora oggi diffusa – di un Fortini grande critico e saggista ma autore di versi mediocri.56

L’incipit dell’allegato condensa in poche righe la gravità dei giudizi dei suoi contemporanei, determinanti – insieme ai mutamenti contestuali – nella creazione di una narrativa della rinuncia e dell’errore che l’autore stesso porterà avanti fino a quando

biografia, un testo del ’56, l’anno orribile, Fortini dissimulando una divisa etico-politica dentro una dichiarazione di poetica aveva scritto: “una ho portato costante figura, / storia e natura, mia e non mia, che insiste; derisa impresa, ironia che resiste, / e contesa che dura”», cfr. Massimo Raffaeli, Un giorno o l’altro, «L’Indice dei libri del mese», 1 gennaio 2006, https://www.quodlibet.it/recensione/580

55 R. Bonavita, L’anima e la storia, cit., p. 271. 56 Ivi, p. 249.

almeno la sua voce poetica potrà distaccarsi dai modelli assorbiti durante gli anni di formazione – mai condivisi del tutto ma pur sempre praticati – e assumere uno stile proprio, più maturo. Come vedremo meglio nella parte terza, a partire da Una volta per

sempre (1963) si mostra in maniera più chiara, in linea con gli interventi saggistici

pubblicati in Verifica dei poteri, il tentativo di mantenere l’estetico pur rifiutandone il carattere consolatorio della forma.57 D’altra parte, l’errore della poesia risulta ancora

predominante nel decennio degli anni Cinquanta, tanto da condizionare non di rado i tratti di una scrittura critica che si muove – spesso con lieve ritardo – insieme alla costituzione di una nuova poetica. L’altezza della situazione, o perché si scrivono poesie inizia con queste parole:

Scrivo versi anche perché penso che la poesia in versi abbia oggi, e più oggi di jeri, sue buone ragioni di esistere. Quei versi mi paiono spesso mediocri o così sono considerati. Me ne dispiace. Mi piacerebbe esser persuaso di aver scritto una bellissima poesia e sentirmelo dire da coloro che amo e che stimo. […] Non quelle lodi sono venute che mi sarebbero state gradite. Amici benevoli scuotono il capo davanti al mio volto, quando somiglia all’antichissima maschera del cattivo poeta; e, affettuosi, consigliano maggior impegno nel lavoro critico dove, dicono do buoni frutti. Quindi i miei versi, stampati o scritti, sono un argomento, per me, sommamente patetico. So bene che partecipano di tutti i vizi che da critico leggo nella maggior parte della poesia dei nostri giorni.58

L’organizzazione discorsiva del primo paragrafo dell’allegato sembra dunque confermare la credenza – quasi assorbita dallo stesso autore che ne scrive – di un Fortini poeta “mediocre”, in odio verso una certa concezione diffusa dello scrivere versi. Eppure, a questo incipit brutale, di apparente rifiuto della letterarietà, l’autore accompagna un procedimento retorico volto a reintegrare la funzione del poetico all’interno di un orizzonte sociale: la poesia sarebbe secondo lui possibile soltanto in seguito a una radicale messa in discussione del poetico. La frase conclusiva dell’intervento è in questo senso eloquente: «il solo vero modo […] di dissacrare la poesia e di uscire dall’estetismo è quello di far poesia».59

57 «Non si deve rinunciare a nulla», Prefazione alla seconda edizione di «Verifica dei poteri» (1969), p. 391-396;

cfr. supra, 3.3.

58 F. Fortini, L’altezza della situazione o perché si scrivono poesie, cit., pp. 71-72. 59 Ivi, p. 80.

Lo schema retorico adottato è tipico della costruzione discorsiva fortiniana, che si avvale della dialettica come arma per contrastare le facili assunzioni di un pensiero “puro” o trasmesso come stato naturale delle cose. Si tratta di spingere verso le frontiere del negativo la cultura e l’idea di uomo che ci è stata data, mantenendo lo sguardo verso un passato che deve essere spogliato di sacralità, quindi interrogato nei suoi effetti sul presente. Tale operazione non viene – e non può – essere condotta con l’impeto e con l’immediatezza delle avanguardie, né arrestarsi al solo stato di negazione. Il compito del critico-intellettuale – e del poeta, la cui scrittura deve essere accompagnata da un necessario momento di autocritica – diventa quello di riconoscere, attraverso un lucido lavoro di ricognizione delle forze extra-poetiche, la mistificazione dell’immagine di uomo veicolata dalla classe dominante. Sono gli anni in cui Fortini assorbe, grazie alla mediazione di Solmi e di Cases, la lezione dei francofortesi, per i quali diventa urgente la critica alla nascente «industria culturale».60 In accordo con Asor Rosa, egli stesso potrà

con più decisione affermare negli anni Ottanta – anche in seguito all’acuirsi di trasformazioni socioeconomiche radicali – che «la letteratura deve smettere di essere tutto: solo a queste condizioni può pretendere di essere qualcosa».61

Gli estremi del ragionamento stabiliti in L’altezza della situazione – tendenziale rifiuto del poetico da una parte; invito a non rinunciare a nulla dall’altra – traducono una tensione argomentativa molto simile al movimento descritto nei cinque distici di Metrica e

biografia. Per questa ragione, ritengo utile tracciare alcune analogie tra i due testi, pur

considerando – come vedremo – la possibilità di continua significazione della forma poetica, inscindibile dalle stesse costanti retoriche e prosodiche che per Fortini vanno considerate come il riflesso di una tensione osmotica con le forze extrapoetiche ed extraletterarie.

Allo stesso modo di Metrica e biografia, tra i due poli della contesa è posta nell’allegato una «costante figura», che adesso viene meglio definita, diventando parte centrale dello

60 Si ricordi l’introduzione di Renato Solmi a Minima e moralia di Adorno, volume pubblicato per Einaudi

nel 1954 (cfr. Renato Solmi, Introduzione a Minima moralia di Theodor W. Adorno, Quodlibet, Macerata 2015, di cui Fortini scrisse, nel 1977: «Leggere le cinquanta pagine introduttive è chiedersi come un giovane da poco uscito d’università abbia potuto scrivere pagine di tanta assoluta intelligenza e lucidità storica; e come simile risultato si sia dato in una situazione politica e intellettuale di chiusura, di dimissione e irrigidimento», crf. Quando arrivò Adorno, «Corriere della Sera», 6 febbraio 1977).

scritto e tema ripreso da Fortini nel corso del suo lavoro di riflessione teorica sugli strumenti della poesia. La contesa è descritta come «impresa derisa» e «ironia che resiste» di una autorialità che deve rendersi consapevole dei limiti della forma, evitando di imbrigliare la propria fisionomia entro i poli dell’estremo formalismo e dell’estremo informalismo. Come ha osservato Balicco:

quando i limiti e i confini dell’estetico vengono riconosciuti e onorati, alla dimensione tragica e nichilista delle due precedenti opposizioni radicali subentra invece un atteggiamento conoscitivo ironico. Perché l’opera d’arte è un prodotto di lavoro; un prototipo di esperienza possibile, un modello di umanità liberata; ma non coincide e non può coincidere mai con la vita vera, essendone per contro un’estraneazione. Di qui l’ironia necessaria dell’orizzonte estetico come qualità intrinseca alla sua forma: perché l’ironia non è altro che la capacità soggettiva di auto- correggere l’esperienza mediante riflessione e distacco.62

La funzione di estraneazione della scrittura in versi viene svolta dalla convenzione metrica in virtù del suo sistema di rimandi interni ed esterni al testo. La scrittura poetica fortiniana indossa i panni della «sublime lingua borghese» – morta e al contempo storicamente appartenente alla classe dominante – impiegata in forma straniante e senza alcuna vestizione ieratica. In opposizione alle poetiche dell’irrazionale e dell’istintuale, che identificano illusoriamente letteratura e vita, Fortini oppone – in forme configurate a seconda delle fasi poetiche e dei modelli assorbiti – una scrittura controllata che predilige il momento autocritico. Pittore, oltre che poeta, Fortini motiva questa tendenza al controllo con un’analogia molto efficace che qui vale la pena riportare:

Persuaso che la possibilità dell’espressione poetica si situi all’estremità d’una cultura ho sempre disprezzato l’artificiale coltivazione delle tenebre, l’ignoranza raccomandata da molte poetiche di jeri all’apprendista poeta. Meglio fallire per sterilità che riuscire un bel verso sul buio. A un pittore che dipinge su fondo nero tutti i tòni vanno a posto – finché la superficie non è coperta. Allora son dolori e spesso tutto il bell’equilibrio se ne va in aria. Ora, nei confronti della coscienza critica, l’atto di scrivere versi ha sempre qualcosa dell’utopia, o meglio dell’ipotesi di lavoro.63

62 Daniele Balicco, Una lettera a Nietzsche: Fortini e il nichilismo di massa, «Allegoria», anno XXIII (terza

serie), n. 63, gennaio/giugno 2011, p. 132.

63 F. Fortini, L’altezza della situazione o perché si scrivono poesie, cit., p.72. La stessa analogia viene ripresa in

Non bisogna allo stesso tempo dimenticare che il discorso condotto da Fortini nell’allegato è spinto dalla volontà di opporre una distanza radicale rispetto a modelli o poetiche dell’oscuro che lui stesso – pur con continua diffidenza – aveva attraversato durante gli anni giovanili vissuti a Firenze. È chiaro dunque che il brusco rifiuto di una certa linea poetica risulti non soltanto rivolto all’esterno, ovvero come attacco a un campo culturale per certi versi ancora egemone, ma anche all’interno, in funzione autocritica, nel tentativo di liberare la propria voce da sedimentati influssi ermetici e superare una crisi poetica che non permette ancora di mostrare una fisionomia autoriale piena e insieme coerente a scelte etiche e morali. Tale operazione passa inoltre per la critica agli elementi formali della composizione, ovvero a un insieme di costanti retoriche e prosodiche sedimentate in una memoria che richiedono uno sforzo non indifferente di distanziamento e di controllo dei mezzi espressivi.

La metrica si presenta dunque come strumento di straniamento che consente al poeta di distanziarsi – e di difendersi – da forme di scrittura immediata e velleitaria o da una libertà senza vincoli che si scopre essere una mistificazione. Accanto e insieme alla funzione critica, la metrica garantisce inoltre un sostegno valido allo scrittore che rifiuta di “dipingere” sul fondo nero dell’irrazionale e dell’istintuale, e che per questo deve confrontarsi con la difficoltà di composizione, dovendo giustapporre sul bianco della tela colori e tonalità. La coscienza della forma mediante la padronanza – teorica e pratica – della tecnica diventa pertanto un mezzo attraverso il quale è possibile sottrarre l’io che scrive alla creazione di un’immagine posticcia del sé come prodotto del volontarismo. Fortini collega questa attitudine – e lo farà con più decisione nei decenni successivi, quando il fenomeno del «surrealismo di massa» sarà ancora più evidente – allo sviluppo delle forze capitalistiche che diffondono, «ad uso dei popoli sottosviluppati, dei vecchi modelli di individualismo prodotti anni fa oltreoceano», come quel «ragazzo che comincia a vendere giornali e risparmiare il mezzo dollaro per poi diventare Edison o Ford, e cioè Eliot o Thomas Mann».64

Per Fortini, dunque, la battaglia contro una certa idea di «lirica soggettiva autobiografica diaristica» corre sugli stessi binari di una critica a un intero ordine socioeconomico che sorregge il ritratto mistificato dell’artista, una costruzione garantita

da un “discorso” che identifica il successo dell’operazione espressiva con il successo nella vita reale, restituendo un universo di individui e di solitudini che continuano ad accettare, senza sottoporla al vaglio critico, la forma che la classe dominante possiede e diffonde, utilizzando tale continuità come strumento di potere che garantisce il mantenimento dell’egemonia. Avvalersi criticamente della convenzione metrica e marcare la sua necessità significa per Fortini condurre un discorso volto a denunciare la falsa coscienza di un ordine di valori che intende garantire una libertà a tutti, ma che al contrario finisce per restituire un’immagine fallace dell’esistenza dove ciascuno può credersi al sicuro all’interno di uno spazio distaccato dal “reale” che rende superflue le scelte. Il motivo per cui si continuano a scrivere poesie potrebbe essere per l’autore il seguente:

l’atto di comporre versi, cioè l’operazione sul linguaggio, proprio nella misura in cui perde il suo rapporto con la realtà e quindi il suo carattere funzionale, accresce la propria capacità di illusione ossia più largamente contribuisce alla fabbricazione di una personalità mistificata, posticcia, e a far credere il «doppio» più vero del vero soggetto. Detto altrimenti: mai così bene come nell’attività pseudo artistica la personalità nevrotica si prende per autentica.65

Tuttavia – osserva ancora l’autore – il meccanismo di raddoppiamento dell’immagine come altro da sé compiuto nella forma di poesia-mistificazione non è così diverso dalla “poesia-autenticità” e non deve pertanto essere condannato in toto. La differenza tra mistificazione e autenticità non viene stabilita da alcun sistema di valori né da un canone letterario; essa può secondo Fortini essere percepita nell’ordine stesso che il poeta “impone” al verso, dentro cui passano, senza riuscire a nasconderne i tratti, il suo carattere, le sue scelte e gli elementi della società all’interno della quale la scrittura poetica si sviluppa. Detto altrimenti, tanto più si degrada a “pratica superstiziosa” e a velleitarismo, tanto più la poesia mostra in negativo la sua capacità di rivelare un ordine di valori e di credenze appartenenti a una data storicità o cultura: «vero siero della verità, projezione simultanea del volontario e dell’involontario, dell’individuale e del collettivo, nulla le sfugge».66 In una prosa del 1964 pubblicata su L’ospite ingrato Fortini riprende la stessa

65 Ivi, p. 75.

contraddizione, sviluppando con maggiore chiarezza il nesso tra creazione artistica e i meccanismi che regolano l’industria culturale:

La menzogna corrente dei discorsi sulla poesia è nella omissione integrale o nella assunzione integrale della sua figura di merce. Intorno ad una minuscola realtà economica (la produzione e la vendita delle poesie) ruota un’industria molto più vasta (il lavoro culturale). Dimenticarsene completamente o integrarla completamente è una medesima operazione. Se il male è nella mercificazione dell’uomo, la lotta contro quel male non si conduce a colpi di poesia ma con «martelli reali» (Breton). Ma la poesia alludendo con la propria presenza-struttura ad un ordine valore possibile- doveroso formula una delle sue più preziose ipocrisie ossia la consumazione immaginaria di una figura del possibile-doveroso. Una volta accettata questa ipocrisia (ambiguità, duplicità) della poesia diventa tanto più importante smascherare l’altra ipocrisia, quella che in nome della duplicità organica di qualunque poesia considera pressoché irrilevante l’ordine organizzativo delle istituzioni letterarie e, in definitiva, l’ordine socioeconomico che le sostiene.67

La variante o la scelta metrica come «approssimazione della forma» diventa per Fortini uno strumento utile a riconoscere quell’ipocrisia, dal momento che essa risulta strettamente correlata a una scelta morale materialmente saldata con una biografia consumata in effigie, nonché mezzo attraverso cui riconoscere un sistema di elementi e di convenzioni collocati all’interno di una data società. L’utilizzo della funzione metrica permette inoltre di percorrere una direzione contraria rispetto all’atteggiamento di dissacrazione dell’arte e della poesia assunto dalle avanguardie di fronte all’alienazione artistica europea e in parte adottato dallo stesso Fortini nei suoi primi tentativi di espressione poetica. Tale atteggiamento viene adesso denunciato dal poeta come fallimentare – o meglio, del tutto errato – dal momento che è lo stesso capitalismo a incoraggiare l’operazione di dissacrazione e di desacralizzazione dell’arte compiuta dalle avanguardie, assorbendola e amministrandola secondo un criterio di efficienza. Collocando l’arte su di un piano “alto” – ovvero trascinando le folle alle esposizioni e moltiplicando così «le forme più sciocche d’estetismo» – la società capitalistica si fa

67 OI, p. 982.

espressione del più acuto odio per l’arte, mascherando sotto l’apparente promessa di liberazione una forma che non appartiene né a chi la pratica né a chi la fruisce.68

Dopo aver attraversato retoricamente il negativo e rivelato la contraddizione della scrittura in versi, Fortini può concludere la sua argomentazione presentando un luogo di superamento necessario affinché lo sviluppo del discorso non si arresti a un nichilismo da sempre osteggiato. Riconoscendo il valore della forma come superamento della forma stessa – quindi continuando a praticare la poesia – è possibile “dissacrare” la poesia stessa e uscire dall’estetismo, senza ricorrere alla completa distruzione operata dalle avanguardie né, viceversa, osservare il culto dell’elemento formale come Assoluto, svincolato dal contesto a cui il letterario si collega per origine e destinazione. Soltanto mediante questa doverosa operazione (auto)critica – tradotta in definitiva come riconoscimento e accettazione del nesso metrica-biografia in un contesto specifico – è possibile affidare alla «costante figura» un ruolo positivo. Nel lungo saggio Le poesie di questi anni pubblicato su «Il menabò» nel 1960, Fortini poteva affermare:

Nella poesia più recente, passato, presente e futuro tendono […] a riferirsi a eventi collettivi, su quelli si ordina la biografia. Il passato è l’infanzia o la giovinezza ma anche, o più spesso, il tempo del fascismo, della guerra esterna o civile; il presente è la maturità ma è anche tempo di conflitti politici, della restaurazione sociale, del progresso o regresso di una parte o di una causa; il futuro è quello della morte ma anche di una rivoluzione o conciliazione o generale catastrofe. […] Questo inserimento delle biografie in un complesso di eventi ha voluto dire anche inserire il proprio passato e il proprio futuro nel passato o nel futuro di un popolo, o classe o genere umano; non soltanto ripresa, dunque, del senso romantico della storia ma anche della Stimmung della Ginestra.69

68 La stessa operazione avviene anche con le forme artistiche a carattere contestatario, che vengono assorbite

e trasformate come forme redditizie in energia necessaria ad (auto)alimentare la macchina capitalistica; cfr. Mark Fisher, Capitalist Realism: Is There No Alternative?, Zero Books, Winchester 2009 (tr. it. Valerio Mattioli, Realismo capitalista, Nero, Roma 2017). Ma già per Fortini «i surrealisti, e Breton per primo, non hanno saputo comprendere che nel corso del ventennio fra le due guerre erano venute maturando forze di oppressione politica e di massificazione culturale tali che le loro opere e le loro manifestazioni sarebbero state accuratamente inserite dalle potenze ideologiche ed economiche nel variopinto mosaico di ciò che è accettato e dunque non scandalizza più. Ed è questo, senza dubbio, uno dei più forti argomenti della polemica comunista contro i surrealisti» (F. Fortini, Il movimento surrealista, Garzanti, Milano 1959, pp. 40-41).