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Forma, linguaggio, figura

1. C ON LA STORIA CONTRO LA STORIA

1.2 La metrica tra testo e contesto

Dalla nota manzoniana della Pentecoste utilizzata come sinòpia45 per tracciare le linee

generali del percorso è possibile estrapolare un ulteriore passaggio argomentativo che permette di introdurre l’elemento centrale di questo lavoro, mostrando in che modo l’analisi filologica venga utilizzata da Fortini come momento preparatorio allo studio dei rapporti tra testo e contesto. La lettura della nota su Manzoni interessa in questa sede per isolare uno specifico modo di procedere della scrittura critica fortiniana, volta a individuare negli eventi storici delle potenziali corrispondenze col presente. Come ha osservato Emanuele Zinato, «poiché la cifra della scrittura [di Fortini] è la contraddizione,

41 FV, pp. 66-67. 42 OI, p. 951. 43 OI, p. 952. 44 OI, p. 953.

arma di una lotta mentale, il tempo e l’esperienza individuali trovano cittadinanza nella scrittura solo come relazione con gli scomparsi, consapevolezza dello strazio storico e fiducia in un lettore avvenire. Il suo saggismo critico si nutre, per così dire, delle ceneri dell’autobiografia: che diviene verticalità e profezia. Ciò accade soprattutto negli scritti dedicati alla sua costellazione di autori: Proust, Manzoni, Goethe, Tasso».46

In una prima interpretazione dei versi collocati dopo l’apostrofe al bellico coltivator

d’Haiti – «Fido agli eterni riti / Canta, disciolto il pié» – Fortini associa il piede disciolto

del contadino alla libertà riconquistata degli haitiani, spezzate le catene, dagli ex coloni francesi.47 Tuttavia – aggiunge immediatamente – «non è del tutto da escludere, per

quanto sia improbabile, che ‘disciolto il pié ’ serbi anche una eco del ‘pede liberato’ oraziano e alluda simultaneamente alla libertà e al ritmo ditirambico, tipico dei canti religiosi dei negri haitiani, misti di elementi vodu [sic] e di elementi cristiani, in forme di culto fondate proprio sulla possessione da parte di spiriti, sulla discesa o penetrazione dello Spirito, in accezione anche propriamente pentecostale…».48 L’interpretazione – certo originale,

come lo stesso autore riconosce – permette di isolare nella nota il riferimento costante di Fortini al lessico della composizione poetica, impiegato non di rado in contesti politici o in interventi non direttamente legati alla teoria del verso.

È noto infatti che l’autore dedicò una parte consistente del suo lavoro teorico all’evoluzione dei fenomeni di versificazione. Tale attenzione è stata più volte ribadita dalla critica, tanto che lo stesso Raboni ha definito Fortini un «poeta essenzialmente metrico», il cui punto mirato del suo operare «non è la dissoluzione, la trasgressione della metrica tradizionale, ma […] un lavoro di sperimentazione all’interno di questa metrica».49 Il giudizio di Raboni non va tuttavia inteso in relazione all’attento lavoro di

limatura del testo – che, com’è facile obiettare, riguarda ogni poeta che vuole fare un buon

46 Emanuele Zinato, L’inconscio politico e i destini generali: autobiografia e saggismo critico in Franco Fortini,

in Luigi Carosso e Paolo Massari (a cura di), Come ci siamo allontanati. Ragionamenti su Franco Fortini, Arcipelago, Milano 2016, p. 17.

47 «Per quanto poco perspicua, l’espressione ‘gli eterni riti’ pare alludere ai riti della fede cattolica, soli degni,

nell’ottica dell’inno, di essere considerati eterni. Ma perché ‘fido’? Sembra probabile che debba esser messo in rapporto a ‘disciolto il piè’: il contadino di San Domingo è fedele ai riti cattolici anche dopo aver riacquistato la libertà», NSI, p. 33.

48 NSI, p. 34.

49 Metrica e biografia. La ricerca poetica, critica e ideologica di Franco Fortini (Seminario in onore del prof.

Franco Fortini tenuto presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena l’8 maggio 1986), «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia», Leo S. Olschki, Firenze 1987, p. 33.

lavoro, «per l’illustre banalità secondo la quale nessun metro è “libero”»50 –; né, tuttavia,

va letto alla luce dei singoli rimandi testuali alla metrica presenti nei titoli o nel corpo dei componimenti in versi (es. Sonetto, Strofa, Sestina a Firenze, Canzonette del Golfo...). La frase di Raboni andrà al contrario interpretata in relazione alla tendenza di Fortini di considerare la metrica come paradigma critico per intendere i conflitti reali di quei rapporti sociali e storici che nella letteratura e nella scrittura – intesa innanzitutto come sistema di “scelte” – trovano espressione.

Secondo Raboni, infatti, «già dagli antecedenti di Foglio di via, le strutture metriche della sua poesia sono strutture che pensano se stesse nella misura in cui respingono, da un lato la funzione (attuata con una mimica o mentale naturalezza) di “respiro”, dall’altra una funzione cieca, aprioristica di rottura o di scandalo».51 Raboni riconosceva nella traduzione

il terreno privilegiato a partire dal quale riconsiderare le nozioni di metrica e di ritmo, per sviluppare in seguito – durante la pratica di versione – un’originale dizione poetica; poiché, molto semplicemente, «traducendo e dovendo quindi rinunciare spesso ad una pienezza metrica per ragioni di fedeltà, si lavora molto sul valore metrico della singola parola».52

Come vedremo meglio nella parte terza di questo lavoro, il poeta milanese individuava nelle traduzioni di Fortini quell’essere un tutt’uno con le sue poesie, tanto da inquadrare la versione del Faust all’interno di un contesto di ipotesi e proposte metriche attive nella poesia italiana dal dopoguerra in poi. Raboni si spingeva oltre, definendo la traduzione di Goethe una forma indiretta di saggio dedicato alla metrica, «ricco di valore dimostrativo e persino di precisione didattica in quanto le moltissime soluzioni inventariate sono ovviamente riferibili a un repertorio scritto di sollecitazioni (il testo a fronte)».53 Egli

avanzava nel suo giudizio una verità essenziale: prima ancora delle riflessioni teoriche in forma di saggio, è la prassi poetica – la traduzione è in parte un’operazione di riscrittura, «una composizione a mosaico in cui si tratta di riprodurre una figura determinata»54 – a

fornire indirettamente le linee guida delle pratiche di composizione del verso.

50 MB, p. 73; è indirettamente citata da Fortini la frase di Eliot: «No vers is libre for the man who wants to

do a good job», T. S. Eliot, The music of poetry, Jackson Son & Co, Glasgow 1942, p. 65.

51 G. Raboni, Poesia degli anni Sessanta, Editori Riuniti, Roma 1976, ora in Id., L’opera poetica, Mondadori,

Milano 2006, p. 407.

52 Ibidem. 53 Ibidem.

54 Renato Solmi, Introduzione a W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 2014 (prima edizione: 1962),

In quanto particolare declinazione di un orientamento etico ed estetico che ha radici nel pensiero religioso e marxista, il discorso sulle scelte formali della poesia si sviluppa in Fortini integrando costantemente la teoria con la prassi: è un discorso «estremamente presente a se stesso e, per così dire, materialmente autocosciente»,55 che permette di situare

la critica a partire dalla pratica di scrittura e di lettura del testo stesso. Secondo Henri Meschonnic, «l’étude d’une œuvre en tant que telle, et non de la langue ou dans la langue, doit se définir d’abord par rapport à la stylistique […] pour reconnaître les problèmes spécifiques de la, ou d’une poétique. Il s’agit d’entrer dans l’œuvre, de reconnaître ce qui la fait, et qui est son langage, un langage qui n’est ni une confession ni, comme le posaient dans leurs débuts les formalistes russes, une convention».56 La scelta di prediligere nel

testo la “componente” stilistica, impossibile da astrarre come elemento a sé dell’opera globale, è da intendersi al di fuori dello scientismo formalista – che per Meschonnic, è la faccia capovolta del soggettivismo57 – il quale ridurrebbe i problemi del testo a quelli

dell’analisi linguistica. Secondo Meschonnic, la lettura strettamente analitica e quantitativa dell’opera porta non soltanto a ricollocare la poesia entro un aristotelismo del contenuto e dell’espressione, ma soprattutto a occultare che lo stile è partecipazione.58 Il

valore complessivo dell’opera poetica – valore che si nutre degli elementi propri alla teoria della letteratura, alla storia, alla biografia, a tutto l’insieme culturale – risiede allora nell’inquietudine tecnica, inseparabile, secondo Meschonnic, da un’inquietudine dello spirito: «il y a un trajet ininterrompu, réciproque, entre l’œuvre comme objet et l’œuvre comme sujet».59

Le stesse ipotesi fortiniane sulla forma non si esauriscono in un contesto esclusivamente filologico-letterario; a partire dai saggi pubblicati su «Ragionamenti» e «Officina» alla fine degli anni Cinquanta, l’autore fa coincidere espressione poetica e identità sociale. D’altra parte, è possibile osservare in che modo gli stessi contributi di Fortini su argomenti apparentemente distanti dalle forme metriche si rivelino fruttuosi

55 G. Raboni, Poesia degli anni Sessanta, cit., p. 407.

56 Henri Meschonnic, Pour la poétique. I, Gallimard, Paris 1970, p. 17 [«Lo studio di un’opera in quanto

tale, e non della lingua e dentro la lingua, va definito in primo luogo in relazione alla stilistica […], per riconoscere i problemi specifici della, o di una poetica. Si tratta di entrare nell’opera, di individuare tutto ciò che la fonda, e che è il suo linguaggio, un linguaggio che non è né una confessione né, come intendevano almeno inizialmente i formalisti russi, una convenzione» (traduzione mia)].

57 Ivi, p.152. 58 Ivi, p. 27.

59 Ivi, p. 26 [«Esiste un cammino ininterrotto, reciproco, tra l’opera come oggetto e l’opera come soggetto»

per integrare la riflessione sulle regole e le scelte adottate dal poeta nel processo di scrittura in versi. In altri termini, Fortini utilizza la metrica per riferirsi alle organizzazioni sociali e istituzionali in un determinato momento storico e culturale, evitando cioè la riduzione dello studio sulla metrica a un dibattito puramente estetico, riservato agli specialisti del verso e ai critici delle forme letterarie. D’altronde, contro la netta separazione tra il pubblico e lo specialista della materia, Fortini scriveva a commento di un saggio di Cesare Segre:

Nel caso della critica letteraria, il critico non è colui che media ai lettori (né tanto meno ai confratelli critici) l’opera. Né il lettore è un critico impoverito e rozzo. Il critico non è colui che ‘legge’ per gli altri. Il critico letterario potrebbe essere colui che parla ad altri, (non in quanto specialisti di alcuna specialità né in quanto definiti da una funzione ma in quanto raggruppati o in conflitto, per situazione di cultura, ideologia, classe) pone l’opera letteraria ed i suoi significati in rapporto con tutto quel che egli sa del pensiero, delle ideologie, delle credenze, della società: sapere nel senso di sapienza e non solo in quello delle scienze positive; e con quel che egli crede e vuole, in un dichiarato confronto fra il messaggio letterario e gli altri messaggi che lui critico attraversano e visitano, in una pubblica recognizione dei piani diversi e contraddittori, ma inseparabili della teoresi e della pratica, degli adempimenti formali della poesia e delle informi inadempienze della storia. Sotto pena di scambiare per dialogo il monologo con se stesso, il critico letterario non potrà non servirsi dei contributi della filologia e di una possibile scienza letteraria (oggi, della linguistica, della semiologia, delle indagini strutturali), ma a patto di servirsene nella loro vulgata, non nel loro latino; di impadronirsene, ove sappia e possa, con l’ostinazione dello specialista ma per usarne solo per quanto di sapere comune, o più comune, contengano, comportino o anticipino.60

L’attenzione al dato metrico come forma in grado di organizzare il componimento a partire da un fine si inserisce sullo sfondo di una dialettica impostata sulla lotta di classe come guerra per il controllo dei mezzi di produzione. Caratteristica di ogni testo è quella di riferirsi al suo contesto, nell’accezione del termine proposta da van Dijk e ripresa dallo stesso Fortini con più precisione negli anni Settanta, non nel senso esclusivamente linguistico di «situazione del discorso», ma come «insieme delle condizioni, azioni e funzioni psicologiche, sociologiche, storiche e antropologiche dei testi letterari».61 La

stessa ipotesi di una metrica per accenti – che verrà affrontata con maggiore considerazione nel capitolo quinto – potrà essere ricondotta entro i parametri di questo

60 SI, 294-295 (c. vo dell’autore).

61 Sui confini della poesia, NSI, p. 319, ora in Confini, p. 26; cfr. anche QF 143: «Per “testo letterario” o

“poetico” assumiamo qui, come van Dijk, la formulazione di Jakobson: è “letterario” o “poetico” quel testo che risulta dalla funzione poetica del linguaggio ossia da quella che il linguaggio assume quando l’attenzione si porta alla struttura piuttosto che al messaggio». Cfr. anche Opus servile, SE, pp. 1641-42.

schema interpretativo, che predilige il sistema di tensioni tra testo e contesto per verificare, nell’opera letteraria, i rapporti di classe rispecchiati nelle scelte formali e retoriche.